Era il 14 gennaio 2011 quando il presidente Zine El-Abidine Ben Ali lasciava la Tunisia dopo le proteste, le piazze occupate, gli scontri, i morti. I media di tutto il mondo, durante quei mesi, hanno raccontato i dolori e le speranze del popolo tunisino, i viaggi verso l’Italia e gli arrivi a Lampedusa. Dopo quest’attenzione mediatica durata alcuni mesi è calato il silenzio, non si è più parlato dell’evoluzione politica e sociale di questo Paese geograficamente e culturalmente così vicino per essere ancora così lontano. In questi tre anni nella terra dei gelsomini è iniziata una rivoluzione del volontariato e del non profit senza precedenti. Quella che si può incontrare oggi nelle sedi delle associazioni, nei circoli culturali, nei servizi socio-assistenziali realizzati è una Tunisia molto lontana dalle immagini di paura e tensione dei giorni della rivoluzione.
Le associazioni
Il numero delle associazioni socio-culturali negli ultimi tre anni è quasi raddoppiato, si è passati dalle 9.754 realtà del 2010 alle 17.245 registrate ad agosto 2014. I dati ci vengono forniti da IFEDA “Centro d’Informazione, Formazione, Studio e Documentazione sulle associazioni in Tunisia”, un’agenzia dedicata al mondo del non profit che è il riferimento per le organizzazioni del Paese per quanto riguarda la formazione, la messa in rete, e l’iscrizione al registro nazionale.
Queste organizzazioni sono chiamate, per loro stessa mission, a costruire una nuova cultura: quella della gratuità, del volontariato, della cooperazione. Infatti, come spiegano i presidenti dell’Associazione Rose de L’Esproir (Tunisi) e Arselan (Sousse), “ancora solo il 4% della popolazione svolge attività di volontariato”. La mancanza di una cultura dell’associazionismo, del volontariato e dell’impresa sociale deriva dal ruolo esercitato dal regime di Ben Ali per oltre vent’anni. Prima della rivoluzione, infatti, le associazioni esistenti erano uno strumento di controllo legate al potere politico, militare e della famiglia del Presidente con lo scopo limitare la libertà di espressione del pensiero antigovernativo. Per questi motivi creare un’associazione era molto difficile ed era consigliato, da parte delle autorità politico-militari, di aderire ad organizzazioni già esistenti che erano sotto il controllo dell’entourage presidenziale.
Che cosa è mutato con la rivoluzione? I cambiamenti dell’ordinamento giuridico, oltre al processo democratico che ha portato alla libertà d’espressione, hanno dato una spinta non indifferente all’aumento sia delle associazioni riconosciute che allo sviluppo di sistemi di secondo welfare.
La nuova legislazione
Il decreto legge 88 del 24 settembre 2011 ha aperto una nuova via rispetto alla legislazione precedente che regolamentava l’associazionismo. Un norma di ben 49 articoli (cfr. Decreto Legislativo 24 settembre 2011, n. 88) che ha accompagnato la spinta dal basso al cambiamento proveniente della società tunisina. La nuova legislazione, infatti, assicura la libertà per la creazione di nuove associazioni e chiede trasparenza a livello gestionale, amministrativo e finanziario “Per la realizzazione degli obiettivi della Rivoluzione, della riforma politica e della transizione democratica – scrive il legislatore – il presente decreto-legge garantisce la libertà di creare associazioni, di aderirvi, di esercitarvi attività. Inoltre garantisce il rafforzamento del ruolo svolto dalle organizzazioni della società civile, il loro sviluppo ed il rispetto della loro indipendenza” (Art. 1).
Nella legge, all’art. 3 viene anche fatto esplicito riferimento al rispetto “dei principi dello Stato di diritto, della democrazia, del pluralismo, della trasparenza, dell’uguaglianza e dei diritti dell’uomo, come definiti dalle convenzioni internazionali convalidate dalla Repubblica tunisina”. La necessità di specificare in maniera così chiara i principi universali di libertà ed uguaglianza nasce certamente dall’esperienza avuta con la dittatura, che porta anche a richiamare nella norma all’art. 4 il rifiuto di ogni attività che inciti “alla violenza, all’odio, all’intolleranza e alla discriminazione basata sulla religione, sul sesso o sulla regione di appartenenza” .
Per sostenere ed accompagnare le associazioni in questo nuovo percorso di crescita qualitativa l’IFEDA garantisce corsi di formazione, seminari di studio, elaborazione di pubblicazioni, etc. per aumentare le competenze gestionali, migliorare il metodo di lavoro, favorire la costituzione di reti delle organizzazioni tunisine e coordinare le azioni di secondo welfare partite in nel territorio.
Ambiti di attività e distribuzione territoriale
I beneficiari delle attività delle associazioni sono studenti, orfani, disabili, famiglie svantaggiate ai quali sono forniti sostegno economico e piscologico per contrastare la grave emarginazione. “Dove il welfare state non arriva – ci spiegano i responsabili delle organizzazioni incontrate – interveniamo noi attraverso il sostegno domiciliare, interventi economici, sostegno psicologico con esperti, sostegno scolastico, assistenza sanitaria, sostegno alla mobilità fisica, formazione degli adulti, etc.”. A ciò si affianca anche l’attività d’infrastrutturazione sociale con azioni per il miglioramento di management, criteri decisionali, pianificazione strategica, comunicazione e fundraising, cooperazione con partner stranieri, etc.
Una rivoluzione del terzo settore a 360 gradi che cerca non di sostituirsi ma di essere complementare alle attività del welfare statale, coinvolgendo operatori qualificati volontari (molti dei quali sono donne) e riuscendo ad attivare canali di finanziamento delle attività attraverso azioni di fundraising sia a livello nazionale che internazionale. Secondo il registro dell’IFEDA ci sono in tutta la Tunisia 2846 associazioni culturali, 2211 associazioni caritative, 1663 associazioni di cooperazione e sviluppo. Mentre, in ambito territoriale, le città con un maggiore fermento sono Tunisi con 3163 associazioni, Sfax con 1496, Sousse con 788 e Monastir con 623. La vivacità generata dalla nascita di queste associazioni si fonda sulla necessità di diverse persone di mettersi insieme per “comprendere cosa poter fare per il nuovo corso della Tunisia e mettere a sistema idee e capitale umano per rendere questo Paese migliore”.
Un percorso che è solo all’inizio e che richiede, necessariamente, anche un’elaborazione di modelli ed esportazione di buone prassi da parte di quei Paesi dell’Unione Europea (Italia in testa) che più volte si sono dimostrati interessati, economicamente, culturalmente e socialmente, ad accompagnare il percorso di transizione democratica della Tunisia.