La recente stagione del dibattito sul terzo settore e sull’impresa sociale è stata caratterizzata dal tentativo di costruire una nuova narrazione svincolata in larga parte dal tradizionale vocabolario dei diritti, della giustizia e della solidarietà e infarcita di nuove parole chiave come economia civile, mercatizzazione, social business, prototipizzazione, scaling, open innovation, impatto sociale. L’aspirazione che muove questo tentativo è di contribuire a un cambiamento di paradigma inteso nei termini di Thomas Kuhn (1962) come una trasformazione nella modellizzazione dei fenomeni. Il paradigma, nella visione di Kuhn, è non solo una teoria corrente, ma l’intera visione del mondo nel quale la teoria si colloca e prende forma. Un paradigma è basato sulle caratteristiche del panorama della conoscenza che gli scienziati possono identificare attorno a loro. Un paradigma cambia quando le vecchie spiegazioni e assiomi entrano in uno stato di crisi e scaturisce da tale condizione una battaglia intellettuale tra i seguaci di una nuova spiegazione del mondo e i difensori della vecchia che vede i primi prevalere sui secondi.
La convinzione di fondo che spinge oggi molti studiosi e opinion makers sulla strada della necessità di un cambiamento di paradigma è che l’integrazione del terzo settore nell’ambito delle politiche pubbliche abbia progressivamente assunto la forma di un cappio che a causa della razionalizzazione e del controllo della spesa, dell’eccesso di burocratizzazione e dell’immobilismo decisionale della dirigenza pubblica toglie l’aria e porta molte organizzazioni a boccheggiare invece che rilanciare la propria azione per rispondere ai bisogni emergenti. Di fronte a questo scenario si pone dunque come prioritario e strategico un cambio di marcia che deve essere caratterizzato da elementi di radicalità tali da mettere in luce l’insostenibilità del modello del welfare mix tradizionale e ricollocare la sfera di pensiero e azione del terzo settore nell’ambito di un nuovo modello di sviluppo più dinamico e economicamente sostenibile, caratterizzato da marcata vocazione imprenditoriale, orientamento alla finanziarizzazione e alla mercatizzazione.
L’innovazione nel terzo settore: realtà o semplice narrazione?
L’esigenza di non dipendere in modo eccessivo dai finanziamenti pubblici non è per chi si occupa di terzo settore una novità, ed è un dato acquisito in letteratura fin dalla metà degli anni ‘90. Quindi tempo per riflettere e adeguare i modelli organizzativi o – come si dice oggi – i modelli di business in modo coerente ce ne è stato tanto a disposizione. La spinta a costruire una nuova narrazione va probabilmente vista anche come tentativo di insistere su una prospettiva di sviluppo che è stata solo in parte interiorizzata dalla grande parte delle organizzazioni di terzo settore. Pur riconoscendo dunque un obiettivo positivo al nuovo dibattito, la domanda che ci si deve porre oggi è: quanto c’è di originale in questo tentativo di innovare il pensiero e il modus operandi del terzo settore e quanto di tutto quello che è enfaticamente auspicato è tradotto sul piano concreto?
Rispondere a tali interrogativi è molto importante perché i cambiamenti di paradigma richiedono prove e dati che devono passare al setaccio della riflessione e della nuova elaborazione teorica. Riportando il livello della discussione sul piano delle evidenze empiriche quello che appare molto chiaro è che la dimensione ‘disruptive’ del cambiamento teorizzata da molti sostenitori del cambiamento di paradigma in atto è più nominale che reale. Diversamente dalla vulgata che vuole lo status quo caratterizzato da immobilismo e refrattarietà al cambiamento, molti enti di terzo settore sono dentro un processo di trasformazione. Si tratta tuttavia prevalentemente di traiettorie di innovazione di tipo incrementale o evolutivo. Al di là dello storytelling che evoca mirabolanti rivoluzioni in atto il cambiamento radicale rimane per la grandissima maggioranza del terzo settore qualcosa cui al massimo aspirare, ma che nella pratica ancora non si vede. Così molti progetti descritti come rivoluzionari terminano una volta finiti i finanziamenti di uno sponsor privato o fondazioni. I miliardi della finanza di impatto sponsorizzati e promossi come la chiave di volta del rilancio del terzo settore rimangono sostanzialmente inutilizzati, le operazioni di scaling si arenano di fronte alla più robusta e organizzata concorrenza profit, i prototipi rimangono negli innovation hub. La stessa open innovation rischia di diventare terreno di conquista di una nuova generazione di agguerrite società di consulenza, mentre l’impatto sociale resta ancora un mantra senza metriche convincenti e adeguate.
Di chi è la responsabilità di questa situazione? Diversi osservatori e opinion leaders puntano il dito sulla refrattarietà di grandi parti del terzo settore ad aprirsi al nuovo e a cogliere le opportunità del cambiamento. Ritorna in questa spiegazione la convinzione che il costo del patto scellerato con le amministrazioni pubbliche sia stato quello della rinuncia all’autonomia e alla libertà di iniziativa e che il terzo settore sia un soggetto che va rigenerato in modo radicale per evitarne lo snaturamento e la perdita di identità. Certamente il terzo settore è composto da una parte di organizzazioni invischiate in routine di pensiero e azione che non consentono di immaginare il mondo in modo diverso da quello sperimentato. Vi sono poi rendite di posizione che continuano a essere difese attraverso il rapporto fiduciario o clientelare con la politica nella speranza di garantire il funzionamento dei servizi e la tutela dell’occupazione. Se tutto questo è vero, altrettanto vero è però che l’enfasi sulla costruzione di una nuova narrazione del terzo settore, liberatoria di potenzialità represse e non valorizzate, non ha come minimo saputo leggere la complessità e ha affidato la speranza del cambiamento a proclami pugnaci sotto il profilo della retorica ma difficili da realizzare da un punto di vista pratico. Il mancato passaggio da vecchio e nuovo paradigma non è in questa prospettiva solo colpa del terzo settore, ma anche di chi ha profetizzato l’ineluttabilità di una trasformazione che è ancora lungi dal prendere forma senza valutarne l’effettiva praticabilità.
Due esempi “di scuola”
Gli elementi che mettono in luce la difficoltà di descrivere la realtà con il vocabolario del cambiamento sono molteplici. Un caso che rischia di diventare “di scuola” è la cosiddetta open innovation. Negli studi di impresa, l’innovazione aperta è quell’insieme di tecniche e processi che permettono alle imprese di cogliere gli stimoli provenienti dall’esterno e di accelerare i processi di innovazione (Chesvrough, 2003). Oggi da più parti si insiste nel promuovere strategie di open innovation da parte del terzo settore che assumono forme variegate come tavoli di lavoro, tecniche di social design, world café, per svecchiare le idee e i modelli di comportamento consolidati. L’aspettativa è che queste aperture forzate delle organizzazioni producano informazioni e stimoli tali da favorire nuove idee e lo sviluppo di servizi innovativi. È interessante notare come la gran parte delle soluzioni offerte siano scorciatoie che esulano dal tema della governance istituzionale aperta delle organizzazioni. Probabilmente modificare i sistemi istituzionali di governance è più faticoso e per velocizzare i processi si preferisce indicare allora altre strade, più veloci e apparentemente facili da seguire. I risultati di questo modo di pensare l’innovazione, dopo una prima ondata di entusiasmo, sono però ancora spesso deludenti.
Il problema a cui molte organizzazioni vanno incontro è una distorsione interpretativa della natura della conoscenza. La conoscenza non è costituita da informazioni che possono essere raccolte ed elaborate al di fuori di un quadro interpretativo che permette di collegare i fatti, contestualizzare e stabilire nessi causali tra le diverse variabili. L’identificazione di informazioni di valore e quindi la loro comprensione e acquisizione avviene, in parte sicuramente significativa, attraverso quella che Szulanski (1996) definisce come la prior knowledge, la conoscenza preesistente, o pregressa. Nell’ambito degli studi sull’innovazione un esempio usato per affrontare questo tema è quello della scoperta della legge sulla gravità. Come noto la legge sulla gravità è stata ideata da Newton che, seduto su una sedia sotto un albero, aveva osservato una mela cadere al suolo. L’episodio costituisce una distorsione aneddotica della storia che non riguarda tanto la veridicità dei fatti quanto l’immagine fornita del processo ideativo come atto intuitivo. In una lunga ricostruzione storica della legge di gravità Ofer Gal (2002) ha dimostrato come l’ipotesi di proporzionalità inversa tra gravità e quadrato della distanza su cui si basa l’intuizione di Newton era già stata avanzata e discussa – pur se in modo incompleto – da diversi altri studiosi dell’epoca. Quando Newton presentò il suo trattato alla Royal Society per questo motivo egli fu addirittura accusato di plagio e la diatriba andò avanti diversi decenni. Lo studio di Gal mette in luce come la caduta della mela fu soltanto uno dei tasselli che permisero la scoperta della legge sulla gravità e che le idee di Newton affondavano in un insieme di conoscenze pregresse che avevano consentito di cogliere stimoli e scatenare intuizioni altrimenti non decifrabili. Una conclusione che si può trarre da questa storia è che le nuove idee difficilmente nascono per contatto con la realtà esterna ma sono piuttosto mediate da conoscenze precedenti e strumenti di elaborazione esistenti che rischiano di scomparire a un’osservazione solo superficiale. La debolezza di una parte importante del terzo settore sta proprio in questo substrato di conoscenze e strumentazioni che tendono a rendere poco utile la ‘tempesta creativa’ delle pratiche di open innovation e a lasciare la mano a consulenti esterni che, come apprendisti stregoni, mobilitano suggestioni e idee lasciando poi le organizzazioni nell’incapacità di trarne debito frutto.
Un altro caso di scuola che mette in luce la superficialità delle valutazioni che evocano un cambiamento di paradigma in atto nel terzo settore riguarda la difficoltà di sviluppare processi di innovazione in settori diversi da quelli tradizionali. Ci sono molti campi in cui il terzo settore può fornire un ruolo importante per lo sviluppo locale e la qualità della vita. Il problema è che per ampliare il campo di intervento è necessario ancora una volta disporre non tanto e non solo di risorse economiche adeguate, quanto di conoscenze, competenze e modelli di pensiero che non possono essere innestati nella testa delle persone con un semplice trapianto di cervello. Le innovazioni più importanti e solide realizzate negli ultimi anni sono state condotte da organizzazioni che avevano già avviato percorsi di cambiamento dei target di clienti e dei modelli di organizzazione e produzione. Si tratta di dinamiche che non possono essere però accelerate oltre un certo limite e che devono tenere in equilibrio l’esistente con il nuovo. Negli studi organizzativi questo dilemma è riassunto nella sempre latente tensione tra l’exploitation, ovvero la capacità di trarre valore dalle risorse e dalle attività esistenti e l’exploration, ovvero la volontà di esplorare nuove strade e innovare per evitare che le basi competitive siano azzerate dal cambiamento esterno (March, 1991). La necessità di trovare un punto di equilibrio tra exploration e exploitation è sintetizzata da Stafford e colleghi (2012) con la nota metafora del cliente che, entrato in un ristorante esotico, deve scegliere un menù e si trova di fronte a un classico problema di trade-off: una possibilità è di decidere per un sicuro piatto di patatine fritte di cui sono conosce il sapore, ma che in termini di nuove emozioni e nuovi gusti è rattristante. L’altra possibilità consiste nello scegliere un piatto sconosciuto che potrebbe rivelarsi squisito, oppure immangiabile. L’obbligo di trovare un equilibrio tra due scelte a rischio è dato, nel caso delle organizzazioni, dal fatto che investendo eccessivamente nell’esplorazione si rischia di affrontare costi molto elevati con risultati insicuri; d’altro canto uno sforzo nella direzione dell’exploitation può condurre a problemi di path dependency e, nel medio periodo, all’inefficienza.
Organizzazioni ambidestre: una strada percorribile?
Il bilanciamento tra exploration e exploitation è l’elemento cardine dell’organizzazione ‘ambidestra’ (Duncan, 1976). Il concetto di organizzazione ambidestra si riferisce alla capacità delle organizzazioni di progettare strutture duali tali da rendere possibile sia lo stato di avvio che di valorizzazione del processo innovativo, una volta che questo è stato implementato ed è entrato a regime. L’equilibrio tra esplorazione e valorizzazione della conoscenza è difficile da perseguire perché le due attività implicano obiettivi potenzialmente contrastanti. L’esplorazione richiede un investimento che si basa sull’assunto dell’insufficienza fisiologica delle conoscenze acquisite e consolidate. A loro volta, le conoscenze consolidate sono strutturate in prassi e routine che, in forza della sicurezza cognitiva e procedurale fornita agli esecutori, tendono a disincentivare e indebolire la curiosità e la capacità di percezione delle sfide del cambiamento. Questo contrasto potenziale fa sì che le organizzazioni più consolidate e strutturate siano maggiormente esposte al problema della dipendenza dal percorso e abbiano dunque grandi difficoltà a conciliare le funzioni di exploration con quelle di exploitation.
Secondo gli autori classici (come March), le organizzazioni devono operare delle scelte alternative rispetto alle due funzioni che sarebbero mutualmente esclusive, sia per l’esistenza di culture e pratiche organizzative diverse sia a causa della limitatezza delle risorse da destinare ad esse. In realtà diversi fattori come le competenze, le conoscenze, la struttura organizzativa più flessibile permettono di collocare exploration ed exploitation in una visione ortogonale di mutua compatibilità. All’interno di un’organizzazione che dispone di risorse, competenze e tecnostrutture adeguate, oppure nell’ambito di una rete interorganizzativa, le due funzioni possono essere interrelate e tenute insieme attraverso processi, strutture e strategie coerenti (Gupta e colleghi, 2006).
Mediamente le organizzazioni di terzo settore non sono tuttavia ambidestre, sia per le dimensioni medio-piccole che per la specializzazione. Il tema dell’innovazione prima di essere collocato dentro un nuovo paradigma dovrebbe prestare dunque attenzione alla strutturazione e alla costruzione di culture organizzative adeguate e capaci di innovare senza incorrere nel rischio di annientare quanto costruito in passato. Un terzo elemento che induce a guardare con prudenza l’enfasi sul cambiamento è relativo alla cosiddetta mission del terzo settore. Nella nuova narrazione esso è proiettato verso un’economia civile di mercato entro la quale l’agire economico rimane strumentale al raggiungimento di obiettivi sociali in virtù dei valori che muovono le organizzazioni di terzo settore. Anche in questo caso gli assunti dell’analisi non sembrano essere particolarmente solidi. La ricerca empirica ha messo chiaramente in luce come le cosiddette imprese sociali siano tutto fuorché un unicum caratterizzato dal fine della mutualità allargata. Al contrario, molte organizzazioni privilegiano espressamente la tutela del lavoro e dell’occupazione e sono poco o per niente attente ai temi della giustizia, dell’inclusione sociale e del contrasto alle diseguaglianze (Borzaga e Fazzi, 2014). Anche in questo caso i temi della struttura organizzativa e della governance ricoprono un ruolo cruciale per spiegare la diversità di atteggiamenti. Organizzazioni con modelli di governance in cui sono rappresentati solo i lavoratori, per esempio, sono molto meno sensibili a fornire risposte alla popolazione con basso (o nullo) potere di acquisto rispetto a organizzazioni nei cui organismi rappresentativi sono presenti portatori di interesse plurali e espressione della società civile. Per transitare verso un nuovo paradigma in cui le imprese sociali siano veramente in grado di bilanciare l’auto-interesse con il benessere della collettività anche in questo caso rimane pertanto da fare un importante lavoro di riflessione su quali siano le condizioni che consentono di operare rispetto a specifici obiettivi.
Si potrebbe continuare a portare esempi concreti che mettono in luce la distanza esistente tra i contenuti della nuova narrazione sul terzo settore e la realtà. Ma quelli descritti sono già di per sé emblematici di una tensione e di una contraddizione largamente irrisolte.
Verso un cambio di paradigma per il terzo settore?
La conclusione che si può trarre dalle precedenti osservazioni è che il cambio di paradigma nel modo di intendere il ruolo e le funzioni del terzo settore è ben lungi dal realizzarsi e un cammino in questa direzione è pieno di ostacoli e inciampi. Non è detto che un nuovo paradigma non sia necessario e utile, così come può essere importante sviluppare una nuova narrativa per sorreggere il cambiamento. Tuttavia pensare di cambiare solo il vocabolario per realizzare un cambiamento appare un’aspirazione poco realistica.
Per promuovere la trasformazione di un corpo consolidato di organizzazioni e culture organizzative verso un orizzonte di nuova economia sociale e sostenibile non bastano nuovi slogan che rimandano a una realtà che fatica a prendere forma. Il rischio di trasformare l’aspirazione al cambiamento in una disputa di natura teologica è altrimenti molto forte e rischia di fare perdere di vista l’unica realtà che veramente conta, ovvero quella della sostenibilità dei processi di trasformazione e adattamento. Per capire come un cambiamento può essere sostenibile è indispensabile però ritornare su un piano di concretezza analitica che una parte dell’attuale discussione sembra avere perso. Come funziona realmente oggi il terzo settore? Quali innovazioni sta realizzando e con quali risultati? Quali sono le condizioni per innovare? E in che modo l’innovazione può rimanere coerente con una mission che rende strumentale la dimensione economica e produttiva al raggiungimento di finalità sociali?
La figura di Tiresia, il mitico indovino cieco della tradizione greca, è giustamente presa a simbolo di uno sguardo che deve osservare il futuro e non rimanere schiacciato dal fardello del passato. Essere visionari rappresenta una condizione di base per le grandi trasformazioni. Un antico detto cinese molto citato in questo periodo recita che “quando soffia il vento del cambiamento, alcuni costruiscono dei ripari ed altri costruiscono dei mulini a vento”. Per guardare verso il futuro però, più che oracoli o indovini, servono evidenze empiriche e un atteggiamento analitico non ideologico. La leggenda vuole che la fine di Tiresia sia stata triste: nel corso dell’assalto degli Epigoni contro Tebe il veggente fu preso prigioniero insieme alla figlia Manto e entrambi furono mandati a Delfi per essere consacrati al dio Apollo. Durante il trasferimento Tiresia morì per la fatica. L’insegnamento che si può trarre dalla tragedia è che per guardare lontano bisogna anche sapere leggere il presente e che non tutto quello che è complesso può essere semplificato in soluzioni lineari.
Riferimenti bibliografici
Borzaga, C. Fazzi, L. (2014), Civil Society, Third Sector, and Healthcare: The Case of Social Cooperatives in Italy, Social Science & Medicine, 123: 234-241.
Chesvrough H., Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business School Press, Harvard, 2003.
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