Secondo diversi osservatori per ridurre le diseguaglianze che oggi in Europa costituiscono terreno fertile per la crescita di sentimenti antieuropei, la nuova compagine dell’Unione dovrebbe rimettere al centro le politiche sociali. In questo senso il “Pilastro europeo dei diritti sociali” riuscirà ad essere una vera politica europea? Giuseppe Guerini ha cercato di rispondere a questa domanda sul numero 3/2019 di Welfare Oggi.
L’Europa verso un nuovo assetto
Con le elezioni dello scorso 26 maggio, che hanno completamente rinnovato la composizione del Parlamento europeo, si apre la fase di delicate e difficili trattative tra forze politiche parlamentari, ma soprattutto tra i Governi degli Stati membri dell’Unione per la composizione della nuova governance delle istituzioni europee. Dopo l’insediamento del nuovo Parlamento prende forma la nuova Commissione europea che si insedierà formalmente nel prossimo autunno, con un processo nel quale più che gli equilibri di forze all’interno del Parlamento sono le negoziazioni tra i Governi degli Stati membri a dare forma al nuovo assetto dell’Unione europea.
Si attende un cambiamento importante che coinciderà con le fasi più delicate dell’impostazione della programmazione pluriennale, su cui si struttura l’architrave delle politiche, ovvero il Quadro Finanziario Pluriennale per il 2021-2027 da cui discendono le politiche economiche e soprattutto gli interventi di finanziamento dei fondi strutturali: dal Fondo Sociale Europeo (FSE), al Fondo per la Coesione Territoriale, dal la Politica Agricola Comune al Fondo Strategico per gli investimenti, che assumerà il nome InvestEU, oltre naturalmente ai grandi programmi di ricerca e innovazione come Orizont2020 che diventerà OrizontEU nella prossima edizione. L’architettura del bilancio pluriennale è ormai impostata, ma saranno la nuova Commissione e il nuovo Parlamento che, congiuntamente al Consiglio europeo, dovranno approvare la composizione definitiva e poi passare all’attuazione.
Nuova Commissione europea e nuovo Parlamento dovranno quindi immediatamente mettersi al lavoro per impostare un’attività molto complicata e che in parte troverà già alcune importanti piste di lavoro su cui intervenire. Per questo è importante che tutti conoscano un po’ meglio quali sono le poste in gioco in questa delicata fase.
Il pilastro europeo dei diritti sociali
In questo quadro, uno degli aspetti più importanti per chi si occupa di welfare e di lavoro, riguarda il Pilastro europeo dei diritti sociali. Il documento, adottato dal la Commissione uscente e dal Vertice europeo di Göteborg nel dicembre 2017, è un importante programma che si propone di “… definire una serie di principi essenziali per il buon funzionamento e l’equità dei mercati del lavoro e dei sistemi di protezione sociale”. Si tratta di un provvedimento importante e necessario, tanto condivisibile quanto, a mio giudizio, tardivo, attraverso il quale la Commissione europea individua delle proposte per cercare di recuperare quella fiducia dei cittadini nell’Unione europea così sensibilmente diminuita in molti degli Stati membri.
Il Pilastro rappresenta un testo dal rilevante significato politico, poiché era dai tempi di Jaques Delors, quindi dalla prima metà degli anni ’90, che le istituzioni dell’Unione europea non trattavano più in modo organico e strutturale le tematiche sociali, con l’ambizione di por le al centro di una strategia politica di ampio respiro. Certo, ci sono stati gli obiettivi della strategia di Lisbona, certamente importanti, ma che non si sono tradotti in un progetto di politiche complessive dell’Unione, ma in una serie di richieste di impegno rivolte agli stati membri per far convergere il livello di qualità di servizi e tutele dei cittadini europei.
Il Pilastro europeo dei diritti sociali, invece, è stato presentato come un progetto per lavorare su un rating di tripla A sociale definito dal Presidente della Commissione Junker nell’ottobre 2014 come un obiettivo “altrettanto importante della tripla A in campo economico finanziario”, necessario per arrestare quel processo di continua crescita delle diseguaglianze all’interno dell’UE sulla scia della crisi finanziaria ed economica, che ha rappresentato un terreno fertile per la crescita di sentimenti antieuropei, fino a farli diventare una minaccia per l’unità e la coesione future dell’Europa.
Allo stato attuale il Pilastro europeo dei diritti sociali è una dichiarazione politica di intenti, che la vecchia Commissione e il precedente parlamento lasciano in eredità. Si tratta di un programma coordinato di azione che si propone di rimettere a fuoco, nelle politiche europee, una rinnovata spinta per la promozione e la tutela dei diritti sociali. Si articola su tre “categorie” di diritti – i) pari opportunità e accesso al mercato del lavoro; ii) condizioni di lavoro eque; iii) protezione sociale e inclusione – che vengono poi declinate in 20 ambiti di intervento che vanno dalla formazione continua, alle politi che attive del lavoro, dal reddito minimo ai servizi per famiglie e infanzia, dal sostengo al reddito al contratto alla povertà, dalla protezione sanitaria e assistenziale alla previdenza sociale.
Rappresenta una sfida sia per quanti hanno criticato l’immobilismo e l’aridità delle politiche economiche europee della lunga stagione della austerità, sia per i pala dini del progetto unitario europeo, che possono dimostrare, se lo vorranno, che davvero hanno a cuore il destino dell’Unione europea.
L’impegno firmato nel 2017 dai capi di Stato e di governo nel vertice di Göteborg è però incompleto e manca del riconoscimento di nuovi diritti e doveri; avrebbe bisogno inoltre di una revisione anche delle politiche economiche e finanziarie e soprattutto di una adeguata struttura di supporto: un’economia solida e una maggiore equità fiscale per alimentarne la sostenibilità. Rischia inoltre di introdurre surrettiziamente un’idea di Europa a due velocità, non solo sul piano economico ma anche sul quello dei diritti, poiché almeno in una prima fase il Pilastro europeo dei diritti sociali, verrebbe proposto per i paesi dell’Eurozona (cioè i paesi che adottano l’Euro e non per tutti gli stati dell’Unione).
Per questo sarebbe indispensabile che durante questi primi mesi, mentre il Parlamento e la nuova Commissione si preparano ad iniziare la propria operatività, le parti sociali, i professionisti del welfare, gli attori sociali si mobilitino per far conoscere il Pilastro europeo dei diritti sociali facendo pressioni e informazione affinché questo documento non venga dimenticato o trascurato.
Ciò, a maggior ragione, considerando che la missione della politica di coesione dell’UE, dettata dall’articolo 174 del Trattato sul funzionamento dell’Unione euro pea (TFUE), consiste nel rafforzare la coesione economica e sociale riducendo il divario tra i livelli di sviluppo delle diverse regioni. Tale missione deve rimanere al centro di tutte le azioni intraprese nell’ambito della politica di coesione e deve essere tradotta in re altà sempre più incisiva dalla Commissione insieme con le autorità nazionali responsabili dell’attuazione di tale politica.
Riuscirà il "pilastro" ad essere una politica europea?
Come abbiamo visto, purtroppo la campagna elettora le per le elezioni europee si è giocata prevalentemente, in modo superficiale e distorto, su temi di politica nazionale o attorno allo stucchevole e deprimente di battito sul sovranismo, mentre pochi hanno affrontato in termini costruttivi il tema di quale Unione europea vogliono e soprattutto con quali risorse intenderebbero edificarla.
Ora però, ad elezioni concluse, si potrebbe rilanciare la discussione e interrogare le forze politiche e i governi nazionali per ottenere indicazioni su cosa fare per migliorare la capacità delle istituzioni europee di rispondere alla domanda di tutela e protezione sociale che arriva dai cittadini; in particolare, per la realizzazione del Pilastro sociale, per il quale se non si stanzieranno risorse adeguate non andremo oltre i buoni propositi.
Una coerente attuazione del Pilastro sociale dipenderà dalla realizzazione di opportune misure politiche sia a livello europeo sia negli Stati membri, per i quali sono indispensabili investimenti sulle priorità indicate dal Pilastro sociale, per le quali saranno necessarie più risorse di quelle finora destinate a queste politiche, visto che attualmente la spesa dell’UE destinata agli affari sociali rappresenta, in media, appena lo 0,3% del totale della spesa pubblica sociale nell’UE che viene di fatto quindi gestita quasi totalmente dai singoli Stati mem bri; ciò determina la difficoltà di realizzare una effettiva dimensione euro unitaria delle politiche sociali. La stessa denominazione di “Pilastro europeo” sembra stridere con la dotazione che riesce alle politiche di welfare unitarie. E infatti il rischio è quello di vedere questo pro gramma come una esortazione a fare meglio, rivolta sostanzialmente agli Stati membri; certo sappiamo come l’edificazione del progetto europeo sia lenta e complessa, ma proprio la crisi di legittimità di questi ultimi anni dovrebbe spingere tutti a rendere più evidenti e incisive le azioni per rafforzare e diffondere le tutele per i cittadini europei.
Certo, è difficile pensare di fare questo considerando che l’attuale Bilancio dell’Unione europea corrisponde all’1% del RNL complessivo dei Paesi dell’Unione e che quindi, per quanti sforzi si possano fare, i margini di manovra per politiche coordinate a livello europeo sono molto ristretti; se gli Stati membri non vogliono in crementare neppure di poco le loro quote di partecipa zione al budget dell’Unione, diventa necessario ridefi nire le priorità di spesa.
Qualche passo in questa direzione si è compiuto: infatti va riconosciuto che tra il 2014 e il 2020 la quota di ri sorse appostate sui fondi di finanziamento destinati alla politica di coesione è stata incrementata. Tuttavia, questo impegno maggiore sulla coesione sociale non si percepisce a livello locale, anche perché il gioco dei politici in quasi tutti gli Stati membri è spesso quello di scaricare sull’Europa le responsabilità di scelte difficili e di appropriarsi dei meriti, anche se magari una politica che ottiene consenso è realizzata con fondi europei. Ad esempio, pochi in Italia sanno che una parte importante del Reddito di cittadinanza, come del Rei prima, è stata realizzata in parte con risorse europee; lo stesso vale per buona parte delle politiche attive del lavoro di molte regioni, o, per fare un esempio locale, per la misura dei Nidi Gratis della Regione Lombardia.
Ma, accanto a dati positivi e talvolta disconosciuti, vi sono elementi negativi rispetto ai quali è necessario avviare una seria riflessione che porti ad una loro revisione. Come è noto, negli scorsi anni vi è stata una concetrazione di sforzi con i quali le istituzioni dell’Unione europea hanno cercato di riprendersi dallo shock della crisi finanziaria del 2008 e delle ulteriori crisi che si sono susseguite, che si sono tradotti in interventi prevalentemente centrati su aspetti di politica monetaria e sulla regolamentazione finanziaria e bancaria. Il mercato unico, l’unione bancaria, l’unione monetaria e la tutela della concorrenza sono state le priorità della politica europea.
E, pur nella consapevolezza che nei prossimi anni sarà invece necessario destinare più risorse al sostegno al le politiche sociali, di fatto nella programmazione economica del prossimo piano finanziario pluriennale 2021-2027 (GU C 81 del 2.3.2018, pag. 145; GU C 81 del 2.3.2018, pag. 131) sembra ormai certo l’aumento dei finanziamenti per sicurezza, difesa e controllo delle frontiere esterne, mentre per Fondo sociale europeo e Fondo per la Coesione le risorse rimangono stanzialmente invariate.
Per ottenere il Pilastro europeo dei diritti sociali è stato necessario un forte impegno da parte delle parti sociali e delle organizzazioni dell’economia sociale, grazie alle quali si è riusciti a riportare nell’agenda europea un’attenzione politica alle tematiche sociali, alla necessità di proteggere le persone più esposte alle fragilità. Le istituzioni sono però arrivate in ritardo a riconoscere la necessità di un “Europa più sociale”, così in alcuni Paesi e in particolare in Italia, sono cresciuti i movimenti che apertamente contrastano il progetto unitario europeo. La nuova Commissione e le istituzioni dell’Unione europea si trovano quindi ora ad affrontare grandi sfide con Governi in cui le componenti egoisticamente ripiegate su esigenze di immediato consenso politico, dovranno essere le stesse che dovrebbero affrontare piani di intervento straordinari e capaci di lungimiranza, ma che soprattutto richiedono una visione solidaristica e di lungo periodo per essere affrontate.
Le sfide
Pensiamo all’elevata disoccupazione – in generale e, in particolare, alla disoccupazione giovanile – e alle disomogeneità tra regioni e territori; al deterioramento della situazione sociale soprattutto nei quartieri periferici di grandi aree urbane o di intere aree territoriali. Su tutto osserviamo un aumento dei livelli di povertà e disuguaglianza, che non sono più soltanto riconducibili a condizioni contingenti di persone e famiglie, ma si consolidano allargando i divari e le diseguaglianze tra aree territoriali e tra interi sistemi locali o regionali.
Su questo grava un disequilibrio demografico impressionante a cui potrebbe dare risposta solo un Europa coesa e capace di ripartire dal suo più grande e prezioso patrimonio: il sistema di welfare più avanzato e inclusivo del mondo (nonostante le fragilità e criticità), che tuttavia dovrà essere ripensato a fondo anche in relazione alla perdita di centralità sempre più evidente del nostro continente.
Come indicano i dati ONU, l’Europa, con una popolazione di circa 500 milioni di abitanti, diventa sempre più “minoritaria” a fronte della popolazione mondiale che dagli attuali 7,6 miliardi arriverà a 9,8 miliardi nel 2050. Una crescita che si realizzerà prevalentemente tra Asia e Africa. Crescerà inoltre, soprattutto nel nostro continente, la popolazione anziana facendo dell’Europa l’area in cui si concentrerà la più alta percentuale di persone con oltre 75 anni e con bisogni di cura e assistenza crescenti.
Questi squilibri demografici non limiteranno il loro impatto sugli aspetti sociali, ma avranno un’incidenza rilevante sugli equilibri economici e ci porteranno a doverci confrontare con una forte riduzione del peso economico dell’Unione europea, il cui prodotto lordo aggregato copriva il 26,5% del PIL mondiale nel 2000 mentre era già sceso al 21,3% nel 2017.
I dati ci dicono inequivocabilmente che il “patto” sociale basato sulla redistribuzione della ricchezza prodotta dal lavoro e dalle imprese attraverso il sistema di welfare per assicurare protezione sociale e sicurezza non è sostenibile a lungo.
Ma i dati documentano anche – e ancora più drammaticamente – le distorsioni del modello economico prevalente, che stanno continuando a concentrare ricchezza, premiando i “vincenti” del capitalismo finanziario, che vedono crescere patrimoni e rendite mentre la remunerazione del lavoro diminuisce in continuazione. Vale la pena qui ricordare che in un contesto di crescente diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza, un’Europa più sociale non si potrà costruire senza una rivisitazione del modello di tassazione europeo, da coordinare e rendere più equo ed omogeneo, ma soprattutto senza una politica fiscale coordinata e che rilanci il significa to profondamente democratico e strutturalmente equo dell’imposizione fiscale progressiva. Nessuna politica sociale infatti potrà affermarsi se le forze che criticano l’aridità delle politiche europee degli scorsi anni, al tempo stesso sostengono modelli che portano alla riduzione del gettito fiscale. Per fare riferimento a recenti di battiti nel nostro Paese, qualsiasi ipotesi di “tassa piatta” non solo porterà il sistema di welfare europeo a non essere più sostenibile, ma potrebbe addirittura provocarne il collasso drammatico. Al tempo stesso, l’illusione che si possano trovare soluzioni egoistiche nei singoli Stati dell’Unione è ingannevole e pericolosa, per i cittadini e soprattutto per le fasce di popolazione più esposte e vulnerabili.
Il modello economico e sociale europeo richiederà di essere ripensato a partire soprattutto da una maggiore capacità di sostenere solidarietà e partecipazione diretta di ampie parti della popolazione in un ruolo attivo di produttori di innovazione sociale e di nuove relazioni di cura e reciprocità sussidiaria.
Serve per questo rilanciare con forza un’idea di giustizia sociale e di coesione, dove una maggiore responsabilità delle persone verso il bene comune diventi la base su cui costruire un modello di sviluppo economico e sociale sostenibile e inclusivo, che ha bisogno di un progetto di città e territori che sappiano valorizzare la prossimità, le reti relazionali solidali, riscoprire il mutualismo e una diversa idea di economia, che riparta dalla creazione di valore e smetta di rincorrere l’estrazione di valore.
In questa idea di un’Europa più sociale, servirebbe la ridefinizione di un sistema di welfare comunitario che unisca i contesti locali e i sistemi produttivi, che integri welfare municipali e regionali con le reti di protezione mutualistiche e contrattuali, con quelle di welfare aziendale e di responsabilità solidali. Serve riconoscere che in un sistema economico in trasformazione, come quello europeo, non si possono considerare le politiche sociali come forme di carità, bensì come il basamento che regge una società e il suo sistema produttivo. Dobbiamo saper costruire una società che rovescia il rapporto tra economia e welfare, nel senso che dalla nostra capacità di reinventare i sistemi di cura, protezione sociale, assistenza educazione e formazione deriva la tenuta del sistema economico e produttivo.
Welfare, una condizione per lo sviluppo
Impossibile immaginare che un continente di anziani, famiglie vulnerabili e giovani che diventano adulti sempre più tardi, possa incrementare l’occupazione, la produttività e il progresso sociale se a questa popolazione non sapremo assicurare un sistema di cura e protezione. Proviamo solo a immaginare se all’improvviso in Italia tutte le badanti si fermassero, se si fermassero gli asili nido e le scuole d’infanzia. L’intero sistema produttivo si bloccherebbe, poiché una grande parte dei lavoratori e delle lavoratrici dovrebbe precipitarsi a casa per assistere i loro congiunti. In questo senso è ragionevole pensare che nei prossimi anni saranno i servizi e i sistemi di welfare a sostenere i sistemi produttivi e ad assicurare sviluppo e crescita, che solo a questa condizione risultano sostenibili. Per questo serve uno sforzo maggiore anche nella realizzazione di politiche di conciliazione, che in troppi casi sono ancora considerate da legislatori e da una parte del sistema economico e produttivo come delle “benevole concessioni” e non come parte integrante di una strategia complessiva per ripensare le relazioni tra welfare e lavoro, tra politiche demografiche e della famiglia e politiche per lo sviluppo economico.
Saranno quindi welfare e lavoro a reggere l’economia e la possibilità di continuare a fare attività per molte imprese, disegnando uno scenario molto diverso da quel lo narrato dai sostenitori della “fine del lavoro”. Certamente cambieranno tipologie e forme del lavoro, come le abbiamo conosciute negli ultimi secoli e welfare, cultura e formazione, salute e cura dell’ambiente devo no diventare fattori essenziali per una crescita economica sostenibile che torni a considerare l’equità un valore fondamentale.
Realizzare il pilastro sociale, quindi, non solo migliorerebbe le condizioni sociali e del mercato del lavoro di molti cittadini europei, ma, così facendo, rafforzerebbe anche il potenziale economico dell’Unione europea a conferma di una tesi che gli attori dell’economia sociale sostengono da tempo e cioè che il welfare non è un costo ma un investimento e che oggi, nelle economie mature come quella europea, il sistema di welfare è indispensabile ad assicurare la tenuta e la competitività del sistema produttivo ed economico.
Da questo punto di vista il Pilastro europeo dei diritti sociali è un provvedimento importante, ma è solo un punto di partenza su cui ricostruire un dialogo europeo e di una visione nuova dei sistemi di welfare e lavoro per il nostro continente.
Verso un pilastro rinnovato
Servirà una grande capacità di innovare, poiché, in ogni caso, il “Pilastro sociale” che la Commissione ci ha lasciato appare ancorato su concetti tanto importanti quanto ingessati in un sistema di regole e contrattazione che è evidentemente figlio della paura (legittima) di perdere i diritti acquisiti con i sistemi di sicurezza sociale e i mercati del lavoro nazionali che faticano a proiettarsi nel futuro con il risultato di stabilizzare le tutele consolidate ma trascurando i bisogni emergenti.
Ad esempio in Italia i servizi socioassistenziali rispondono più o meno agli stessi bisogni da trent’anni a questa parte: anziani, disabili e minori sottratti alle famiglie, mentre è debole l’attenzione alle nuove emergenze sociali, tra cui le più evidenti sono: il fenomeno dei “giovani ritirati”, che non studiano e non lavorano, cosiddetti NEET; la gestione delle separazioni genitoriali critiche, i bisogni sociali specifici che si accompagnano all’immigrazione e alle “seconde generazioni”, le patologie psichiche e le nuove forme di dipendenza e le ludopatie, non più fenomeni che interessano fasce marginali o “disagiate” della popolazione, ma sempre più diffuse in vari strati della popolazione. Inoltre, le differenze di competenze, capacità economiche, capitale di relazioni delle persone e le distanze culturali, rischiano di alimentare forme di “segmentazione” ulteriore nell’accesso ai servizi. Pensiamo ad esempio all’esclusione delle persone senza dimora, cioè le più povere in assoluto, dall’accesso al reddito di cittadinanza.
Emblematica da questo punto di vista è la questione del le migrazioni, alla quale il documento licenziato dalla Commissione europea non dedica l’attenzione necessaria, a conferma che, per certi versi, l’incapacità dell’Unione europea di gestire la crisi migratoria non è solo sintomo del crescere del risentimento verso il diverso o della riemersione di un razzismo che covava sotto le ceneri. L’avversione e il rifiuto verso i migranti sono la manifestazione del terrore degli europei verso i poveri. Basterebbe soffermarsi un attimo a pensare che nelle famiglie italiane ci sono quasi un milione e mezzo di badanti straniere, senza che nessuno gridi all’invasione e alla minaccia, come invece avviene davanti a qualche migliaia di migranti che arrivavano con i barconi. Senza le badanti oggi il sistema di welfare non riuscirebbe a garantire a oltre un milione di famiglie di poter continuare a recarsi al lavoro e quindi di partecipare attiva mente all’economia.
È sconcertante, quindi, che mentre ci sarebbe un bisogno enorme di lavorare in modo coeso, con una “politica sociale europea comune”, per investire su innovazione e ricerca, per cercare le soluzioni politiche e pratiche nell’interesse di tutti, si veda crescere il consenso verso partiti euroscettici, populisti e nazionalisti che, al contrario, cercano di trarre vantaggio dalle paure, alimentando l’illusione di soluzioni semplicistiche a problemi complessi e soffiando sul fuoco di pericolose di visioni nella società.
Per questo, in ogni caso, per quanto non sia del tutto soddisfacente, il Pilastro europeo dei diritti sociali rappresenta un cambio di direzione importante e per questo va fatto conoscere e deve essere oggetto di confronto politico per ridisegnare una nuova fase di sviluppo dell’Unione europea.
L’ambizione, per chi rappresenta le organizzazioni dell’economia sociale europea, sarebbe quella di spingere un progetto per una “Politica Sociale Comune Europea” che, come è stata in passato la PAC (Politica Agricola Comune), divenga uno dei pilastri dell’Unione europea. Vi è sempre un maggior bisogno di immaginare un’Europa capace di includere e coinvolgere tutti i cit tadini in tutte le fasi del ciclo di vita nell’essere protagonisti nell’edificazione di un welfare della responsabilità, che potrebbe trovare nelle forme organizzative sussidiarie (cooperative e imprese sociali, fondazioni, asso ciazioni, mutue, volontariato) le fondamenta su cui riedificare il pilastro europeo dei diritti sociali.
Già nella sua forma attuale, il Pilastro europeo dei diritti sociali, individua le aree su cui agire e a cui propongo ora qualche mia considerazione: società civile e partecipazione, futuro del lavoro, investimenti, governance, temi sui quali solo una buona politica europea potrà aiutarci a salvaguardare diritti sociali e tutele adeguate.
Società civile e partecipazione
È necessario lavorare affinché il ruolo della società civile venga maggiormente riconosciuto, valorizzando il protagonismo dei cittadini organizzati nelle formazioni sociali leggitimati nelle comunità locali. Riconosce re e valorizzare le formazioni sociali, i portatori di interesse collettivi, i corpi intermedi e le organizzazioni dell’economia sociale rappresenta una risposta concreta per ridare spazio e riconoscimento a una cultura della solidarietà che rischia di essere sommersa dal clima generale di paura che porta a enfatizzare una domanda di sicurezza intesa solo come di protezione dai bisogni degli “altri”, dalle minacce della diversità e dal timore di doversi contendere le risorse scarse dedicate al la protezione sociale.
Al contrario soffiare sul fuoco del disagio e proporre soluzioni semplici è strumento per controllare dall’alto il consenso; non a caso alla fine ogni forma di populismo evolve in autoritarismo e ogni progetto di “welfare del popolo” degenera in mero assistenzialismo, spesso centralizzato e autoritario. Ne troviamo i segni nell’atteggiamento del potere verso il Terzo Settore su cui si cerca di operare un nuovo controllo burocratico e centralistico, come appare dalla estenuante lentezza con cui si sta dando seguito alla legge di riforma, alle rigidità introdotte per chi gestisce servizi di accoglienza dei migranti, per non parlare della comunicazione denigratoria con cui si sono aggredite le ONG o si è fatto uso della definizione di “buonista” per descrivere comportamenti solidali verso i migranti.
Il dialogo sociale, la partecipazione civile, la programmazione e la progettazione partecipata possono assicurare invece che le persone, a partire da quelle che si trovano in situazioni di vulnerabilità o che sono vittime di discriminazioni, partecipano all’elaborazione, all’attuazione e alla revisione dei processi decisionali che riguardano le risposte e l’assunzione di responsabilità a fronte dei problemi che stanno vivendo.
Il futuro del lavoro
Le trasformazioni enormi che riguardano il lavoro porteranno importanti cambiamenti per i quali è indispensabile prepararsi con politiche sociali ed economiche più coerenti e integrate, che si iscrivano in una strategia europea per l’occupazione e il lavoro. L’arco della vita lavorativa dei cittadini europei sarà sempre più caratterizzato da fratture e discontinuità per le quali è necessario immaginare strumenti e dispositivi per accompagnare transizioni da un posto di lavoro o da uno status lavorativo all’altro, come pure dalla disoccupazione all’occupazione e dai percorsi educativi al mondo del lavoro prevedendo quindi piani di formazione continua per l’aggiornamento delle competenze.
La rapidità con cui avanzano le nuove tecnologie digitali sta ridefinendo il nostro modo di vivere e lavorare, le nostre relazioni e i nostri sistemi di cura e comunicazione. Diversamente da quanto qualcuno sostiene – che il futuro sia quello di “macchine che lavorano” e umani che si dedicano al consumo e al tempo libero sostenuti da “redditi universali”, effetto della redistribuzione della ricchezza prodotta dai robot – è invece ragionevole pensare che il lavoro umano sia necessario e indispensabile, non solo per garantire progresso e sviluppo, ma anche per assicurare la democrazia e la giustizia sociale. Nessun popolo infatti è più manipolabile e controllabile di una platea di persone che vivono di assistenza pubblica e costruiscono la loro identità su quello che consumano anziché su quello che sanno generare attraverso il lavoro.
La trasformazione del lavoro impatterà in maniera molto forte anche nel contesto delle professioni della cura, dell’educazione e della salute. Una “Politica Sociale Comune Europea” dovrebbe cercare di coordinare le azioni e gli investimenti che si stanno facendo nella promozione della cosiddetta agenda digitale affinché le sfide economiche, occupazionali e sociali non siano una scollegata dall’altra. Occorre inoltre considerare che le nuove forme di lavoro si stanno sviluppando a una grande velocità e gli strumenti di regolazione contrattuali non riescono a tenere il passo del cambiamento: basti pensare al fenomeno badanti, se ci limitiamo all’ambito delle professioni del welfare; ma anche al dibattito che si è svolto la scorsa estate sul tema dei “Rider”, o all’impatto delle piattaforme di scambio digitali in settori quali le consegne di cibo o la gestione dei trasporti o dell’ospitalità alberghiera.
In questa direzione il Pilastro europeo dei diritti sociali prevede anche un percorso per l’introduzione di una previsione che potrebbe portare alla determinazione di un livello coordinato di “salario minimo” con l’intento di garantire retribuzioni minime adeguate. Su questo versante di nuovo l’ostacolo principale sarà nei governi nazionali, che, per ragioni diverse, resisteranno a questa ipotesi, per poi incolpare come sempre l’Europa se la competizione salariale al ribasso determina distorsioni e diseguaglianze. Ma la tendenza a prolungare la vita lavorativa, in corso in tutta Europa, non si può sostenere senza buone condizioni di lavoro, senza assicurare investimenti per la salute e sicurezza sul lavoro e senza sostenere l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Una formazione che deve anche saper accompagnare le persone in cambi radicali di settore e carriera, poiché da una parte appare assai improbabile che alcune professioni di cura, che nemmeno sono state considerate come lavori usuranti, si possano svolgere oltre i 60 anni, ma dall’altra in alcuni contesti cambiare settore è già difficile a 40 anni. Per questo servono politiche mirate, anche di lungo periodo, per accompagnare le transizione combinando dispositivi diversi, come diminuzioni progressive dell’orario di lavoro, tecnologie assistive e abilitanti in favore dei lavoratori, riorganizzazioni di alcuni servizi assistenziali ed educativi immaginando una riformulazione radicale dei carichi di lavoro: difficile che dai 65 ai 68 anni si possa essere un educatore di asilo nido o in una comunità per minori, allo stesso modo e con le medesime attese di quando si è iniziato a lavorare 30 anni prima.
La necessità di investimenti sociali
Si parla moltissimo di investimenti, spesso si richiama la necessità che l’Europa aumenti la propria capacità di sostenere investimenti pubblici e privati, per sostenere la crescita e per migliorare la competitività delle imprese e quindi del lavoro. Questa attesa è condivisibile, ma non si può al tempo stesso rinunciare a richiamare l’attenzione sul fatto che, come prima evidenziato, il bilancio complessivo su cui si regge tutta l’Unione europea, dalle spese di funzionamento delle istituzioni fino alle spese per i fondi strutturali, passando per la PAC e per i programmi aero-spaziali, vale poco più dell’1% del PIL globale, cifra derivante dalla quota di contribuzione degli Stati membri. Chiedere quindi più capacità di investire deve prevedere anche la consapevolezza del potenziale su cui l’Europa può al momento contare. Non possiamo chiedere di più all’Europa o pensare di rivendicare la necessità di un Europa più sociale se non si porrà seriamente anche la questione della dotazione di risorse che gli Stati membri conferiscono all’Unione.
Al netto di questo, è davvero molto importante riconoscere che, dopo l’introduzione del Fondo Strategico per gli investimenti, noto anche come “piano Juncker” per gli investimenti, è stato elaborato anche un piano per gli investimenti nell’infrastruttura sociale europea che prenderà forma in modo più preciso nel futuro programma InvestEU che sarà la principale misura di finanziamento europeo per la programmazione 20212027; dentro questo pacchetto è prevista una specifica dotazione per gli investimenti sociali.
Per la prima volta avremo nel carnet delle misure europee di finanziamento, che tradizionalmente andavano al sistema economico imprenditoriale o alle infrastrutture, una specifica dotazione per gli investimenti nell’infrastruttura sociale, sanitaria e per l’inclusione sociale. Lo spostamento di risorse, dall’ambito degli interventi diretti (i famosi e agognati progetti europei) verso le misure di investimento, dovrà vedere anche gli attori sociali europei, sia pubblici che del terzo settore, cambiare approccio e mentalità che dovrà farsi sempre più imprenditoriale, passando dalla cultura della progettazione per ottenere sussidi, a quella dell’investimento per realizzare progetti.
Per le organizzazioni del terzo settore, in particolare per quelle a vocazione imprenditoriale, apprendere ad agire maggiormente con la logica dell’investimento è anche un modo per testimoniare che le politiche economiche europee, guidate dall’austerità e orientate al taglio della spesa, senza provvedimenti adeguati volti a generare crescita, coesione sociale e solidarietà non faranno altro che aumentare le diseguaglianze sociali.
Attrezzarsi a impiegare con successo in modo generativo le risorse dedicate agli investimenti sociali è il modo per dimostrare nei fatti che investire nel welfare genera occupazione e crescita economica per tutti. In questa direzione, già la stessa Commissione europea, nel dibattito che ha accompagnato l’adizione del Pilastro europeo dei diritti sociali, ha proposto che il 25% dei Fondi strutturali e di investimento europei, così come il Fondo sociale europeo e il Fondo europeo di sviluppo regionale, siano destinati alla promozione di investimenti sociali in servizi e politiche sociali, sanitarie, di educazione, formazione e housing sociale. Se però non si pone la dovuta attenzione, il rischio è che queste risorse vengano assorbite da chi ha iniziato a vedere nelle infrastrutture per il welfare un ghiotto settore di investimento, con una rendita magari inferiore a quella della speculazione, ma con risultati certi. Già il settore delle RSA è ampiamente occupato da questo genere di investitori, che non tarderanno a interessarsi anche ad altri comparti; per questo serve che i soggetti che tradizionalmente si sono occupati di welfare, diventino competenti nell’utilizzare queste risorse, tenendole magari più aderenti alle funzioni di cura, quindi alle infrastrutture immateriali, che a quelle immobiliari.
Una governance economica dei mercati per produrre più valore sociale
Uno dei principali riferimenti dell’edificazione del progetto europeo riguarda il metodo della sussidiarietà, che in parte ha a che fare con le relazioni tra Stati membri e Unione europea; tuttavia il principio di sussidiarietà assume un’importanza ancora maggiore relativamente alla costruzione di un welfare comunitario e delle responsabilità che parta dal coinvolgimento delle persone e dei diversi portatori di interesse nella realizzazione delle risposte.
Assumere la prospettiva della governance e della sussidiarietà in chiave economica significa ragionare diversamente anche sul tema della concorrenza, che per troppo tempo è stato il principio prevalente su cui si sono sviluppate le politiche di regolazione economica dell’Unione europea. Non è possibile fare in questa sede una riflessione troppo ampia di questo tema, motivo per cui ci si limita qui ad affrontare il caso emblematico per la dimensione delle politiche economiche e sociali costituito dalla regolazione del mercato pubblico nel settore delle politiche sociali. Si tratta di un sistema ancora oggi prevalentemente gestito mediante gare d’appalto o sistemi di accreditamento in cui si valutano e misurano criteri di accesso, requisiti professionali o strutturali e si valutano “promesse” e dichiarazioni d’impegno, che poco o nulla rilevano circa il raggiungimento dei risultati. Si determina così un sistema che si fonda sulla competizione tra chi è più abile nell’estrarre valore dal mercato anziché premiare chi compete o collabora per generare valore condiviso. Al contrario, per dare sostenibilità ad un sistema di welfare, sempre più sotto pressione, c’è bisogno di aumentare collaborazioni orizzontali, compartecipazioni e responsabilità condivise che incrementino il capitale sociale dei territori e siano capaci di generare valore condiviso e non di privatizzare o di estrarre rendite dai servizi.
Assumere la prospettiva della sussidiarietà e della governance condivisa dovrebbe portarci a valorizzare meglio le procedure di co-progettazione che consentono di realizzare progetti inclusivi di servizi e interventi sociali. Se immaginiamo di ricostruire un sistema di welfare che parta dai cittadini, occorre riconoscere che quando si sviluppa un progetto di welfare, in un certo senso si impegna tutta una comunità a produrre un servizio e non soltanto gli operatori professionali che erogano prestazioni. Una governance partecipata e inclusiva della programmazione e gestione dei servizi di welfare, in particolare di quelli realizzati a livello locale, non è affatto in contraddizione con le regole europee sugli appalti, come a volte qualcuno vorrebbe sostenere, sempre in ossequio a un principio di concorrenza astratto. Una maggiore spinta alla collaborazione tra una pluralità di attori dell’economia sociale e pubbliche amministrazioni è anche la strada per sostenere il potenziale innovativo dei territori e orientare le politiche pubbliche alla creazione di valore nelle comunità locali.
Un pilastro europero dei diritti sociali per tutti
Uno dei limiti politici rilevanti del documento della Commissione europea sul Pilastro europeo dei diritti sociali, riguarda, come ricordato in apertura, la previsione che esso si applichi inizialmente alla zona Euro, riconoscendo implicitamente che, non solo sul piano monetario, ma anche su quello dei diritti sociali esistono diversi livelli di integrazione e unione europea. Tuttavia, senza una coraggiosa e forte politica di riduzione delle diseguaglianze, si aumenta il rischio che le spinte sovraniste e populiste trovino ulteriori motivi per alimentare i risentimenti anti-europei.
È per questo necessario chiedere con determinazione alle forze politiche che si sono insediate nel nuovo Parlamento europeo, così come ai Governi degli Stati membri, un forte impegno per cambiare l’Europa, auspicio perlatro fatto proprio se pur con accenti diversi da tutte le forze che si sono contese il consenso durante la campagna elettorale.
È quindi importante che le organizzazioni dell’economia sociale e del Terzo settore facciano sentire la propria voce per chiedere che la riduzione delle diseguaglianze sia una priorità per la prossima Commissione europea, nella convinzione che non sia più sufficiente parlare di lotta alla povertà e all’esclusione sociale, senza una convinta azione di cambiamento dei modelli economici e fiscali efficace nel ridurre le diseguaglianze, così superando uno dei maggiori fallimenti delle politiche degli ultimi decenni.
Il pilastro europeo dei diritti sociali in 20 principi
CAPO I: pari opportunità e accesso al mercato del lavoro
1. Istruzione, formazione e apprendimento permanente
Ogni persona ha diritto a un’istruzione, a una formazione e a un apprendimento permanente di qualità e inclusivi, al fine di mantenere e acquisire competenze che consentono di partecipare pienamente alla società e di gestire con successo le transizioni nel mercato del lavoro.
2. Parità di genere
La parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere garantita e rafforzata in tutti i settori, anche per quanto riguarda la partecipazione al mercato del lavoro, i termini e le condizioni di lavoro e l’avanzamento di carriera.
Donne e uomini hanno diritto alla parità di retribuzione per lavoro di pari valore.
3. Pari opportunità
A prescindere da sesso, razza o origine etnica, religione o convinzioni personali, disabilità, età o orientamento sessuale, ogni persona ha diritto alla parità di trattamento e di opportunità in materia di occupazione, protezione sociale, istruzione e accesso a beni e servizi disponibili al pubblico. Sono promosse le pari opportunità dei gruppi sottorappresentati.
4. Sostegno attivo all’occupazione
Ogni persona ha diritto a un’assistenza tempestiva e su misura per migliorare le prospettive di occupazione o di attività autonoma. Ciò include il diritto a ricevere un sostegno per la ricerca di un impiego, la formazione e la riqualificazione. Ogni persona ha il diritto di trasferire i diritti in materia di protezione sociale e formazione durante le transizioni professionali.
I giovani hanno diritto al proseguimento dell’istruzione, al tirocinio o all’apprendistato oppure a un’offerta di lavoro qualitativamente valida entro quattro mesi dalla perdita del lavoro o dall’uscita dal sistema d’istruzione.
I disoccupati hanno diritto a un sostegno personalizzato, continuo e coerente. I disoccupati di lungo periodo hanno diritto a una valutazione individuale approfondita entro 18 mesi dall’inizio della disoccupazione.
Capo II: condizioni di lavoro eque
5. Occupazione flessibile e sicura
Indipendentemente dal tipo e dalla durata del rapporto di lavoro, i lavoratori hanno diritto a un trattamento equo e paritario per quanto riguarda le condizioni di lavoro e l’accesso alla protezione sociale e alla formazione. È promossa la transizione a forme di lavoro a tempo indeterminato.
Conformemente alle legislazioni e ai contratti collettivi, è garantita ai datori di lavoro la necessaria flessibilità per adattarsi rapidamente ai cambiamenti del contesto economico.
Sono promosse forme innovative di lavoro che garantiscano condizioni di lavoro di qualità. L’imprenditorialità e il lavoro autonomo sono incoraggiati. È agevolata la mobilità professionale.
Vanno prevenuti i rapporti di lavoro che portano a condizioni di lavoro precarie, anche vietando l’abuso dei contratti atipici. I periodi di prova sono di durata ragionevole.
6. Retribuzioni
I lavoratori hanno diritto a una retribuzione equa che offra un tenore di vita dignitoso.
Sono garantite retribuzioni minime adeguate, che soddisfino i bisogni del lavoratore e della sua famiglia in funzione delle condizioni economiche e sociali nazionali, salvaguardando nel contempo l’accesso al lavoro e gli incentivi alla ricerca di lavoro. La povertà lavorativa va prevenuta.
Le retribuzioni sono fissate in maniera trasparente e prevedibile, conformemente alle prassi nazionali e nel rispetto dell’autonomia delle parti sociali.
7. Informazioni sulle condizioni di lavoro e sulla protezione in caso di licenziamento
I lavoratori hanno il diritto di essere informati per iscritto all’inizio del rapporto di lavoro dei diritti e degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro e delle condizioni del periodo di prova.
Prima del licenziamento, i lavoratori hanno il diritto di essere informati delle motivazioni e di ricevere un ragionevole periodo di preavviso. Hanno il diritto di accedere a una risoluzione delle controversie efficace e imparziale e, in caso di licenziamento ingiustificato, il diritto di ricorso, compresa una compensazione adeguata.
8. Dialogo sociale e coinvolgimento dei lavoratori
Le parti sociali sono consultate per l’elaborazione e l’attuazione delle politiche economiche, occupazionali e sociali nel rispetto delle prassi nazionali. Esse sono incoraggiate a negoziare e concludere accordi collettivi negli ambiti di loro interesse, nel rispetto delle propria autonomia e del diritto all’azione collettiva. Ove del caso, gli accordi conclusi tra le parti sociali sono attuati a livello dell’Unione e dei suoi Stati membri.
I lavoratori o i loro rappresentanti hanno il diritto di essere informati e consultati in tempo utile su questioni di loro interesse, in particolare in merito al trasferimento, alla ristrutturazione e alla fusione di imprese e ai licenziamenti collettivi.
È incoraggiato il sostegno per potenziare la capacità delle parti sociali di promuovere il dialogo sociale.
9. Equilibrio tra attività professionale e vita familiare
I genitori e le persone con responsabilità di assistenza hanno diritto a un congedo appropriato, modalità di lavoro flessibili e accesso a servizi di assistenza. Gli uomini e le donne hanno pari accesso ai congedi speciali al fine di adempiere le loro responsabilità di assistenza e sono incoraggiati a usufruirne in modo equilibrato.
10. Ambiente di lavoro sano, sicuro e adeguato e protezione dei dati
I lavoratori hanno diritto a un elevato livello di tutela della salute e della sicurezza sul luogo di lavoro.
I lavoratori hanno diritto a un ambiente di lavoro adeguato alle loro esigenze professionali e che consenta loro di prolungare la partecipazione al mercato del lavoro.
I lavoratori hanno diritto alla protezione dei propri dati personali nell’ambito del rapporto di lavoro.
Capo III: protezione sociale e inclusione
11. Assistenza all’infanzia e sostegno ai minori
I bambini hanno diritto all’educazione e cura della prima infanzia a costi sostenibili e di buona qualità.
I minori hanno il diritto di essere protetti dalla povertà. I bambini provenienti da contesti svantaggiati hanno diritto a misure specifiche tese a promuovere le pari opportunità.
12. Protezione sociale
Indipendentemente dal tipo e dalla durata del rapporto di lavoro, i lavoratori e, a condizioni comparabili, i lavoratori autonomi hanno diritto a un’adeguata protezione sociale.
13. Prestazioni di disoccupazione
I disoccupati hanno diritto a un adeguato sostegno all’attivazione da parte dei servizi pubblici per l’impiego per (ri)entrare nel mercato del lavoro e ad adeguate prestazioni di disoccupazione di durata ragionevole, in linea con i loro contributi e le norme nazionali in materia di ammissibilità. Tali prestazioni non costituiscono un disincentivo a un rapido ritorno all’occupazione.
14. Reddito minimo
Chiunque non disponga di risorse sufficienti ha diritto a un adeguato reddito minimo che garantisca una vita dignitosa in tutte le fasi della vita e l’accesso a beni e servizi. Per chi può lavorare, il reddito minimo dovrebbe essere combinato con incentivi alla (re)integrazione nel mercato del lavoro.
15. Reddito e pensioni di vecchiaia
I lavoratori dipendenti e i lavoratori autonomi in pensione hanno diritto a una pensione commisurata ai loro contributi e che garantisca un reddito adeguato. Donne e uomini hanno pari opportunità di maturare diritti a pensione.
Ogni persona in età avanzata ha diritto a risorse che garantiscano una vita dignitosa.
16. Assistenza sanitaria
Ogni persona ha il diritto di accedere tempestivamente a un’assistenza sanitaria preventiva e terapeutica di buona qualità e a costi accessibili.
17. Inclusione delle persone con disabilità
Le persone con disabilità hanno diritto a un sostegno al reddito che garantisca una vita dignitosa, a servizi che consentano loro di partecipare al mercato del lavoro e alla società e a un ambiente di lavoro adeguato alle loro esigenze.
18. Assistenza a lungo termine
Ogni persona ha diritto a servizi di assistenza a lungo termine di qualità e a prezzi accessibili, in particolare ai servizi di assistenza a domicilio e ai servizi locali.
19. Alloggi e assistenza per i senzatetto
a. Le persone in stato di bisogno hanno diritto di avere accesso ad alloggi sociali o all’assistenza abitativa di qualità.
b. Le persone vulnerabili hanno diritto a un’assistenza e a una protezione adeguate contro lo sgombero forzato.
c. Ai senzatetto sono forniti alloggi e servizi adeguati al fine di promuoverne l’inclusione sociale.
20. Accesso ai servizi essenziali
Ogni persona ha il diritto di accedere a servizi essenziali di qualità, compresi l’acqua, i servizi igienico-sanitari, l’energia, i trasporti, i servizi finanziari e le comunicazioni digitali. Per le persone in stato di bisogno è disponibile un sostegno per l’accesso a tali servizi.