Chi non è mai caduto in qualche false friend linguistico? Parole straniere che sembrano proprio simili, o addirittura uguali, alla propria lingua madre ma che poi si scopre avere altri significati, a volte molto diversi, che magari ci fanno fare figuracce. Traslando la metafora nel campo sociale potremmo dire che nel dibattito tra gli addetti ai lavori – soprattutto nel Terzo Settore, ma anche nella Pubblica Amministrazione – si aggira un falso amico: la coprogettazione, in particolare quella che viene definita e regolata all’articolo 55 del codice del Terzo Settore (d.lgs n. 117/17).

L’articolo 55 nel dibattito pubblico e la "spinta" del Coronvirus 

Secondo diversi osservatori l’articolo 55 sarebbe il grimaldello per superare la logica di mercato, e quindi competitiva, che domina ormai da decenni il rapporto tra enti pubblici e soggetti di Terzo Settore, in particolare le imprese sociali, inaugurando una stagione di amministrazione della cosa pubblica improntata a criteri di collaborazione. La norma permetterebbe infatti di eliminare le storture della competizione: eccessivi ribassi economici, impoverimento della qualità delle prestazioni e del lavoro di chi le eroga, appiattimento delle organizzazioni sociali rispetto a fornitori for profit, ecc. L’articolo 55 rappresenterebbe in quest’ottica una sorta di argine rispetto al codice degli appalti, additato invece come la massima espressione di una modalità mercatista di allocazione delle risorse pubbliche.

Questo scontro non è solo culturale, ma anche giuridico. Il Consiglio di Stato nel luglio 2018 con un proprio parere ha di fatto contribuito a depotenziare l’articolo in questione quasi in maniera preventiva, prima ancora cioè che potesse sortire effetti applicativi ad ampio raggio. Una scelte che ha generato malumori e conseguenti prese di posizione da parte di coloro che invece ne sostengono i contenuti e, in senso lato, l’approccio.

Ma la coprogettazione comunque non si ferma: viene praticata da un numero crescente di amministrazioni pubbliche e invocata da una ancora più larga schiera di enti di Terzo Settore e imprese sociali anche in questa fase di emergenza. La pandemia di Covid-19, infatti, ha portato con sé una serie di provvedimenti governativi all’interno dei quali si segnalano alcuni dispositivi che rilanciano la progettazione partecipata. È il caso, in particolare, dell’articolo 48 del “Cura Italia” all’interno del quale è prevista per gli enti privati di natura assistenziale e sanitaria la possibilità di rinegoziare i contratti in essere con la Pubblica Amministrazione anche attraverso procedure di coprogettazione.

La declinazione "dirigista" dell’articolo 

A fronte di uno scenario ricco di incertezze ma comunque ancora dinamico, può essere necessario approfondire alcuni aspetti applicativi della coprogettazione al fine di coglierne le modalità d’uso più efficaci, onde evitare che venga utilizzata per nominare processi diversi rispetto alle sue finalità. Dimostrandosi, appunto, una false friend. L’articolo 55, da questo punto di vista, lascia aperte alcune questioni rispetto alla possibilità di attuare un reale cambio di paradigma nell’esercizio della funzione pubblica.

La prima riguarda la coerenza con il riferimento costituzionale, il famoso articolo 118, frutto di una delle poche riforme della legge fondamentale che si è riusciti a portare a termine negli ultimi trent’anni in Italia. La previsione costituzionale in questione non è altro che la scrittura in termini legislativi del principio di sussidiarietà, ovvero di un approccio che vede la Pubblica Amministrazione agire come abilitatore della cittadinanza attiva, intrapresa sia da parte di cittadini singoli che associati in formazioni sociali, intervenendo direttamente solo nel caso in cui questo protagonismo “dal basso” non si attivi o non sia in grado di rispondere a bisogni e sfide sociali. Ecco, da questo punto di vista nell’articolo 55 la declinazione di questo principio sembra essere più “dirigista” e asimmetrica, nel senso che il pallino del processo – genesi, gestione, esito – è completamente in mano alla burocrazia pubblica. Un elemento che contribuisce a depotenziare un reale processo di progettazione condivisa dove la società civile sia davvero protagonista. È infatti la Pubblica Amministrazione che, attraverso criteri selettivi che appaiono riconducibili alla logica dell’appalto, decide quali sono le istanze su cui coprogettare, seleziona i soggetti, ha il potere di rifiutarne le proposte e di decidere come affidarne l’eventuale gestione.

Insomma non si ravvisa un modello condiviso di amministrazione e, anzi, il rapporto che si instaura – da una parte chi seleziona e dall’altra chi esegue – sembra esercitare ancor più un approccio estrattivo delle risorse sociali. Dopo aver comprato, spesso a basso costo, prestazioni e servizi dal Terzo Settore ora l’ente pubblico “si compra”, spesso con investimenti economici limitati o nulli, anche la capacità di progettazione in termini di lettura dei bisogni, di capacità d’innovazione, di apporto di risorse aggiuntive. Una situazione ben diversa rispetto, ad esempio, ai patti di collaborazione siglati dalla Pubblica Amministrazione nell’ambito dei regolamenti per la cura dei beni comuni adottati da molti enti locali italiani. In questo caso, infatti, le dimensioni di coprogettualità e sussidiarietà sono meglio allineate perché è l’ente pubblico che realmente supporta cittadini a implementare i loro progetti tutelandone e “pubblicizzandone” il carattere di utilità. Senza fare "selezione all’ingresso".

Il rischio di escludere le organizzazioni piccole e informali 

Ma oltre a questa discrasia tra riferimento costituzionale e declinazione del dispositivo normativo c’è un secondo nodo critico da evidenziare e che è strettamente legato alle modalità di implementazione della riforma del Terzo Settore. L’impianto riformatore sta infatti innescando, in termini generali, un processo di capacity building che sta portando molti soggetti non profit ad assumere una maggiore strutturazione in termini organizzativi, di dimensione economica e di capacità gestionale.

Se tale evoluzione è da salutare positivamente perché contribuisce a rafforzare uno dei settori più dinamici della società italiana in termini di protagonismo e di capacità “produttiva”, va anche evidenziata una possibile esternalità negativa, ovvero che molte organizzazioni non profit di piccole dimensioni e al limite dell’informalità “rimangano indietro” non riuscendo, o non volendo, assumere conformazioni e abiti giuridici che, per una serie di ragioni, non sentono propri. L’articolo 55 è infatti molto perentorio rispetto al fatto che la coprogettazione è aperta esclusivamente agli Enti di Terzo Settore, i famigerati ETS previsti dalla riforma.

Da un lato si potrebbe comprensibilmente obiettare che questa scelta è giustificata considerando il contesto legislativo e anzi potrebbe essere considerata una previsione positiva nella misura in cui la Pubblica Amministrazione sia facilitata nell’individuare e coinvolgere partner competenti e strutturati, oltre che dotati di una medesima mission pubblica. Ma, al netto della disposizione astratta, c’è da rilevare anche un fatto sostanziale: ovvero che oggi la società italiana, come ricorda anche Giovanni Moro nel suo ultimo libro “Cittadinanza”, pullula di soggetti singoli e associati che fanno dell’informalità o della scarsa strutturazione un punto forte della loro capacità di innovazione, superando i meccanismi di dipendenza dal percorso che spesso caratterizzano i “tavoli” dove si programmano le politiche e si coprogettano le azioni come si evidenzia, ad esempio, nel campo delle politiche sociali. E anche in questo caso il modello dei patti di collaborazione sembra essere più efficace in senso sussidiario perché considera cittadini singoli e gruppi informali.

E se il cooridnamento soffoca l’originalità?

Escludere gli attori esterni al perimetro del Terzo Settore stabilito dalla riforma e collaborare solo con soggetti probabilmente già “accreditati” significa tuttavia precludersi la possibilità di agire fuori degli schemi. Così facendo, però, viene meno l’idea stessa di coprogettazione, che per sua natura permette di immaginare soluzioni innovative, flessibili e fantasiose a problemi che, spesso, la Pubblica Amministrazione da sola non saprebbe come risolvere.

Si corre così il rischio di innescare, come ricorda spesso Paolo Venturi, derive di group think dove cioè le esigenze di coordinamento e di consenso prevalgono su elementi di originalità e autonomia di pensiero. Non un grande viatico se l’obiettivo, soprattutto ora, è di rifondare politiche di coesione e di sviluppo a più ampio raggio come la stessa riforma del Terzo Settore consentirebbe in quanto amplia settori di attività nei quali si può (anche) progettare congiuntamente.

Chissà quindi se, scoperto il falso amico, non sia l’occasione di trovare nuove e diverse traduzioni per il termine “coprogettazione”.