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Un anno come il 2020, caratterizzato da drammatiche trasformazioni che hanno modificato in modo profondo le modalità di relazione e le capacità di adattamento di persone e organizzazioni, verrà forse anche ricordato come il periodo degli appelli all’unità, alla collaborazione, alla mobilitazione condivisa che hanno riguardato Paesi, industries e settori differenti. L’ecosistema filantropico o, più in generale, quello che ricomprende i diversi stakeholder votati alla generazione di un cambiamento positivo per la comunità non ha fatto eccezione in questo senso. Lo European Philanthropy Statement on COVID-19 di DAFNE e EFC; la piattaforma Unitus Europe lanciata da DAFNE, EFC, EVPA, GSG e NEF; il pledge promosso dallo statunitense Council of Foundations attraverso la call to action Philanthropy’s commitment during Covid-19 sono solo alcuni esempi che, facendo leva a seconda dei casi sulla condivisione di risorse economiche, di strumenti o di un’impostazione valoriale, sono riusciti a riunire stakeholder, differenti per natura e modello, per far fronte comune dinanzi a una situazione di emergenza, di trasformazione, e di incertezza.

Nei mesi a seguire diverse voci si sono levate a favore di una nuova modalità di operare improntata alla collaborazione sistemica e, sostanzialmente, al superamento di una logica a silos che vede ogni ente irrimediabilmente e un po’ malinconicamente confinato in sé stesso. In effetti, a favore di un’evoluzione che trasformi una mobilitazione empatica, emersa in occasione di un’emergenza, in una pratica che possa non solo contribuire al superamento della medesima ma, auspicabilmente, proseguire al di là di essa, rafforzando la capacità di stakeholder diversi di collaborare per provare a dare risposte più efficaci a bisogni urgenti.

In quest’ottica, mi sento di suggerire tre punti tra loro collegati che possono, in mia opinione, contribuire al superamento di ciò che Carola Carazzone, segretario generale di Assifero, ha appropriatamente caratterizzato in un recente articolo come il “solipsismo” delle realtà italiane.

Network basati su obiettivi di cambiamento

L’articolo di Carola Carazzone evidenzia in modo puntuale un punto chiave: nel momento di trasformazione che stiamo vivendo e nel periodo che seguirà, è fondamentale che ognuno di noi rimetta al centro gli obiettivi e il motivo per cui “facciamo quello che facciamo”. Come Enti votati alla generazione di effetti positivi, dobbiamo riportare il focus sul perché e sul come, definendo la Theory of Change che indirizza la nostra azione per precisare in modo puntuale quali sono le priorità, i valori e i fini che ci guidano. Per chi lavoriamo? I nostri programmi hanno senso? Abbiamo deviato rispetto alla nostra mission iniziale? Dobbiamo evolvere alla luce di nuovi bisogni? Questo esercizio risulta fondamentale non solo per ciascuno di noi, a livello strategico, per orientarci in un periodo di incertezza; ma per chiarire ad altri soggetti quali possono essere i punti di unione e di differenza. Quanti esempi concreti e di successo di alleanze vediamo nella pratica a fronte di una (onnipresente e sbandierata) volontà di “collaborare” a favore di un (generico e incomprensibile) “cambiamento sistemico”?

Se da un lato perfezionare il proprio modello strategico può aiutarci a comprendere l’opportunità di alleanze inter-organizzative e a chiarire il valore aggiunto che ogni partner può apportare per uno specifico obiettivo di cambiamento (interessante a questo proposito l’intervista a Giuseppe Dell’Erba di Fondazione Cottino), dall’altro è arrivato forse il momento di superare – o di integrare – l’ecosistema delle rappresentanze istituzionali basate su forma giuridica e modelli di intervento. Dobbiamo cambiare paradigma: se in alcuni casi una comune forma giuridica potrebbe facilitare il dialogo e la collaborazione tra Enti, per una questione di tradizione e meccanismi di funzionamento, questo non può più essere il driver trainante. Ma, ancora di più, non possiamo identificare il collante di un’alleanza nel consueto modello “erogativo vs operativo”, come giustamente sottolinea Carola Carazzone. Se ciò che deve guidarci è la generazione di effetti positivi, allora avviare network basati su comuni aree di intervento, obiettivi condivisi e stakeholder specifici potrebbe essere la strada per lavorare davvero assieme, andando oltre generici tavoli che riuniscono Enti accomunati nella forma ma poco propensi – e spesso impossibilitati – a lavorare assieme nella sostanza a causa dell’eterogeneità di approcci, priorità e valori di ciascuno di essi.

Strumenti comuni e standard di riferimento

La mancanza di una comune cultura non può che impedire forme di reale collaborazione: quest’ultima può essere in parte facilitata da interessi e obiettivi partecipati, come discusso, ma può davvero tradursi nella pratica nel momento in cui esistano degli standard condivisi – per adottarli in modo sistemico o, se necessario, per superarli. Ciò significa che, prima ancora di chiederci se determinati approcci e strumenti possano risultare obsoleti, sarebbe opportuno accertare la conoscenza condivisa degli stessi. Per tradurre questo concetto concretamente, prendiamo l’esempio del tanto bistrattato “quadro logico”: possiamo dibattere se sia ancora una soluzione adeguata ma forse sarebbe prima il caso di porsi delle domande preliminari. Ad esempio, quante organizzazioni sanno davvero come utilizzarlo? Quanti utilizzano il suo format più recente o sono rimasti alla matrice di dieci anni fa? Quanto questa frammentazione di format risulta onerosa per gli Enti alla ricerca di fondi per portare avanti il proprio lavoro? Intendo dire con questo che, prima di lanciarci contro l’utilizzo dell’inglese come standard di comunicazione, perorando la causa di dialetti locali o propugnando la creazione di un nuovo linguaggio, sarebbe il caso di avere una buona conoscenza di ciò che vogliamo superare e che in ogni caso, volenti o nolenti, rappresenta al momento un punto di riferimento.

Analogamente, è corretto come sostiene Carazzone che gli enti filantropici investano “in un approccio multi-capitale sulle organizzazioni del terzo settore” per accrescere le opportunità di queste ultime, soprattutto “in un Paese dove pochissimi ETS sono in grado di accedere ai fondi europei”. D’altro canto, vale la pena domandarsi se considerare persa tout court la possibilità di accedere a fondi internazionali o se lavorare sul superamento di una sorta di autoreferenzialità italiana tendendo verso framework che a livello globale risultano sostanzialmente la prassi (il settore della cooperazione internazionale ha tanto da insegnare a questo proposito). La creazione di un linguaggio comune (in termini di logiche e strumenti), perseguita attraverso il dialogo tra peers e l’investimento nella capacity building degli ETS, può aiutarci a sviluppare alleanze che si reggano su basi più solide – e, forse, ad accedere a opportunità che possono andare oltre i confini del nostro Paese.

Una cultura della valutazione e dell’evidenza

Infine, se le alleanze devono reggersi su obiettivi e strumenti condivisi, vale la pena investire nel comprendere e valutare davvero gli effetti che vogliamo produrre. Il che non può certo limitarsi alla compliance con questo mostro mitologico chiamato “VIS” che – nella pretesa di andare oltre a una sacrosanta ricerca di accountability che renda più conoscibile il nostro settore – sta creando una distorsione per cui tutti dovranno costantemente comunicare il proprio “impatto sociale” (qualsiasi cosa significhi).

Il problema, a mio avviso, non risiede nella mancata imposizione di uno standard universale di misurazione che debba essere utilizzato sempre e costantemente da ogni ETS per ogni progetto. È proprio questa logica rendicontativa/comunicativa (i.e., “Si avvicina la deadline annuale, dobbiamo misurare il nostro impatto”) più che la necessità effettiva di “conoscere” qualcosa (i.e. “Questo specifico progetto funziona per produrre uno specifico cambiamento positivo?”) a produrre una deformazione terminologica e culturale. La prima non può che creare confusione nel modo in cui ognuno comunicherà i propri risultati utilizzando le stesse parole in modo diverso; la seconda spinge all’illusione che si possa misurare e quantificare il proprio “impatto” sempre e in ogni occasione. Per una chiara analisi di cosa sia e di quale sia il senso reale della valutazione di impatto, raccomando il recente articolo di Gian Paolo Barbetta che rimette al centro il punto principale: “La mia proposta è di non perdere tempo con l’ambiguo sostantivo “impatto” (e i suoi molti possibili significati) per provare invece a rispondere, nella migliore maniera possibile, alla domanda cruciale che dovrebbe porsi chiunque voglia migliorare il sistema di welfare. Gli interventi, le azioni e le politiche che gli enti del Terzo settore (e le amministrazioni pubbliche) realizzano riescono a generare cambiamenti positivi nella vita delle persone?

Per creare alleanze solide in cui i partner siano in grado di definire e comprendere i risultati generati, dobbiamo investire in una cultura dell’evidenza che:

  • Vada oltre la narrazione episodica, in cui la prova di successo viene ritrovata nell’aneddotica. Lo scoppio e l’avanzare della pandemia hanno avuto, se non altro, il non trascurabile merito di rimettere un poco al centro dell’attenzione pubblica e mediatica i concetti di dati, ricerca e valutazione dei risultati. Accetteremmo l’efficacia di un vaccino sulla base di motivazioni come “Mio cugino l’ha fatto e sta bene”? Perché dovremmo accettare la stessa logica nel nostro settore quando parliamo dell’efficacia di un intervento?
  • Sia fondata su un uso univoco dei termini. Dobbiamo imparare a parlare di output, di cambiamenti osservabili (outcome) e di effetti (impatto) nel modo opportuno e quando opportuno. Ciò significa rifuggire il marketing della valutazione (di nuovo, accetteremmo l’efficacia di un vaccino sulla base di annunci come “Il suo valore socio-economico risulta pari a 1,7”?) a favore di un paradigma in cui la valutazione sia riconosciuta come meccanismo di generazione di conoscenza che permette di comprendere i risultati e fornisce informazioni su come migliorare.
  • Accetti il fallimento. Infine, è necessario realizzare che non può esserci collaborazione se non partiamo dal presupposto che sia possibile fallire. Come discusso recentemente in un focus group curato da Percorsi di secondo welfare, per definizione, l’innovazione può fallire e per questo il fallimento non deve essere nascosto; bisogna, al contrario, metterlo a fattor comune, superando la paura di dire che si è fallito”. Se questo è qualcosa su cui dobbiamo lavorare già nel tradizionale meccanismo “Ente finanziatore – Ente implementativo”, al fine di scardinare la logica della valutazione come forma di controllo e riportarla al suo vero significato (vedi punto precedente), risulta ancora più prezioso nel momento in cui si intenda ragionare in ottica di alleanza e co-progettazione. Co-progettare può voler dire co-fallire. Se non riconosciamo questo fatto, non riusciremo mai a sederci a un tavolo comune senza che ci sia la tendenza, da parte di chi si sente messo sotto giudizio, a minimizzare i rischi e occultare gli insuccessi dinanzi a coloro che, detenendo le risorse, si riconoscono o vengono percepiti come soggetti pronti a puntare il dito su un colpevole – invece che alleati con cui lavorare assieme, cercare soluzioni, e apprendere (dalla valutazione e dall’eventuale fallimento) per migliorare.  

Il Covid-19 è riuscito a unire: la voglia di sopravvivere e di sconfiggere un nemico comune sono riusciti a fungere da collante (il leitmotiv di ogni film catastrofico, d’altronde). Ma per evitare di tornare alla frammentazione e ai silos, servono obiettivi specifici per lavorare assieme; strumenti e linguaggio condivisi per raggiungere questi obiettivi; e misurazioni chiare, rigorose e votate all’apprendimento per capire se stiamo raggiungendo questi obiettivi, se stiamo fallendo, e cosa dobbiamo migliorare. “Da soli si cammina veloci, Insieme si va lontano”, recita il proverbio: ma collaborare e restare uniti richiede comunque uno sforzo ed è improbabile che saremo disposti a farlo se non sappiamo dove stiamo andando e se davvero stiamo procedendo sul cammino stabilito.

Questo articolo è stato pubblicato anche sul sito di Fondazione Mazzola ed è qui riprodotto previo consenso dell’autore.