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Nei giorni scorsi il Governo ha annunciato che la Legge di Stabilità 2016 conterrà importanti novità sul fronte del welfare aziendale. Il Consiglio dei ministri è convocato per giovedì 15 ottobre alle 12.30. Ci attendiamo che, finalmente, saranno proposte le modifiche alla normativa che disciplina il trattamento fiscale dei benefit offerti dalle aziende ai propri dipendenti a lungo auspicate da accademici e addetti ai lavori. Il Testo Unico delle Imposte sui Redditi è datato, ed è cruciale aggiornare la normativa, oltre che andare verso una sua semplificazione, perché sia facilmente comprensibile e utilizzabile da aziende e rappresentanti dei lavoratori. Il welfare aziendale è infatti ormai entrato, nonostante le numerose “aree d’ombra” lasciate dalla legislazione, nella negoziazione tra le parti, e riveste crescente importanza anche rispetto alla contrattazione del salario variabile.
 

I limiti della normativa vigente

I due articoli che disciplinano il welfare aziendale, il 51 e il 100 del TUIR, dispongono sgravi e agevolazioni che rendono l’offerta di beni e servizi da parte del datore di lavoro più conveniente rispetto al tradizionale aumento in busta paga. L’art. 51 definisce ciò che non concorre a formare il reddito da lavoro dipendente, mentre l’art. 100 elenca le “finalità socialmente utili” per cui è disposta l’esclusione dalla formazione del reddito da lavoro dipendente oltre che la parziale deducibilità in capo all’impresa.

In base all’art. 51 non concorrono a formare il reddito da lavoro dipendente – entro limiti di deducibilità prestabiliti – i contributi previdenziali e di assistenza sanitaria, i servizi di mensa e trasporto, i prestiti a favore dei dipendenti, i fringe benefits e le somme, i servizi e le prestazioni erogati dal datore di lavoro alla generalità dei dipendenti o a categorie di dipendenti per la frequenza di asili nido, colonie, e per borse di studio. L’art. 100 dispone invece una soglia di deducibilità del 5 per mille dell’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente risultante dalla dichiarazione dei redditi per le spese sostenute dall’azienda per opere o servizi – utilizzabili dalla generalità dei dipendenti o da categorie di dipendenti – volontariamente sostenute per finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria, o culto.

Negli ultimi anni il dibattito che si è sviluppato intorno alla riforma del TUIR per favorire la diffusione del welfare aziendale si è concentrato su due aspetti principali. Il primo riguarda la necessità di una modifica generale del quadro normativo per renderlo più chiaro e facilmente fruibile dalle aziende, e più adeguato in termini di tipologie di servizi e limiti di esenzione rispetto a quanto stabilito nel lontano 1986. I limiti di deducibilità previsti dall’articolo 51 sono ancora fermi agli importi in lire, e alcuni dei servizi – come ad esempio le “colonie climatiche” – hanno ormai poco a che fare con i bisogni delle famiglie italiane.

Il secondo aspetto coinvolge non solo il mondo aziendale ma anche quello sindacale, auspicando una modifica della normativa che superi definitivamente la visione paternalistica del welfare, in favore dell’introduzione di beni e servizi di natura sociale grazie alla contrattazione aziendale. I servizi previsti dall’articolo 100 sono oggi deducibili dal reddito d’impresa nel limite del 5 per mille del costo del lavoro, e non assoggettati a imposizione fiscale in capo al lavoratore solo se “volontariamente sostenuti per specifiche finalità di educazione, istruzione, ricreazione,  assistenza sociale e sanitaria o culto”. Un requisito che esclude automaticamente la possibilità di inserire i benefit negli accordi di secondo livello. Se così fosse, essi sarebbero infatti integralmente assoggettati ad imposizione in capo al lavoratore, che dovrebbe dunque pagare l’IRPEF sulle somme corrispondenti, come se fossero retribuzione monetaria. In aggiunta all’evidente svantaggio per i rappresentanti dei lavoratori che non possono partecipare – almeno formalmente – alla definizione dei benefit insieme al datore di lavoro, l’articolo 100 appare in contrapposizione con l’articolo 51 che consente – e in alcuni casi addirittura dispone, come per la previdenza complementare e la sanità integrativa – la negoziazione del welfare. Una incoerenza apparentemente ingiustificata che contribuisce ad aumentare di molto le difficoltà delle imprese che desiderano avvicinarsi al welfare aziendale, specialmente se di medie e piccole dimensioni.
 

Le proposte

Come e dove intervenire per superare i limiti della normativa vigente? Di seguito alcune proposte che ci paiono oltre che promettenti anche finanziariamente sostenibili.

Con riferimento all’articolo 51, e in particolare alla lettera f-bis – che dispone che non concorrono a formare il reddito da lavoro dipendente “le somme, i servizi e le prestazioni erogati dal datore di lavoro alla generalità dei dipendenti o a categorie di dipendenti per la frequenza degli asili nido e di colonie climatiche da parte dei familiari indicati nell’articolo 12, nonché per borse di studio a favore dei medesimi familiari” – è auspicabile che il legislatore provveda al più presto ad aggiornare, e se possibile ampliare, le tipologie di servizi. La dicitura “colonie climatiche” dovrebbe essere sostituita con una lista di strutture e servizi per l’infanzia più attuali, come campi estivi, doposcuola e ludoteche, mentre è importante che agli asili nido siano aggiunte le scuole materne. Anche queste ultime “pesano” sul reddito familiare, e sono equiparate agli asili nido dalla recente Legge 13 luglio 2015, n. 107, “La Buona Scuola”. E’ poi auspicabile che l’articolo 100 – e di conseguenza la lettera f dell’articolo 51 che richiama le opere e i servizi previsti dallo stesso articolo 100 – superino al più presto il limite della volontarietà per consentire alle parti di negoziare anche i servizi di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto al pari degli altri previsti dall’articolo 51.

E’ inoltre estremamente importante includere tra i servizi agevolati dalla normativa anche quelli destinati ai lavoratori che supportano familiari non autosufficienti. Da tempo ormai si parla dell’opportunità di “allargare” il concetto di conciliazione vita-lavoro alla cura non solo dei minori a carico ma anche dei familiari anziani. I servizi socio-sanitari dedicati agli anziani, domiciliari e residenziali, costituiscono ormai un problema drammatico per le famiglie italiane a causa degli elevatissimi costi. Qualora le imprese decidessero di farsi carico, anche solo parzialmente, dell’onere economico che grava sui propri collaboratori a causa delle responsabilità di cura dei genitori anziani, è auspicabile che la spesa rientri nell’ambito delle agevolazioni fiscali al pari delle iniziative aziendali destinate a sostenere la cura dei minori.

In un’ottica di innovazione non solo dei servizi ma anche delle modalità di erogazione è infine necessario che il Governo favorisca l’utilizzo di strumenti finalizzati a facilitare l’accesso e la fruizione dei servizi per la famiglia, come i titoli di credito o voucher.  Il voucher consente alle aziende di fornire un sostegno economico per l’acquisto di una varietà di servizi (da quelli per assicurare l’equilibrio dei tempi di vita e lavoro ai servizi per la vita quotidiana, per sollevare le persone dalle piccole incombenze domestiche; dai servizi per i bambini nei primi anni di vita a quelli per anziani, malati e portatori di handicap), e comporta un minore onere organizzativo e gestionale, particolarmente prezioso per le piccole e medie imprese. Le PMI, come è ormai noto, rinunciano spesso all’introduzione di misure di welfare aziendale a causa della eccessiva complessità data dal dover ricercare i fornitori di servizi sul territorio, stipulare convenzioni con ognuno di essi e gestire pagamenti e rimborsi.
 

Welfare e contrattazione di secondo livello

Se per l’impresa il welfare aziendale fa parte di una strategia lungimirante di investimento sul proprio capitale umano interno, i rappresentanti dei lavoratori possono contribuire alla definizione dei benefit e alla supervisione circa la corretta erogazione delle prestazioni. Specialmente quando l’inserimento di strumenti di welfare si configura come un trade-off con il salario – nei casi in cui ad esempio l’azienda disponga l’introduzione di un benefit per “compensare” la mancata possibilità di aumenti salariali, per “mitigare” l’effetto di una riorganizzazione aziendale o proponga la conversione in welfare di parte del salario variabile – il ruolo delle rappresentanze sindacali risulta cruciale sia per “vigilare” il processo sia per certificarne la legittimità agli occhi dei lavoratori una volta raggiunto un accordo con il datore di lavoro. Le relazioni industriali giocano dunque un ruolo fondamentale nello sviluppo del welfare aziendale, particolarmente a livello decentrato. La tendenza a “contrattare il welfare” è particolarmente evidente nel settore bancario, che nel 2014 ha visto oltre l’80% dei principali gruppi in Italia negoziare con i sindacati premi aziendali che prevedono la possibilità per i lavoratori di investire la somma contrattata in spese sanitarie, previdenziali o d’istruzione, beneficiando di agevolazioni fiscali. Una opzione cui hanno aderito circa il 25% dei dipendenti, per un totale di oltre 48.000 persone (dati FABI Federazione Autonoma Bancari Italiani). Una tendenza in espansione e ormai diffusa anche in altri settori.

Sotto questo profilo saranno cruciali le scelte del Governo rispetto alla disciplina del “Premio di produttività” per il prossimo anno. Da un lato, è importante che la determinazione del salario variabile e i benefici fiscali e contributivi a esso applicati siano realmente collegati alla competitività delle aziende e al miglioramento della performance. Dall’altro, è necessario che si chiarisca una volta per tutte il nesso tra produttività e welfare. Se già molte aziende hanno deciso di convertire il premio in welfare, così da sfruttare la normativa fiscale che disciplina quest’ultimo, la questione circa la legittimità dell’operazione e i suoi limiti è ancora aperta. Qualora il Governo dia il via libera, ci aspettiamo che le regole siano più chiare e non lascino spazio a interpretazioni ambigue. Se la linea fosse quella di promuovere davvero la diffusione del welfare aziendale, la nuova normativa dovrebbe introdurre un trattamento fiscale agevolato per i contratti che prevedano, a scelta del lavoratore, la conversione del premio monetario in un “conto welfare” per l’acquisto di beni e servizi.

Non dimentichiamoci però che si tratta di una importante questione politica: favorire l’offerta di welfare rispetto alla retribuzione monetaria produce nuove opportunità ma anche nuovi costi in capo alla collettività. Promuove inoltre – come mai prima d’ora – l’inserimento del welfare nell’ambito delle relazioni industriali rafforzando da un lato il nesso tra welfare e risultati aziendali e, dall’altro, spingendo con forza proprio verso il rilancio della contrattazione aziendale.
 

Rassegna stampa:

Legge di Stabilità, flessibilità dal 2016: part-time per gli over-63, Corriere della Sera, 14 ottobre 2015

Contrattazione collettiva decentrata: dalla Legge di Stabilità il rilancio?, IPSOA, 10 ottobre 2015

Occupazione, il premio di produttività in busta paga sarà defiscalizzato, Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2015

Un nuovo sistema contrattuale per aumentare la produttività, La Stampa, 11 ottobre 2015


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