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Stoccolma, maggio 2013. Londra, agosto 2011. Prima ancora, Parigi, autunno 2005. Tre periodi diversi, tre Paesi diversi, tre modelli sociali diversi, ma la stessa dinamica. L’esplosione di un conflitto che nasce dalla crisi della coesione sociale e che può dare avvertimenti importanti anche per il nostro Paese, se non oggi, tra qualche anno.

I fatti

Stoccolma, 13 maggio 2013. Nel sobborgo di Husby, un sessantanovenne di origini portoghesi con problemi di salute mentale sequestra nella sua casa una donna. Quando la polizia cerca di liberarla, l’uomo reagisce minacciandola con un machete, così la polizia spara e lo uccide. La notte del 19 maggio scoppia una rivolta che dal quartiere si propaga in numerosi sobborghi della capitale e di altre città svedesi per cinque giorni coinvolgendo giovani e adolescenti, perlopiù di origini immigrate.

Londra, 4 agosto 2011. Nel quartiere di Tottenham la polizia cerca di arrestare Mark Duggan, 29enne nero. L’uomo, armato, ferisce un poliziotto provocando la risposta della polizia che apre il fuoco, uccidendolo. Il 6 agosto familiari ed amici organizzano una protesta pacifica per chiedere alle autorità chiarimenti sull’episodio. La stessa notte iniziano una serie di violenti scontri, incendi e saccheggi che si propagano in vari quartieri della città e in altre città inglesi. La protesta cessa dopo sei giorni, con 5 vittime e almeno 1500 arresti.

Parigi, 27 ottobre 2005. A Clichy-sous-Bois, cittadina a pochi chilometri da Parigi, due adolescenti di origine nordafricana muoiono fulminati nella cabina elettrica in cui si erano introdotti scavalcando una rete metallica. Un amico, Muhittin Altun, 17 anni, sopravvissuto con gravi ferite, racconta di essersi nascosto con i compagni per sfuggire ai poliziotti dai quali pensava di essere inseguito. La sera stessa cominciano gli scontri tra diverse centinaia di giovani e le forze dell’ordine. Due giorni dopo viene organizzata una manifestazione pacifica in ricordo delle vittime, il 30 ottobre una granata di gas lacrimogeno viene lanciata nella moschea della città, in quel momento gremita di fedeli. La notizia scatena una serie di sommosse che si propagano nelle banlieues di numerose città francesi per ventuno notti consecutive, durante le quali sono state incendiate novemila automobili, devastati o danneggiati numerosi edifici pubblici, in gran parte scuole, e sono state fermate più di tremila persone, perlopiù adolescenti.

Pur trattandosi di episodi collocati in contesti molto differenti dal punto di vista sociale e spazio-temporale, ci sono tre elementi costanti a partire dai quali possiamo cercare di analizzare i fatti: il luogo, i sobborghi; il gruppo sociale, gli immigrati (o cittadini di origine immigrata); l’età, sotto i trent’anni, spesso molto meno. E un’unica dinamica: una persona, generalmente proveniente dallo stesso background dei “rivoltosi” viene uccisa durante uno scontro con la polizia, che agli occhi di questi ultimi incarna l’autorità, cioè lo Stato da cui essi si sentono socialmente esclusi, scatenando uno scontro.

Modelli sociali e conflitto

Prima di tutto, facciamo una rapida riflessione sui modelli sociali di questi Paesi.

Cominciamo dal caso inglese. Il Regno Unito ha una discreta “familiarità con i conflitti sociali”. Diversi fattori possono spiegare questa tendenza: la separazione tra classi, nata con la rivoluzione industriale e ancora piuttosto accentuata; un sistema produttivo fortemente industrializzato che è stato spesso causa di dure tensione sociali, il cui culmine è avvenuto con gli scioperi degli anni ‘70 e quelli dei minatori del 1984-85; una cultura conservatrice dove monarchi e lord sono ancora notevolmente riconosciuti e influenti; una quota di tensioni razziali elevata a causa dello straordinario multiculturalismo urbano; una polizia tra le più severe del continente. Infine, un indice di Gini tra i più alti d’Europa – almeno in epoca pre-crisi (Eurostat, 2013) -, principalmente dovuto ai bassi livelli di demercificazione e destratificazione1 tipici dello stato sociale di tipo liberale (Esping-Andersen, 1990).

Oltre che una maggiore “familiarità” con i “teppisti”. Basta pensare al fenomeno degli hooligans e a quello delle gang giovanili, tant’è che qui i riots hanno spesso assunto una forma diversa dagli altri casi che vedremo in seguito, trasformandosi talvolta in veri e propri saccheggi e furti, soprattutto di nuove tecnologie. Anche la composizione dei rioters è differente: tra di loro sono stati arrestati anche numerosi cittadini del ceto medio-alto. Quindi, in sostanza, le “guerriglie urbane” qui ci stupiscono, ma non troppo.

In Francia, Paese dell’egalité, ci stupisce un po’ di più. Benché il livello di destratificazione francese non sia molto alto, si tratta di un paese con un welfare complessivamente generoso, che però è stato oggetto di un forte ridimensionamento. In particolare, all’epoca dei fatti, era stata avviata una svolta nella direzione di una minore intromissione dello Stato e di una stretta sulla popolazione immigrata, per cui erano sempre più frequenti scontri tra quest’ultima e la polizia. La Commission Stasi, nel 2003, aveva già segnalato come in certi quartieri le condizioni di benessere fossero compromesse a causa della crescita della disoccupazione, fino al 40%, di problemi acuti di scolarizzazione e allarmi sociali tre volte più alti che nel resto del territorio, in particolar modo per i più giovani.

In Svezia, esempio del virtuoso modello scandinavo, ci stupisce molto. Il Paese ha infatti uno dei sistemi di welfare più efficienti ed efficaci del mondo. Dopo decenni di generose prestazioni sociali, tuttavia, dal 1990 è stata avviata una progressiva riduzione dell’intervento pubblico volta a trasformare lo stato previdenziale socialdemocratico in un sistema meno generoso ma economicamente più sano e competitivo. In particolare, sono state attuate delle riforme fiscali finalizzate a incentivare il lavoro, correggendo la distorsione per cui tra chi lavorava e chi no c’era poco scarto di reddito. Un processo che, secondo alcuni, avrebbe provocato un aumento delle diseguaglianze. Secondo un recente rapporto OECD, la Svezia è infatti il Paese in cui le differenze tra ricchi e poveri sono maggiormente peggiorate tra il 1995 e il 2010, col raddoppio del numero di poveri. Sebbene sul lungo periodo tutte le fasce della popolazione hanno registrato un miglioramento delle loro condizioni di vita, alcuni gruppi sono stati più favoriti di altri e questo si è tradotto in un aumento delle disuguaglianze, soprattutto tra chi lavora e chi non esercita alcuna attività professionale. Il risultato è che il Paese è passato dal primo al 14° posto della classifica dei paesi più egualitari. Quindi, mentre gli standard di vita medi sono ancora tra i più alti in Europa, i governi non sono riusciti a ridurre sensibilmente la disoccupazione giovanile e il tasso di povertà, che hanno colpito soprattutto le comunità di immigrati.

Secondo alcuni, questo dimostrerebbe i limiti del nuovo modello svedese, dove la tradizione umanitaria si scontra con la realtà budgetaria ed economica dello “stato previdenziale light” (Le Monde, 2013). “Vediamo un sistema scolastico riformato con gravi peggioramenti nella qualità dell’istruzione. Scuole dove mancano le risorse. Vediamo una politica abitativa che produce carenza di alloggi a buon mercato. Vediamo, nella maggior parte dei casi, come gli affitti stiano aumentando drasticamente con la scusa che le case sono state restaurate quando in realtà solo le facciate sono state tinteggiate” ha dichiarato Megafonen – gruppo che si occupa della promozione del cambiamento nei quartieri disagiati svedesi – commentando le rivolte.

Rifuggendo da letture semplicistiche, quello che emerge è che a essere colpiti sono tre contesti e tre modelli sociali differenti: quello liberale, quello corporativo-conservatore e quello socialdemocratico, riprendendo la classificazione di Esping-Andersen. Nessuno ha potuto prevenire completamente la generazione del conflitto, e la particolare congiuntura economica impone a tutti di fermarsi a riflettere sulla capacità di garantire coesione e, quindi, equilibrio sociale.

Sviluppo urbano e conflitto sociale

Passiamo ora al luogo delle rivolte, i sobborghi.

Il quartiere di Haringey, dove si trova Tottenham, ha la più alta disparità sociale di Londra, con un tasso di disoccupazione del 10,5% (8,6% nel resto della città) che arriva al 20,8% tra i 16 e i 24 anni. Questa zona è stata oggetto nel corso degli anni di un processo di gentrificazione2 che ha comportato, da una parte, il trasferimento di parte della popolazione residente in zone più economiche, dall’altra l’ha trasformato in un quartiere abitato da una working class che solo in pochi casi è proprietaria dell’abitazione in cui vive. Questo fenomeno ha generato sul lungo periodo sentimenti di alienazione e risentimento, alimentando quella mentalità “noi-loro” tra abitanti e proprietari che è esplosa nel 2011. La combinazione di investimenti esterni e di un mercato degli affitti senza regole in quartieri con alta disoccupazione e povertà avrebbe quindi costituito un mix esplosivo (Coughlan, 2013).

Clichy-sous-Bois è una cittadina a 15 km a est di Parigi – si può considerare quindi periferia della capitale – che, da piccolo villaggio, negli anni ’60 ha conosciuto un forte sviluppo edilizio, in seguito all’arrivo di numerosi immigrati tunisini, algerini e marocchini collocati nei grands ensembles, i “palazzoni” tipici delle banlieues francesi. Gli abitanti sono quindi perlopiù immigrati di prima o seconda generazione e circa la metà hanno meno di 25 anni. La percentuale di disoccupati costituiva nel 2005 il 23% (50% tra giovani). Le condizioni dei sobborghi francesi all’epoca dei fatti erano gravi: tasso di disoccupazione medio tra il 20 e il 40 per cento – il doppio della media nazionale -; alto numero di atti vandalici e disordini tra gang giovanili; problemi di sicurezza pubblica inaspriti dai tagli alle forze di polizia, ridotta da 468 a 205 agenti dal 2000 al 2005 (Le Monde, 2005). Si stava delineando, inoltre, una pericolosa emergenza abitativa: a causa “dell’impennata” dei prezzi dei centri cittadini e della non sufficienza degli alloggi pubblici (nel 2004 più di 100.000 persone si sono contese 12.000 alloggi popolari) molte persone, prevalentemente immigrati, si sono riversate in edifici fatiscenti, abusivi e spesso sovraffollati. E’ proprio in questi edifici, tra l’altro, che sono scoppiati gli incendi che hanno colpito la città nella primavera e nell’estate del 2005 e in cui sono morti anche numerosi bambini.

Anche Husby è un sobborgo difficile: il 60% della popolazione è nata all’estero (sono 114 le nazionalità censite) e se si aggiungono coloro che sono nati in Svezia da genitori nati all’estero la percentuale arriva all’85%. E anche qui sussiste lo stesso problema di housing. Recenti migliorie effettuate sulle abitazioni hanno portato una forte crescita dei canoni di affitto, rendendoli insostenibili per una fascia crescente degli abitanti, soprattutto se contiamo che il tasso di attività si attesta intorno al 40%, cioè 25 punti in meno rispetto alla media nazionale.

Si tratta quindi di periferie divenute delle sorti di ghetti e che rappresentano quasi un altro mondo rispetto a quello della nazione dove si trovano.

La questione dell’immigrazione

Passiamo alla questione degli immigrati. Innanzitutto bisogna precisare che si tratta di tre Paesi che si trovano ad uno stadio differente del processo di immigrazione.

Nel caso della Gran Bretagna e della Francia, ex imperi coloniali, si tratta di un’immigrazione ormai “storica”, iniziata con l’arrivo della popolazione dalle colonie, per cui possiamo parlare già di terza generazione e, più che di immigrati, di francesi o inglesi di origine straniera. Di conseguenza, il livello generale di integrazione è più alto rispetto, ad esempio, all’Italia, dove il fenomeno è più recente, ma ciononostante non ancora completo. Anzi, la crescita di questa componente, oggi non più così minoritaria, sta generando insofferenze da parte del resto della popolazione.

Il discorso sulla Francia merita un’attenzione particolare. La maggior parte della popolazione immigrata in Francia proviene, come abbiamo detto, dalle ex colonie, soprattutto dal Maghreb, ed è quindi di religione islamica (nel 2005 la componente Musulmana variava dal 5 al 10 percento della popolazione a seconda delle città). Si tratta pertanto di un’integrazione più complessa perché si inserisce nel più generale conflitto Islam-Occidente. Le rivolte francesi hanno infatti avuto luogo nel 2005, cioè pochi anni dopo l’11 settembre 2001, e pochi mesi dopo gli attentati di Londra, che hanno provocato in tutto il mondo occidentale, e anche in Francia, tensioni sociali e atteggiamenti di chiusura.

Secondo alcuni, quindi, le rivolte delle banlieues andrebbero collocate in questo clima generale, che sarebbe la causa di alcuni dei fatti che hanno alimentato le tensioni nei mesi precedenti gli scontri: il lancio di una granata sulla moschea di Clichy-Sous-Bois, le dichiarazioni dell’allora Ministro degli interni Nicolas Sarkozy, che pochi mesi prima, commentando l’uccisione di un ragazzo da parte di una gang rivale nella periferia di La Courneuve, aveva affermato di voler “ripulire le banlieues” con il “karcher”, l’idrante utilizzato per il lavaggio delle auto e, in seguito, aveva usato termini come racaille, feccia, e voyous, canaglie riferendosi agli abitanti. Secondo altri, il conflitto è invece iniziato molto prima, precisamente nel dopoguerra – quando i magrebini sono venuti in Francia come manodopera impiegata nella ricostruzione e poi nel boom economico – dove sarebbe mancato, a livello politico, un progetto concreto di integrazione degli stranieri nella comunità nazionale, generando una compartimentazione della società in comunità etniche incomunicanti.

In Svezia l’immigrazione è invece un fenomeno più recente. Per molto tempo il Paese è stato molto aperto agli stranieri, tant’è che circa il 15 per cento della popolazione è nata all’estero, perlopiù in Turchia, Libano, Somalia, e, negli ultimi tempi anche Iraq, Afghanistan e Siria, grazie alle politiche di asilo adottate negli ultimi decenni3, a partire dal conflitto nei Balcani. Benchè la Svezia sia quindi un Paese piuttosto accogliente – ci sono numerosi programmi statali per l’integrazione, corsi di lingua e di storia gratuiti e l’assistenza e le opportunità di lavoro sono equiparate a quelle degli svedesi – in molti casi l’integrazione degli immigrati all’interno della società è risultata molto difficile e tra loro il tasso di disoccupazione è di dieci punti maggiore rispetto quello degli Svedesi (16% contro 6%).

Il problema della convivenza sta diventando sempre più complesso, come dimostra la crescita delle destre xenofobe: il partito antimmigrazione svedese, Sverigedemokraterna, è entrato nel 2010 per la prima volta in Parlamento ed è dato dai sondaggi al terzo posto in vista delle elezioni del prossimo anno. Marine Le Pen, leader del Front National, alle presidenziali del 2012 ha ottenuto il 17,9% dei voti (+5,9% rispetto ai voti che il FN ha avuto alle regionali del 2010). In Gran Bretagna lo UK Independence Party ha ottenuto il 23% dei consensi alle elezioni locali del 2013 (ottimo risultato se pensiamo che i conservatori hanno preso il 25%), e il governo sta valutando come limitare l’ingresso di immigrati anche dai Paesi comunitari.

Da una parte quindi cresce l’insofferenza verso gli immigrati – quando le risorse scarseggiano, come nei periodi di crisi, è molto più difficile accettare di condividerle -, ma dall’altra i cittadini immigrati – o cittadini di origine straniera – specialmente quelli che sono nati e cresciuti nel Paese, stanno diventando una componente consistente della popolazione che non può essere ignorata.

La questione generazionale

Infine, il conflitto ha un’importante componente generazionale: in tutti e tre i casi i “rivoltosi” sono molto giovani, spesso minorenni.

Nel quartiere di Husby, dove sono stati fermati addirittura dei 12enni, la disoccupazione giovanile è il doppio di quella della capitale. Secondo le cifre dell’agenzia per l’occupazione svedese, nel 2010 il 20% dei giovani non svolgeva alcuna attività: un ragazzo su cinque tra i 16 e i 19 anni era senza lavoro o non andava a scuola, dedicandosi come alternativa alla microcriminalità (un’alta percentuale dei rioters fermati dalla polizia ha precedenti penali). Il quartiere di Haringey, dove si trova Tottenham, aveva un tasso di disoccupazione del 20,8% tra i 16 e i 24 anni, cioè più del doppio di quello totale (10%). A Clichy-sous-Bois, dove circa la metà della popolazione nel 2005 era under 25, la disoccupazione giovanile si attestava intorno al 50%.

C’è un altro aspetto importante: in molti dei casi i ragazzi fermati non sono esattamente immigrati, ma nati da genitori immigrati, o cittadini di origine immigrata. Nel caso delle rivolte delle banlieus francesi, ad esempio, è stato riportato che su 1.800 persone fermate solo 120 erano effettivamente stranieri, mentre tutti gli altri cittadini francesi di origine immigrata.

Che si tratti di “rivolte giovani” è dimostrato anche dalle modalità di organizzazione. Grazie ai moderni strumenti di comunicazione – mail, sms e, nel caso di Londra e Stoccolma, i social network, i partecipanti si coordinano, si informano e si scambiano notizie. Si tratta di strumenti che velocizzano esponenzialmente i tempi di organizzazione, rendendo il lavoro delle forze dell’ordine molto più complesso.

Parliamo quindi di una fascia di popolazione che si trova in una sorta di “limbo”: non studia ma non lavora, non è straniera ma non è cittadina – o almeno non sente di esserlo – del paese in cui vive. Una condizione di incertezza che contribuisce ad alimentare sentimenti di esclusione sociale e di risentimento pronti a esplodere alla prima occasione, come dimostrano i fatti riportati.

Quali conclusioni?

I fatti presentati rivelano che c’è una posta importante nella crisi economica: la coesione sociale. La crisi economica sta allargando drasticamente la forbice tra gli insiders e gli outsiders della società: tra centro e periferia, tra giovani e meno giovani, tra vecchi e nuovi gruppi sociali. Allo stesso tempo, la scarsità di risorse induce ogni categoria a chiudersi alle altre, a “custodire” per sé il poco a disposizione, favorendo l’aumento del conflitto. Si tratta di una situazione che, se non governata, potrebbe produrre problemi di ordine pubblico e squilibrio urbano e riportare il conflitto sociale ad alti livelli anche in Europa.

Il quadro descritto contiene un ammonimento importante anche per il caso italiano. Attualmente il 14,9% degli stranieri vive in condizioni di deprivazione abitativa. Di questi, il 22% è minorenne (Anci, 2012). I minori di 18 anni nati nel nostro Paese sono ormai più di 500 mila, poco meno del 60% del totale, in gran parte non riconosciuti come cittadini italiani (Unicef, 2012). Non solo. La disoccupazione giovanile si attesta oggi al 17,5% tra i 25 e i 34 anni e al 41,9% per gli under 25 (Istat, 2013). Abbiamo, cioè, molte delle premesse perché quanto accaduto all’estero si verifichi anche in Italia, nonostante il contesto italiano sia per molti versi differente.

È quindi necessario che la riforma del nostro stato sociale preveda quel processo di ricalibratura atto a includere quelle categorie ad oggi poco tutelate, come le nuove generazioni, e che l’alleggerimento dello Stato avvenga senza sacrificare eccessivamente la coesione sociale. A questo scopo devono essere attiviate politiche che ri-equilibrino la società e ne integrino le diverse componenti, a cominciare dalle politiche di sviluppo urbano – ad esempio grazie ad interventi di social housing – attraverso cui contenere il conflitto centro-periferia e prevenire la formazione di aree ghetto che diventino “covi” di risentimento e di disordine pubblico. Da lucide politiche di integrazione, che comprendano che nell’epoca della globalizzazione è utopico pensare che arroccarsi dentro i propri confini sia una soluzione praticabile e, allo stesso tempo, non sottovalutino i problemi che inevitabilmente nascono dalla convivenza di culture differenti, processo che deve essere guidato e accompagnato. E da un patto generazionale per cui chi è stato protetto – in molti casi sovra-protetto – per anni, accetti di cedere qualcosa a chi non ha avuto – e probabilmente non avrà mai più – la stessa protezione.

 

Per approfondire

Note

  1. Demercificazione e destratificazione sono le due dimensioni attraverso le quali Esping-Andersen ha elaborato la propria classificazione dei regimi di welfare. La prima, ispirandosi al pensiero di Polanyi, connota il grado in cui gli individui situati all’interno di un determinato regime di welfare possono liberamente astenersi dalla prestazione lavorativa senza perdite significative di reddito o, in generale, di benessere; la seconda indica invece il grado in cui la conformazione delle prestazioni sociali dello Stato attutisce (fino ad annullare), le differenze di status occupazionale o di classe sociale. Queste due dimensioni danno luogo a tre regimi di welfare: liberale, conservatore-corporativo e socialdemocratico, caratterizzati da una diversa efficacia nel modificare la distribuzione delle chance di vita prodotte dalla sfera del mercato e da quella della famiglia. L’efficacia è massima nel regime socialdemocratico, media in quello conservatore-corporativo, minima in quello liberale.
  2. Dal termine inglese gentry, piccola nobiltà, indica i cambiamenti socio-culturali che avvengono in un quartiere medio-basso a seguito dall’acquisto di beni immobili da parte di una fascia di popolazione benestante determinando la riqualificazione dell’area e quindi l’innalzamento dei costi di affitto
  3. I richiedenti asilo nel 2012 sono stati quasi 44 mila (la popolazione totale della Svezia è di 9,4 milioni).