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La cultura del dato è un aspetto importante ma forse fin qui sottovalutato nell’ambito del Terzo Settore e dell’imprenditoria sociale. Dietro i tradizionali deficit in termini infrastrutturali e di competenze hard, si palesa infatti una questione più profonda che riguarda la formazione e riproduzione di una base culturale in grado di significare i dati come una vera e propria “materia prima” del reale.

Si tratta di un tema importante, che ho peraltro avuto l’opportunità di approfondire insieme ad altri esperti nel secondo volume del Quaderno Digitale per Bene. Vale quindi la pena ricostruire questo strato di cultura organizzativa guardando all’esperienza di CGM, rete di imprese sociali che ha posto questo tema al centro di una delle sessioni della sua convention tenutasi a Bologna a fine giugno.

Il Quaderno di TechSoup e Secondo Welfare che racconta come sta andando la trasformazione digitale del Terzo Settore attraverso storie, buone idee e interviste. Uno strumento utile per affrontare e sostenere un cambiamento cruciale per il futuro del non profit italiano. E non solo.

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Dato e Terzo settore: una cultura che, nei fatti, c’è già

Guardando alla storia ormai pluridecennale di CGM si possono individuare tre macro direzioni di sviluppo seguite finora e che abbracciano il dato quale elemento centrale per le organizzazioni di Terzo Settore che fanno parte del Gruppo.

  • La prima è rappresentata da quei dati che alimentano una conoscenza che ha accompagnato la fase istituente dell’impresa sociale in Italia. Si tratta di database per utilizzi scientifici ottenuti attraverso survey esplorative e valorizzando come basi dati una “documanità” di origine amministrativa (ad esempio i verbali delle revisioni annuali delle cooperative sociali).
  • La seconda direttrice di datification è rappresentata dalla necessità di individuare e di preservare la qualità distintiva dei propri prodotti e servizi, introducendo a tal fine sistemi di certificazione e accreditamento basati su metriche definite.
  • Infine, ma certamente non ultima, c’è quella in cui i dati hanno alimentato la costruzione di sistemi di controllo di gestione e di rendicontazione economica e sociale delle organizzazioni. Da qui sono spesso scaturiti sistemi di knowledge management in grado di definire cruscotti di dati contenenti i principali parametri di funzionamento in ottica di efficienza ed efficacia.

Il sostrato culturale relativo al dato appare quindi significativo, forse più di quel che si poteva immaginare considerata la narrazione di un settore strumentalmente poco dotato. Ma in quanto tale non può essere solo oggetto di contemplazione come quasi una vestigia del passato. Anche perché, nel frattempo, sono profondamente mutate non solo le modalità attraverso cui la risorsa dato viene formata, trasferita e valorizzata, ma anche i processi sociali che intorno a questa stessa risorsa prendono forma.

Basti pensare, ad esempio, a come la conoscenza scientifica, anche quella più applicata, sia sempre più multi disciplinare e coprodotta da una pluralità di soggetti. O come cambia la concezione di qualità dei servizi nell’era dell’amministrazione condivisa basata non sull’erogazione di prestazioni lineari ma su iniziative a base comunitaria. Infine quali sfide si pongono per i sistemi di “controllo di gestione” che sono chiamati a rendersi sempre più interoperabili per incorporare, oltre ai tradizionali parametri economico – finanziari, anche variabili di sostenibilità ambientale e impatto sociale.

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Sfide trasformative per la cultura del dato

Proprio per le ragioni sopra riportate, ci sono delle sfide trasformative per la cultura del dato così stratificata in una rete d’imprese sociali come CGM.

In primo luogo rendere evidente la rilevanza della fase di “presa di dati”, dove questa risorsa si forma, con tutte le sue potenzialità e ambivalenze. Se è vero infatti che oggi molti dati si auto-generano in modo apparentemente “spontaneo”, esistono in realtà ambiti, soprattutto nel caso di servizi di interesse collettivo ad elevata relazionalità, dove sono costruiti attraverso modalità di rilevazione che vedono attivamente coinvolti i soggetti implicati. Ad esempio operatori che contribuiscono, attraverso la loro capacità osservativa, a rilevare dati utili per valutazioni sull’impatto sociale o a definire la composizione di un set di dati essenziali capaci di catturare la maggior parte del fabbisogno informativo rispetto a fenomeni complessi.

In secondo luogo migliorare l’efficacia delle intelligenze collettive umane in particolare rispetto alla sfida lanciata dagli applicativi di “intelligenza” artificiale. In questo caso l’enfasi ricade sulle modalità attraverso cui l’IA viene istruita e raffinata grazie a cornici valoriali che riconoscono e correggono bias culturali intrinseci e a una chiarezza di scopo capace di indirizzare l’attivazione di capacità elaborative mai conosciute in precedenza (e che sono solo all’inizio). Un tema che, come detto, è al centro di Digitale per Bene 2.

Infine appare necessario patrimonializzare i dati e renderli parte integrante di scambi mutualistici dentro la rete e rispetto a più ampi ecosistemi in cui anche le imprese sociali sono sempre più immerse. Un approccio fin qui piuttosto strumentale e gestionale ai dati ha impedito di riconoscerli come un vero e proprio asset da mettere a patrimonio per finalità di interesse collettivo. Ma oggi esiste una consapevolezza diversa, anche a livello di opinione pubblica, rispetto al fatto che le modalità attraverso cui i dati vengono generati, mantenuti e custoditi esprimono una certa idea di società.

 

Foto di copertina: Alexander Sinn, Unsplash