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Il community welfare è un riferimento sempre più frequente nelle proposte di riforma del welfare, dal “Libro Bianco sul futuro modello sociale” del Ministero del Lavoro (2009), a “Ripensare allo sviluppo del welfare locale” dell’ANCI (2012). Questi documenti programmatici esprimono però visioni piuttosto differenti e delineano un dibattito pubblico ancora incerto, dove manca un accordo non solo sulle soluzioni di policy da adottare, ma persino sui principi fondamentali che le dovrebbero ispirare. Quando si parla di community welfare, infatti, ci si divide. I fautori lo vedono come un’evoluzione dello stato sociale contemporaneo, i detrattori come un ritrarsi dell’ente pubblico e un ritorno a un passato in cui il welfare era in larga parte gestito dalla società civile organizzata (enti religiosi, corporazioni, ecc.). In questo contributo, proveremo a esplicitare alcuni nodi concettuali relativi al community welfare, nel tentativo di contribuire a fare chiarezza nel dibattito in corso in Italia.

Nel fare ciò, presteremo una particolare attenzione al community welfare applicato alla cura. Sempre più, infatti, si guarda al community welfare come soluzione per fronteggiare le sfide derivanti dalla crescita e differenziazione della domanda di cura che rendono inadeguate ed economicamente insostenibili le risposte fornite dallo stato sociale. Questo vacillante sistema è stato fino a oggi puntellato dal largo impiego, da parte delle famiglie, di lavoratori di cura immigrati, contenendo l’intervento e la spesa pubblica e aggiungendo ulteriore complessità al funzionamento di questo settore.

Cos’è il community welfare?

Il community welfare (di seguito CW) può essere considerato a tutti gli effetti una forma di welfare mix, contraddistinto da alcuni elementi peculiari.

Il primo è la compresenza di differenti categorie di regole o logiche di azione (Razavi 2007; Brennan et al. 2012):

  • la logica di mercato: la ricerca del profitto tramite la competizione;
  • la logica dello Stato: la garanzia dei diritti sociali attraverso la burocrazia;
  • la logica comunitaria o associativa: il perseguimento di certi valori e norme etiche attraverso organizzazioni formali non pubbliche;
  • la logica familiare: obbligazioni morali e relazioni sociali ed emozionali che si traducono in pratiche informali.

Il secondo elemento, comune al concetto di welfare mix ma molto più enfatizzato quando si parla di CW, è relativo al posizionamento dei differenti soggetti (pubblico, privato profit, privato sociale, famiglia, comunità): l’assetto istituzionale non dovrebbe privilegiare nessuno degli ambiti o dei soggetti coinvolti, per cui il pubblico non è sovra-ordinato agli altri soggetti e dovrebbe anzi aiutare i corpi sociali a realizzare la loro finalità, cosicché la regolazione statale diventi promozionale (enabling state) e si accompagni ad altri tipi di regolazione (Ascoli e Ranci 2003).

Un terzo elemento che contraddistingue il CW è il ruolo dei cittadini che da consumatori/utenti di welfare diventano anche produttori/distributori (Marcon e Scilletta 2013). In questa accezione, per esempio, i cittadini non sono concepiti come semplici clienti che scelgono tra un’ampia offerta di servizi quello che meglio risponde alla loro domanda, ma come stakeholder delle organizzazioni che li erogano (Donati 2006).

Un quarto e ultimo elemento, indubbiamente poco presente nella letteratura sul tema ma a nostro giudizio utile a comprendere la prospettiva entro cui si muove il CW, è rappresentato dalla ridefinizione del target. La collettività diventa un riferimento cruciale non solo in quanto produttrice di benessere, ma anche in quanto destinataria del welfare, generando una riformulazione del soggetto di cui si vuole accrescere il benessere. Detto altrimenti, il CW mira ad accrescere il benessere della collettività, non solo dei singoli individui.

Questione di forma o di sostanza?

Nel welfare mix e, di conseguenza, anche nel community welfare, a mischiarsi non sono solo e tanto i soggetti, quanto i sistemi di regole o, potremmo dire, le logiche di azione. Come sottolineano Ascoli e Ranci (2003), i nuovi modelli di welfare si possono dire misti non solo e non tanto perché coinvolgono soggetti non pubblici, ma soprattutto perché includono diverse forme di coordinamento tra i soggetti e si accompagnano a una pluralizzazione e diversificazione dei modelli regolativi.

Proviamo ad applicare questo principio in concreto. Se, per esempio, le organizzazioni del privato sociale diventano meri fornitori che competono con le imprese profit sul mercato dei servizi o, in seguito a un affidamento di servizio, sono chiamate a comportarsi come una public agency burocratizzandosi e seguendo logiche di azione che sono proprie dello Stato, non contribuiscono con la loro presenza alla pluralizzazione dei modelli regolativi e, di conseguenza, allo sviluppo del community welfare. In sintesi, non basta che i soggetti coinvolti abbiano differenti forme giuridiche: quello che conta è che agiscano in maniera diversa l’uno dall’altro.

Se si pensa ai lavoratori di cura impiegati nella famiglie, nostro specifico ambito di interesse, l’importanza di ragionare per logiche di azione è evidente. Se fondiamo l’analisi sui soggetti coinvolti, la famiglia e il lavoratore di cura, in quanto soggetti privati coinvolti in una transazione economica, dovrebbero collocarsi nell’ambito del Mercato. Se guardiamo alle logiche di azione, la situazione si rivela nella sua complessità, poiché famiglie e lavoratori di cura si situano a cavallo di differenti logiche: il Mercato, per cui le famiglie “acquistano” lavoro di cura a prezzi definiti in base ai meccanismi della domanda e dell’offerta; la Famiglia, per cui tra assistito e assistente si sviluppano pratiche che trascendono i contenuti del contratto di lavoro e si fondano su obbligazioni morali e legami emozionali; lo Stato, quando il pubblico, tramite procedure definite e standardizzate, contribuisce alla spesa per l’assistente familiare, lo forma o ne certifica le competenze o, ancora, lo seleziona e invia alla famiglia; la Comunità quando nell’assistenza all’anziano intervengono le organizzazioni di volontariato, come l’Auser, o i residenti del quartiere, come nei progetti Viva gli Anziani! a Roma, Ci Vediamo a Torino e i “Tavoli Anziani” a Reggio Emilia (per informaizoni su i Tavoli Anziani di Reggio Emilia si veda l’analisi contenuta nel paper di I. Ponzo, Il welfare di comunità applicato alla cura, 2014, cit.).

Queste considerazioni sono rilevanti non solo dal punto di vista analitico, ma anche di policy. Le norme italiane sulla regolazione dei flussi migratori, per esempio, assimilando la famiglia a un’azienda, prevedono l’assunzione del lavoratore di cura straniero direttamente dall’estero in base al sistema delle quote, come se si potesse scegliere quest’ultimo da un’anonima lista di nomi, in base alle competenze formali e certificate, senza prestare alcuna attenzione agli aspetti relazionali. Il risultato è un sistematico aggiramento della legge, per cui il lavoratore di cura viene selezionato in Italia e, qualora non sia titolare di un permesso di soggiorno, si finge un’assunzione dall’estero o si ricorre alle frequenti regolarizzazioni, che nell’ultimo decennio si sono infatti concentrate proprio su questa categoria di lavoratori cercando di sopperire all’inadeguatezza della normativa (Salis 2014; Castagnone e Salis 2013). Limitarsi a considerare la natura giuridica dei soggetti coinvolti e sottovalutare il complesso intreccio di meccanismi che presiede il funzionamento dei servizi di cura rischia quindi di generare effetti perversi.

Dove è utile applicare il community welfare?

Lo Stato è intervenuto nella produzione di welfare per varie ragioni, tra cui il “fallimento” dei meccanismi di Mercato e Comunità, incapaci di garantire equità e standard di vita minimi (Fumjimura 2000). Oggi il community welfare è visto da molti come un rimedio ai “fallimenti” dello Stato. In realtà, ognuno di questi principi regolativi ha i suoi punti di forza e debolezza e nessuno da solo sembra capace di garantire il funzionamento dei sistemi di welfare contemporanei.

Lo Stato, per esempio, funziona bene quando la domanda di un servizio di welfare è consistente e abbastanza omogenea da poter essere soddisfatta da un’offerta standard oppure nel caso di trasferimenti monetari, il cui ammontare è determinato da criteri oggettivi e misurabili, come il grado di invalidità, il reddito familiare, ecc.

Il Mercato si presta per scambiare beni o servizi che possono essere comparati in base al principio dell’equivalenza monetaria, per cui il “cliente” può facilmente confrontare i servizi e scegliere quello con il miglior rapporto qualità/prezzo, come nel caso degli esami medici o delle assicurazioni sanitarie.

Stato e Mercato tendono invece a “fallire” nella produzione di servizi relazionali, a cui i servizi di cura appartengono, ossia quei servizi prodotti tramite le relazioni e dipendenti dunque dalla qualità del rapporto user-provider. Il carattere relazionale delle prestazioni fa sì che fattori cruciali di qualità siano infatti la fiducia, la flessibilità e l’attenzione alle esigenze del cliente, ossia fattori difficilmente riducibili a criteri omogenei e parametri standard misurabili a priori (Ranci 2003).

I meccanismi su cui si basa la scelta del lavoro di cura da parte delle famiglie sono un chiaro esempio di quanto appena detto. All’assistente familiare si richiedono infatti non solo competenze accertabili tramite il curriculum, ma anche e soprattutto premura, affetto e affidabilità – se il lavoratore di cura è immigrato, anche l’affinità culturale può essere un fattore giudicato importante (Bettio, Simonazzi e Villa 2006). Per questa ragione, nella ricerca di un lavoratore di cura, più che a soggetti pubblici o profit, che probabilmente ignorano queste informazioni o avrebbero persino interesse ad ometterle affinché l’assunzione vada a buon fine, le famiglie fanno ricorso al passaparola oppure ad associazioni ed enti religiosi (Ambrosini e Cominelli 2005), ritenuti intermediari più affidabili, poiché perseguono obiettivi differenti dal profitto e instaurano relazioni significative con i lavoratori di cura che ad esse si rivolgono in cerca di un impiego, avendo così accesso a informazioni più ricche rispetto a quelle contenuto in un curriculum. La Comunità finisce così per essere il meccanismo principale attraverso cui le famiglie cercano e trovano lavoro di cura. In assenza di un assetto regolativo che tenga conto delle peculiarità di questi servizi, le famiglie si trovano però sovente sole a creare il mix che è alla base del CW, combinando i meccanismi di Stato, Mercato, Famiglia e Comunità in un “community welfare fai da te”.

Quale ruolo del pubblico nel community welfare?

Come abbiamo detto inizialmente, tra gli elementi che contraddistinguono il community welfare vi è la posizione paritaria dei diversi soggetti, che dovrebbero interagire senza stabilire gerarchie ex-ante, ma solo sulla base di una divisione funzionale dei compiti (Donati 2006).

Se il pubblico non si definisce più secondo la sua posizione di vertice, ma in base alle sue funzioni, diviene quindi imprescindibile capire quali siano tali funzioni. Tra queste possiamo di certo menzionare la definizione e il presidio dei meccanismi di redistribuzione delle risorse e la gestione strategica del sistema (Marcon e Scilletta 2013). Inoltre, il pubblico continua ad essere il garante ultimo dei diritti di cittadinanza (Belardinelli 2006). Quest’ultima funzione è particolarmente importante, poiché soluzioni di CW potrebbero accentuare le disparità territoriali nell’offerta di welfare laddove vi siano significative differenze nella dotazione di risorse economiche e sociali e di capitale umano che le comunità locali sono in grado di investire nella produzione di welfare.

Partendo da questa constatazione, un’altra funzione che il pubblico può svolgere è quella di fornire capacità e risorse per supportare lo sviluppo degli altri soggetti del CW, laddove deboli, facendosi così “enabling state”, “stato capacitante”. Per esempio, i governi locali possono agire come incubatori di meccanismi di Comunità formando i cittadini su come creare una loro impresa, fornendo servizi di back office, incentivando lo sviluppo di partnership ed economie di scala (Murray 2012).

Al fine di “graduare” l’intervento del pubblico nei diversi territori, è importante che la sussidiarietà orizzontale (in base alla quale il pubblico interviene solo laddove la società civile non può farcela da sola) sia accompagnata da una sussidiarietà verticale (secondo cui le competenze vengono lasciate al più basso livello di governo possibile) che consenta di modellare il mix tra Stato, Mercato, Comunità e Famiglia in base alla configurazione dello specifico contesto e dei soggetti locali. In termini concreti, le cooperative sociali dell’Emilia-Romagna o le imprese sanitarie lombarde non si ritrovano con le stesse caratteristiche e risorse in tutte le regioni italiane, per cui una conformazione di CW che può funzionare lì non è detto che funzioni con altrettanto successo altrove.

L’estensione delle varie forme di regolazione (Stato, Mercato, Famiglia, Comunità) e i reciproci rapporti tra i soggetti difficilmente possono essere identici su tutto il territorio nazionale.

In conclusione, una riforma orientata a sviluppare soluzioni di community welfare, più che mirare a ridurre la spesa pubblica, come troppo spesso avviene, dovrebbe avere l’obiettivo di liberare opportunità e risorse che il welfare state centrato sulla pubblica amministrazione non riesce a far emergere (Marcon e Scilla 2013), senza dare per scontato che risorse pubbliche, private, familiari e comunitarie siano tra loro interscambiabili, per cui l’aumento dell’una consenta automaticamente la diminuzione dell’altra.

*L’articolo è parzialmente tratto dal paper Il welfare di comunità applicato alla cura presentato alla Conferenza ESPANET “Sfide alla cittadinanza e trasformazione dei corsi di vita: precarietà, invecchiamento e migrazioni” Torino, 18-20 Settembre 2014. e si basa sui risultati del progetto “Il nuovo care mix” e dell’area di ricerca “Tendenze di policy e della governance migratoria in Europa” sviluppati da FIERI grazie al supporto della Compagnia di San Paolo.

 

Riferimenti 

Ambrosini, A. e Cominelli, C. (2005) (a cura di), Un’assistenza senza confini: Welfare “leggero”, famiglie in affanno, aiutanti domiciliari immigrate, Osservatorio Regionale per l’integrazione e la multietnicità della Lombardia, Fondazione Ismu, Milano.

Ascoli, U. e Ranci, C. (2003), Il Welfare Mix in Europa, Roma, Carocci.

Bettio, F., Simonazzi, A. e Villa, P. (2006), Change in care regimes and female migration: the "care drain" in the Mediterranean, "Journal of European Social Policy", vol. 16, n. 3, pp. 271-285.

Brennan D, Cass B., Himmelweit S. e Szebehely M. (2012), The Maketization of care: Rationales and Consequences in Nordic and liberal care regimes, in “Journal of European Social Policy”, vol. 22, n. 4, pp. 377–391.

Castagnone E., Salis E. et al. (2013), Promoting integration for migrant domestic workers in Italy, International Migration Paper n°115. Geneva, International Labour Office.

Donati, P. (2006), Famiglia e sussidiarietà: nuove politiche sociali che generano benessere comunitario, in Belardinelli S. (a cura di), Welfare Community e sussidiarietà, Egea, Milano, pp. 67-90.

Fujimura, M. (2000), The Welfare State, the Middle Class, and the Welfare Society, in “Review of Population and Social Policy”, n. 9, pp. 1-23.

Marcon, G. e Scilletta, C. (2013), Il ruolo del welfare civile nel welfare mix. I bisogni non evasi dal welfare pubblico, Osservatorio di Economia Civile, Camera di Commercio di Treviso, Treviso.

Murray, R. (2012), The new wave of mutuality. Social innovation and public service reform, London, Policy Network.

Ranci, C. (2003), L’economia mista dei servizi di cura in Europa, in U. Ascoli e C. Ranci, Il welfare mix in Europa, Roma, Carocci, pp. 45-70.

Razavi, S. (2007), The political and social economy of care in a development context. Conceptual issues, research questions and policy options, Gender and Development Programme, Paper n. 3, United Nations Research Institute for Social Development, Ginevra.

Salis, E. (2014), A crucial testing ground, in Comparative Migration Studies, vol. 2, n. 4, pp. 519-545, 

 

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