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Come evidenziamo spesso all’interno del nostro lavoro, ormai da alcuni anni il welfare state italiano si trova “sotto pressione”. In particolare, due specifiche dinamiche risultano condizionare l’efficacia delle sue azioni. La prima proviene dai vincoli di bilancio che, oltre a impedire incrementi di spesa, impongono misure di contenimento dei costi che molto spesso colpiscono il fronte degli interventi sociali, la cui domanda è però andata crescendo negli anni della crisi. La seconda dinamica è invece connessa alle rapide trasformazioni della struttura dei bisogni sociali, in particolare per quel che riguarda i cosiddetti “nuovi rischi” – come non autosufficienza, precarietà lavorativa, mancato sviluppo o obsolescenza del capitale umano, esclusione sociale e difficoltà di conciliazione fra responsabilità lavorative e familiari – a cui il welfare pubblico pare oggi incapace di fornire risposte adeguate, ricalibrando la propria offerta.

Le esperienze di secondo welfare che vi riportiamo quotidianamente agiscono proprio a sostegno (e integrazione) del welfare pubblico, grazie alla mobilitazione di risorse economiche “aggiuntive” provenienti da attori non pubblici. In tale contesto, il sistema delle parti sociali (imprese, rappresentanze sindacali e datoriali) sembra essere uno degli attori maggiormente coinvolti in questo processo di “integrazione” del welfare pubblico attraverso il welfare aziendale.

Una delle sfide maggiori che questo fenomeno si trova attualmente ad affrontare è legata alla sua capacità di dar vita a interventi in grado di rispondere coerentemente ai rischi sociali dei lavoratori e delle loro famiglie, in modo tale da rafforzare il sistema di protezione sociale nel suo complesso. Si tratta di un tema centrale, affrontato a più riprese anche nel Rapporto sul welfare aziendale recentemente curato da Censis-Eudaimon che, dopo aver fotografato l’attuale grado di conoscenza del fenomeno e le aspettative degli italiani su questo fronte, propone alcuni spunti per delineare le possibili direttrici di sviluppo futuro del welfare aziendale nel nostro Paese, sottolineando l’importanza di scongiurare una “deriva discendente della proliferazione indefinita di benefit di ogni tipo”.

Welfare aziendale, questo sconosciuto

A differenza di molte ricerche empiriche che negli ultimi anni hanno indagato il fenomeno del welfare aziendale, la ricerca curata da Censis edEudaimon non si è focalizzata sul punto di vista delle imprese (dei loro titolari, responsabili amministrativi o HR), ma su quello di cittadini e lavoratori (come fatto, ad esempio, anche da Di Nardo 2016), e non si è posta l’obiettivo di quantificare la diffusione del fenomeno sul territorio, ma di rilevare il livello di conoscenza e il tipo di aspettative che questi soggetti nutrono nei suoi confronti.

La ricerca, che ha coinvolto 1.000 lavoratori e un totale di 2.000 cittadini, conferma l’esistenza di quelle che vengono definite “cavità informative”, ovvero di rilevanti gap di conoscenza sul fenomeno, particolarmente evidenti fra le fasce più deboli della popolazione. Dal Rapporto emerge infatti che meno di 1 lavoratore su 5 ha una conoscenza precisa del welfare aziendale (17,9%), il 58,5% lo conosce per grandi linee, mentre il 23,6% non sa che cosa sia. La percentuale di lavoratori che risponde “non so” sale fra coloro con basso titolo di studio; basso reddito familiare; fra le famiglie monogenitoriali; fra chi ha mansioni esecutive (operaio, bidello, commesso); fra le donne; le famiglie con non persone autosufficienti; gli occupati residenti nel Mezzogiorno. I dati segnalano infine che i livelli di conoscenza del fenomeno appaiono, nel complesso, più bassi fra i cittadini che fra i lavoratori (cfr. Grafici 1 e 2.)

Grafico 1. Livelli di conoscenza del welfare aziendale fra lavoratori e cittadini.

Fonte: elaborazione da Censis-Eudaimon (2018)

Grafico 2. Caratteristiche dei lavoratori con più bassa conoscenza del welfare aziendale

Fonte: elaborazione da Censis-Eudaimon (2018)

I bisogni dei lavoratori…

Come anticipato, nell’analisi del fenomeno un aspetto centrale riguarda le potenzialità dei servizi realizzati dall’impresa di rispondere ai bisogni sociali dei lavoratori e delle lavoratrici. Secondo l’indagine, per la maggior parte degli intervistati il sistema di welfare del nostro Paese è sempre meno capace di fornire sicurezza ai cittadini, contenere le disuguaglianze e promuovere coesione sociale.

Alla richiesta di valutare l’attuale grado di copertura del welfare state, infatti, oltre la metà dei lavoratori (il 52,4%) ritiene che esso riesca a garantire solo le prestazioni di base, che i cittadini devono integrare individualmente; secondo il 28,7% degli intervistati, invece, il welfare pubblico non garantisce nemmeno le prestazioni essenziali. Questo aiuta a spiegare un altro dato, ovvero che per quasi 3 lavoratori su 4 (il 74,8%) le misure di sicurezza sociale pesano in modo rilevante sul proprio bilancio familiare, tanto da rischiare di trasformarsi in una vera e propria minaccia per la sostenibilità economica della famiglia stessa.

In particolare, i lavoratori italiani affermano di sentirsi insicuri rispetto al rischio di perdita del lavoro, alla disoccupazione e alle difficoltà reddituali (45,9%, percentuale che sale al 49% tra gli operai), alla malattia (33,9%), alla morte prematura dei portatori di reddito della famiglia (29,4%), a eventi avversi che possono colpire la propria abitazione (27,7%), alla non autosufficienza (25,3%), agli infortuni sul lavoro (19,6%), all’insolvenza rispetto al mutuo per la casa o altri prestiti in caso di morte, di inabilità o incapacità di svolgere il lavoro (13,8%, quota che sale al 17.2% tra gli operai).


…e le prestazioni di welfare più apprezzate

L’insicurezza avvertita su più fronti, l’insostenibilità di fare fronte individualmente a rischi crescenti, le agevolazioni introdotte dalla normativa e il riposizionamento sul tema degli attori sociali (a partire dai sindacati) sono tutti fattori che aiutano a spiegare l’atteggiamento di apertura verso il welfare aziendale registrato dall’indagine, secondo la quale quasi oltre la metà di lavoratori e cittadini sarebbe favorevole a beneficiare di aumenti retributivi o premi sotto forma di prestazioni di welfare anziché di erogazioni monetarie. Un favore particolarmente diffuso fra i dirigenti e i quadri direttivi (73,6%), i lavoratori con figli fino a 3 anni (68,2%), i laureati (63,5%) e quelli con redditi familiari medio-alti (62,2%), che, a differenza dei lavoratori a redditi più bassi e dalle mansioni operative ed esecutive, negli ultimi anni sono stati toccati meno dai mancati aumenti delle retribuzioni.

Se si confrontano poi i dati sui rischi percepiti con quelle che – secondo l’opinione degli intervistati – sono le prestazioni di welfare aziendali più utili, emerge che per i lavoratori italiani gli interventi dell’impresa sono apprezzati soprattutto quando vanno a “fronteggiare” i rischi sociali tradizionali come malattia, disabilità e invecchiamento. Infatti, secondo i dati del Rapporto, alla domanda su quali prestazioni di welfare vorrebbero fossero inserite all’interno di un eventuale schema di welfare aziendale, oltre la metà dei lavoratori (il 53,8%) ha indicato una copertura assicurativa per malattia o non autosufficienza, con livelli più alti al Nord-Ovest (56,8%), tra i lavoratori con figli (56,4%), i baby boomers (55,4%) e le donne (54,7%). A seguire, sono state indicate misure riguardanti la previdenza complementare, indicate da 1 lavoratore su 3 (33,3%), con valori più alti della media al Nord-Est (39,6%), fra i dipendenti con figli (35%), fra i maschi e i baby boomers (rispettivamente, al 38 e 37,9%).

Nonostante l’elevata richiesta di interventi in materia di sanità e previdenza, il Rapporto mette comunque in evidenza che le quote di occupati che indicano anche benefit di tutela e integrazione del reddito sono rilevanti. Infatti, le altre prestazioni più frequentemente indicate dai lavoratori come meritevoli di essere inserite in un eventuale piano di welfare aziendale si ritrovano i buoni pasto (31,5%), il trasporto casa-lavoro (23,9%) e le convenzioni con negozi e/o buoni acquisto (21,3%). Seguono gli interventi per il sostegno all’infanzia (20,5%), come asilo nido aziendale o convenzionato, campus e centri estivi, rimborsi per le spese scolastiche, servizi di consulenza fiscale (17.7%), e servizi di baby sitting e badantato (14.5%).

Dimensione sociale vs dimensione fiscale: le opportunità del welfare aziendale

Analizzando i risultati emersi dal Rapporto, si evidenzia un’attenzione crescente da parte dei lavoratori per forme di tutela sociale “reali”, in grado cioè di generare una risposta ai bisogni primari. Per questa ragione, dal punto di vista delle imprese diviene decisivo concepire il welfare aziendale per quelle che sono le sue potenzialità e opportunità in campo sociale e non esclusivamente come un mero strumento di risparmio fiscale e contributivo. Attualmente, è evidente il rischio che tale fenomeno sia interpretato soprattutto come possibilità di ridurre il costo del lavoro e il cosiddetto cuneo fiscale, senza una riflessione consapevole sulla funzione sociale delle prestazioni erogate.

Il rischio denunciato dal Rapporto è che, di fronte di “una molteplicità proliferante di soggetti che hanno legittimamente colto le nuove opportunità di business e che moltiplicano i propri bouquet di offerta in una competizione feroce”, i confini del settore – quello che abbiamo definito il “perimetro del welfare aziendale” – assumano tratti indefiniti, “fino a una sorta di indeterminatezza dei prodotti e dei servizi da considerare appartenenti al settore stesso”.

Un’attenzione specifica deve dunque essere dedicata ad evitare “derive commerciali” che, invece di sostenere una logica mutualistica e di accumulo temporale delle risorse per fronteggiare rischi sociali rilevanti, stimolino atteggiamenti consumistici nel breve periodo, che poco hanno a che fare con la tutela sociale dei lavoratori e delle loro famiglie. Di fronte a questo possibile sviluppo – si legge nel rapporto Censis-Eudaimon – “i soggetti coinvolti nel welfare aziendale a vario titolo devono decidere se in via prioritaria intendono promuovere accumulazione di risorse e relativa ridistribuzione intertemporale o favorire consumo attuale”.

Per muoversi in direzione della seconda opzione, il Rapporto invita a riflettere sul ruolo dei vantaggi fiscali che, se da un lato hanno indubbiamente favorito il decollo del fenomeno, dall’altro rischiano di trasformare il welfare aziendale in un canale per far affluire integrazioni al reddito senza però contribuire a ricostruire un pilastro di tutela sociale che restituisca sicurezza ai lavoratori. Inoltre, un welfare aziendale basato esclusivamente su meccanismi fiscali premiali rischierebbe, nel lungo periodo, di depotenziarne la funzione di riduzione delle disuguaglianze.

Infine, spostare il focus dal sostegno al reddito alla fornitura di servizi presenterebbe il vantaggio di “generare operatori in grado di verificare che i servizi erogati siano in linea con gli standard di qualità attesi” e di dare vita a un’offerta capillare che, rispondendo a una domanda auspicabilmente aggregata (così da superare la frammentazione dovuta alle caratteristiche del tessuto produttivo), potrebbe, allo stesso tempo, andare incontro alle esigenze dei lavoratori e assicurare la sostenibilità finanziaria delle iniziative.

Riferimenti

Primo rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale in Italia