4 ' di lettura
Salva pagina in PDF

L’evento dal titolo Il fattore economia sociale. Transizioni”, tenutosi a Roma presso l’Università Sapienza nelle giornate del 14 e 15 novembre, ha fornito un’occasione di riflessione e dialogo concertato sui temi dell’economia sociale. La partecipazione attiva di una pluralità di soggetti dell’economia sociale ha consentito uno scambio proficuo di riflessioni accademiche, istanze politiche e testimonianze pratiche di interventi sul territorio. Gli interventi sviluppatisi nel corso delle due giornate di festival hanno fatto emergere una serie di modelli possibili, o quantomeno auspicabili, per la costruzione di un contesto che porti allo sviluppo dell’economia sociale in chiave dinamica e comunitaria.

Tale sviluppo passa necessariamente attraverso l’attivazione di leve che in ultima istanza provochino un cambio radicale di paradigma che, riconoscendo la differenza tra Terzo Settore ed economia sociale, possa favorire piena legittimazione a quest’ultima e, di conseguenza, innescare processi di innovazione, sostenibilità e inclusione.

Di seguito si propongono alcuni dei principali spunti emersi durante l’evento, che riteniamo utili per continuare a riflettere su questo tema così importante nell’ottica del secondo welfare.

La costruzione dell’economia sociale in Europa e le prospettive per l’Italia

La costruzione dell’economia sociale a livello europeo, a partire dalla Social Business Initiative introdotta nel 2011, a cui ha fatto seguito l’approvazione del Social Economy Action Plan nel 2021 da parte della Commissione Europea e della Council Recommendation nel 2023, richiede a tutti i Paesi membri l’implementazione di strumenti per favorirne lo sviluppo.

Viene dunque da chiedersi a che punto siamo in Italia. Attraverso una ricognizione del panorama legislativo, ancora piuttosto acerbo per quanto riguarda il contesto italiano, nonché delle esperienze pratiche che hanno interessato i territori con le loro specificità, soprattutto nei settori dell’urbanistica e dell’economia territoriale, durante l’evento si è tracciato il perimetro per invitare gli enti e gli attori dell’economia sociale a superare il ruolo di terzietà cui essi stessi si sono relegati. Si è sottolineato, dunque, come la stessa “costruzione del sé” degli enti del Terzo Settore debba abbandonare quella logica operativa che riflette la mera intenzione di esternalizzare servizi a basso costo da parte del settore pubblico, al fine di abbracciare una logica di partecipazione non solo all’implementazione delle politiche pubbliche ma, in primis, al disegno e alla progettazione dei servizi di welfare.

Nel contesto italiano, il quadro dell’economia sociale emerge come un mondo estremamente variegato e caratterizzato da estrema verticalità. Sebbene ci siano alcune esperienze di progettualità locali positive, serve comprendere in profondità i processi per ripensare il modello di produzione di welfare nel senso di allargamento dello spazio di partecipazione del policy making e, di conseguenza, della stessa democrazia.

Sfide contemporanee e bisogni complessi per lo sviluppo dell’economia sociale

Diversi sono stati gli interrogativi emersi e i dibattiti attivatisi a partire dalle sfide e dalle criticità ormai endemiche nelle comunità odierne, sempre più colpite da disuguaglianze, soprattutto nelle periferie – si pensi ai fenomeni di gentrificazione sempre più evidenti nelle grandi città. Criticità a cui il welfare tradizionale, storicamente appannaggio del settore pubblico, non è più in grado di far fronte da solo per rispondere in maniera consistente e stabile nel medio-lungo periodo. Bisogni individuali e collettivi sempre più complessi necessitano di soluzioni che interpellino un welfare locale agito dagli enti dell’economia sociale. Deve cambiare la narrazione, dunque, alla luce di debolezze che non possono più essere negate.

Numerosi gli spunti di riflessione, dunque. Ad esempio: come utilizzare al meglio i sostegni pubblici, che non siano solo simbolici, per supportare l’economia sociale? Come superare le logiche competitive per far sì che cooperazione e collaborazione trasformino progettualità spot in programmi e politiche che, a loro volta, generino impatto sociale? Come sfruttare le opportunità offerte dalla digitalizzazione in direzione dialogica e di diffusione dei dati?

La domanda principale, che riassume gli stimoli emersi nelle due giornate di festival, ruota attorno alle modalità e ai processi con cui l’economia sociale, riflettendo la componente civica in tutte le forme e gli ambiti in cui opera, possa favorire il superamento di logiche economiche estrattive nelle quali il profitto si identifica con parametri di mera efficienza senza preoccuparsi e occuparsi della creazione di valore sociale. Se le risposte restano ancorate a ideali e fanno fatica a trovare riscontro pratico univoco, emerge molto chiara la spinta motivazionale a voler invertire la tendenza alla valutazione materiale e all’oggettificazione del valore verso una maggiore valorizzazione della partecipazione e dei rapporti tra le persone. Ad oggi, nonostante le dichiarazioni di volontà, non si può non sottolineare come le forme di tipo collaborativo solo in alcuni casi diventano setting collaborativi strutturali e istituzionalizzati, quanto piuttosto tendono a restare forme collaborative episodiche.

I casi progettuali raccontati e le disquisizioni teoriche da parte dei partecipanti testimoniano, se non altro, l’urgenza di investire sulla prossimità, laddove nella vicinanza possono nascere partecipazione dal basso, comunità, senza trascurare le difficoltà insite nelle forme di collaborazione.

Oltre le definizioni, il bisogno di una nuova consapevolezza

Concludendo, la volontà di rilancio dell’economia sociale, per essere efficace, necessita il superamento delle disquisizioni circa i dettami legislativi e le questioni definitorie. Deve, piuttosto, saldare la capacità degli enti del Terzo Settore di fare ricerca e analisi e, non da ultimo, di raggiungere la consapevolezza che il fattore sociale risiede non tanto nella forma, non tanto nei vincoli, quanto nella capacità di incidere positivamente, e nel tempo, su un territorio.  Tutto ciò senza mai negare l’imprescindibilità di una governance che resti pubblica nella definizione dei bisogni e delle scelte di policy, ma nell’ottica della costruzione di un welfare più locale e la cui responsabilità sia comunitaria.