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Le misure sulle pensioni saranno il piatto forte della prossima legge di stabilità. Equità sociale e flessibilità figurano tra le prime motivazioni dell’accordo fra governo e sindacati. Il “pacchetto” costerà circa sei miliardi di euro nel corso dei prossimi tre anni. Con i tempi che corrono, non è certo una cifra da poco.

La maggiore libertà di scelta riguardo all’età di pensionamento verrà realizzata tramite un sistema di prestiti. Anche se avrà una componente “sociale” onerosa per lo stato, l’ “anticipo pensionistico” (APE) dovrebbe avere costi relativamente contenuti. L’APE faciliterà la soluzione di alcuni problemi generati dalla riforma Fornero per lavoratori e imprese. Non illudiamoci però che possano esserci significative ricadute sull’occupazione giovanile. Come ha dimostrato l’Istat nel suo ultimo Rapporto Annuale, il pensionamento degli anziani non si traduce automaticamente in nuove assunzioni di giovani. I settori che creano nuovi posti di lavoro sono infatti diversi da quelli che espellono occupati anziani.

Sul fronte dell’equità, nel loro insieme i contenuti dell’accordo lasciano alquanto a desiderare. Sono da valutare positivamente le facilitazioni per i ricongiungimenti contributivi e i lavori usuranti, ma il grosso delle risorse verrà speso per aumentare gli importi delle pensioni più basse. La platea dei potenziali beneficiari includerà tutti i percettori della cosiddetta 14ª mensilità. Secondo stime dell’Inps, meno della metà di questi pensionati si trova in condizioni di bisogno economico. Gli altri vivono in unità familiari con reddito complessivo ben al di sopra della soglia di povertà.

Se si fosse veramente perseguita l’equità, gli aumenti avrebbero dovuto essere filtrati tramite l’Isee, che misura per l’appunto la situazione economica della famiglia. Va poi considerato che nel nostro paese la povertà è oggi più diffusa fra i minori che non fra gli anziani. Invece di un intervento a pioggia che rischia di beneficiare anche chi non ha bisogno, sarebbe stato meglio stanziare più soldi per le famiglie con minori in condizioni di indigenza.

Più in generale, sembra opportuno chiedersi: in un paese che non riesce a riprendersi dalla crisi è davvero una priorità aumentare (in deficit) la spesa pensionistica, che peraltro è già fra le più alte d’Europa? Non sarebbe più opportuno investire nel welfare “per la crescita”? La primavera scorsa il governo sembrava orientato, ad esempio, a introdurre incentivi e sostegni all’occupazione delle donne: sgravi contributivi, detrazioni, servizi. L’Italia non cresce anche perché non riesce ad attivare il “motore” del lavoro femminile. Dal canto suo, il nostro sistema educativo è molto lontano dagli standard UE ed è fortemente sotto-finanziato. Non formiamo il capitale umano necessario per imboccare la “via alta” alla globalizzazione, quella imperniata su innovazione, tecnologia, servizi avanzati.

C’è poi un ostacolo grande come una casa che ostacola crescita e occupazione: il cosiddetto cuneo fiscale. Le aziende italiane pagano troppi contributi: il 33% solo per le pensioni, una delle percentuali più elevate al mondo. Il successo del Jobs Act (più assunzioni a seguito della riduzione del costo del lavoro) sono la prova “a contrario” del legame perverso fra le modalità di finanziamento del nostro welfare e il mercato occupazionale. Lungi dall’essere una droga, gli sgravi contributivi sono uno strumento per mettere le nostre imprese alla pari con i loro concorrenti stranieri.

Molti hanno salutato il confronto governo-sindacati come un salutare ritorno alla concertazione. Ma quest’ultima è utile solo se persegue un qualche interesse generale, come nella tradizione nord-europea. In tutta sincerità, l’accordo del 28 settembre non sembra un passo in questa direzione.


Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 29 settembre 2016