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Il 23 giugno su Corriere Buone Notizie è uscita la nostra inchiesta sull’impactto che il Covid-19 sta avendo sulla digitalizzazione del Terzo Settore. Come spiega Fabio Fraticelli di TechSoup nel suo commento, che potete leggere di seguito, il tema degli investimenti digitali è ormai percepito come dirimente da un numero sempre più ampio di organizzazioni. Qui potete leggere l’articolo di contesto firmato da Paolo Riva.

Nella generale perdita di certezze degli ultimi mesi c’è un fatto che pare ormai incontrovertibile: il tema del digitale è definitivamente entrato nel Terzo Settore. Solo nel programma TechSoup, la domanda di suite per la collaborazione in cloud e la video conferenza ha segnato a marzo e aprile 2020 un secco +206 per cento rispetto allo stesso periodo del 2019. Una cosa mai vista. Dopo anni passati a «predicare» la rilevanza di avviare percorsi di trasformazione digitale consapevoli, il più delle volte sortendo timide o diffidenti reazioni, si è assistito a un vero e proprio assalto da chi cercava assistenza nell’adozione di soluzioni digitali.

Dopo anni passati a boicottare gli investimenti in tecnologia – «ci piacerebbe», «ne comprendiamo l’importanza» ma «ci sono altre priorità» e «le risorse finanziarie non lo consentono», da Bolzano a Catania, a macchia di leopardo – il Terzo Settore ha preso atto che siamo di fronte ad un bivio e che è arrivato il momento di fare scelte importanti sul ruolo che si intende dare alla tecnologia nello sviluppo dell’organizzazione. A colpire è soprattutto l’approccio con cui la domanda di innovazione oggi ci viene posta. Dopo un avvio segnato da doverismo – «la pandemia lo impone, occorre adeguarsi» – o isomorfismo – «lo fanno gli altri, quindi mi adeguo» – nelle ultime settimane è emersa una domanda più consapevole. Per alcune organizzazioni la «questione tecnologica» non si pone più esclusivamente in termini di reazione contingente alle eccezionali istanze ambientali, o di timido tentativo di incrementare l’efficienza gestionale, magari automatizzando porzioni del processo, ma è diventata un punto dirimente, strategico, che c’entra con la necessità di modificare alla radice il proprio modello di sostenibilità e impatto.

Non sappiamo se nei prossimi mesi si imporrà un «new normal» fatto di smart working, teleassistenza e consegne a domicilio. Possiamo però prendere spunto dai casi che affiorano dalla cronaca, come la ferramenta pugliese che ha iniziato a introdurre nuove tecnologie (realtà aumentata, in primis) per migliorare l’esperienza di acquisto dei clienti, per poi diventare una software house. Di storie così nel Terzo Settore ancora se ne vedono ben poche, ma ora c’è una maggiore disponibilità a sperimentare. Non c’è nessun trucco e non c’è alcuna ricetta segreta. Occorre rimboccarsi le maniche e sostenere percorsi di trasformazione digitale di medio periodo attraverso adeguati investimenti, nuove posizioni organizzative e partnership strategiche. Per questo anche tra i fornitori di tecnologia servono attori competenti che buttino il cuore oltre l’ostacolo, rinunciando fin da subito a concepire il Terzo Settore come un nuovo mercato per l’Ict (Information and communication technology) ma ponendosi con un genuino desiderio di accompagnare la crescita delle organizzazioni, ovvero guardando al contributo del digitale in termini di impatto sociale. Questa è la nostra opportunità di dimostrare al mondo che si può impiegare la tecnologia bene e per fare il bene.

Se non lo facciamo rischiamo che la trasformazione digitale da incredibile opportunità diventi la pietra tombale di tanta parte del Terzo Settore italiano.

 

Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 23 giugno nell’ambito della collaborazione tra Secondo Welfare e Buone Notizie; è qui riprodotto previo consenso dell’autore.