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Nel corso del Meeting per l’amicizia tra i popoli di Rimini il 21 agosto scorso si è svolto l’incontro “Vigilando redimere. Quale idea di pena nel XXI secolo?“ in cui si è discusso di modelli innovativi con cui affrontare i noti problemi delle carceri italiane, in particolare il tema del reinserimento dei detenuti nel tessuto sociale. Riportiamo di seguito una sintesi dell’incontro e la presentazione di alcune esperienze positive legate al mondo carcerario del nostro Paese.

In Italia circa il 90% di chi esce dal carcere commette nuovamente un reato. E’ un dato che più di ogni altro indica il fallimento del sistema detentivo e rieducativo del nostro Paese. Eppure lo Stato impiega una quantità impressionante di risorse per i detenuti: ogni giorno vengono spesi all’incirca 250 euro per ogni carcerato, ovvero 100 mila euro l’anno (da moltiplicare per i 67.000 soggetti che attualmente si trovano nelle case circondariali italiane) che tuttavia, come mostrano le statistiche, raramente determinano risultati socialmente positivi. Se dal punto di vista del reinserimento i dati sono sicuramente sconfortanti, da quello dei benefici economici la questione è, se possibile, ancora peggiore. Nonostante il grande stanziamento di risorse il ritorno da un punto di vista economico-finanziario per il Paese, infatti, è quasi del tutto assente. Sebbene all’interno del carcere si cerchi ormai da diversi anni di coinvolgere i detenuti in attività lavorative, in via generale circa 14mila detenuti sono coinvolti nei cosiddetti “lavori domestici” legati ai servizi carcerari (in cucine, lavanderie o servizi di pulizia quindici giorni ogni quarantacinque per circa 3 ore al giorno), raramente queste iniziative creano competenze spendibili all’esterno del carcere o vantaggi per la comunità.

Mai come ora, dunque, l’articolo 27 della nostra Costituzione appare lettera morta, sia laddove ricorda che le pene devono essere ispirate ad un senso di umanità – basti pensare che le persone detenute in carcere sono, come detto, circa 67mila a fronte di una capienza teorica pari a sole 44mila unità – sia dove dove afferma che la pena deve tendere alla rieducazione. Che l’articolo sia disatteso è dimostrato anche dall’ammontare delle risorse che lo Stato investe per portare educazione e lavoro “non domestico” all’interno del carcere: appena 18 centesimi a detenuto. Inutile dire come questo scarsissimo investimento impedisca fin da principio che, all’interno del sistema detentivo, si sviluppino soggetti in grado di competere sul mercato attraverso la produzione di beni e servizi entro le mura carcerarie. Le poche realtà produttive emergenti tendono infatti a fallire in tempi brevissimi, mentre quelle che sopravvivono lo fanno a fronte di costi che un’impresa privata tradizionale sicuramente non sarebbe disposta a sopportare.

Eppure, nonostante questo quadro fosco, nel nostro Paese esistono esperienze che hanno ottenuto grandi risultati non solo dal punto di vista del reinserimento sociale, ma anche da quello produttivo ed economico. E’ il caso di Rebus, un consorzio che dal 2004 riunisce le cooperative sociali operanti all’interno della Casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova. Nicola Boscoletto, presidente del consorzio, ha spiegato nel corso dell’incontro come le attività svolte dalle cooperative all’interno del carcere abbiano favorito contemporaneamente ascolto e dialogo, formazione e lavoro, portando a una percentuale di recidiva appena dell’1% e determinando la nascita di realtà produttive economicamente solide. Dei detenuti che prendono parte ai progetti della cooperativa solo 1 su 100 commette nuovamente un reato – contro i 90 su 100 indicati dalle statistiche – e diverse sono le aziende che si avvalgono del lavoro dei detenuti professionalizzati dalla cooperativa, localizzando parte della propria produzione all’interno del carcere. Rebus, fungendo da collegamento tra “il dentro” e “il fuori”, è stata in grado di ottenere commesse da aziende che hanno scelto di produrre alcuni beni e servizi dentro il carcere, ed è inoltre riuscita ad avviare proprie produzioni in diversi settori. Dall’assemblaggio alla produzione artigianale, dal call center al servizio di ristorazione – tra cui spicca la pluripremiata produzione dolciaria della cooperativa Giotto – le attività del consorzio sono molto numerose.

Particolarmente interessante appare anche l’esperienza di “Esodo”, un progetto finanziato dalla Fondazione Cariverona per sostenere programmi organici di reinserimento di detenuti ed ex detenuti. Anche se all’interno dell’incontro del Meeting non si è discusso di questo caso esso merita una segnalazione particolare dato l’impatto positivo che va registrando in Veneto, che si conferma vero e proprio laboratorio per le imprese sociali legate al mondo carcerario. Il progetto Esodo, attivo dal novembre 2011, è nato grazie a Fondazione Cariverona e si è sviluppato attraverso la collaborazione con le Caritas di tre province della regione: Belluno, Verona e Vicenza. Tramite il coinvolgimento di molte realtà che da anni operano all’interno delle carceri presenti in queste aree, la Caritas è stata in grado di sviluppare attività di supporto tanto per soggetti che stanno ancora scontando la pena che per coloro i quali hanno appena riacquistato la libertà, sia a titolo provvisorio che definitivo. Concentrandosi su quattro specifiche aree di intervento – inclusione sociale, lavoro, sensibilizzazione e formazione – ogni territorio ha avviato programmi che mirano alla rieducazione dei detenuti all’interno del carcere e al loro reinserimento all’interno della società, mettendo in contatto associazioni, enti istituzionali e imprese sociali che da sempre operano in questi contesti ma che, per diverse ragioni, non sono mai riuscite a collaborare fra loro. Il progetto Esodo garantisce dunque un’importante funzione di coordinamento e ha permesso la creazione di percorsi organici di rieducazione e reinserimento, che possono essere approfonditi grazie all’accurato report di monitoraggio presente in allegato. I risultati parziali del progetto, che si concluderà nel 2013, per ora appaiono decisamente incoraggianti. Grazie a questo strumento tante esperienze positive presenti sul territorio sono state infatti poste nelle condizioni di comunicare e collaborare attivamente in vista di un comune obiettivo che, probabilmente, non avrebbero potuto perseguire se avessero agito in maniera autonoma.

A Padova come a Verona, a Belluno come a Vicenza, quando si decide di investire sull’individuo, dunque, i risultati appaiono significativi sia dal punto di vista sociale che economico. Nel momento in cui lo Stato si è reso disponibile a coinvolgere nelle attività di gestione delle carceri realtà cooperative votate al recupero dei detenuti – non solo da un punto di vista psicologico o mentale ma anche da quello lavorativo e sociale – i benefici non si sono fatti attendere. C’è quindi da chiedersi perché, nonostante da anni si parli del grave problema delle carceri italiane, sovraffollate e incapaci di rieducare correttamente i detenuti, non si faccia tesoro delle esperienze nazionali che già da diversi anni vengono sponsorizzate in più sedi. Giovanni Maria Pavarin, presidente del tribunale di sorveglianza di Venezia, ha sottolineato come l’attuale sistema carcerario “sia molto lontano dal nostro dettato costituzionale, il quale prevede non solo condizioni umane di detenzione, ma indica il fine ultimo della pena: il recupero”. Si afferma spesso che per attivare su grande scala esperienze simili a quelle di Padova la discriminante principale sia la mancanza di risorse (nonostante i dati sopra citati dimostrino come il problema sia innanzitutto di allocazione e non certo di disponibilità). Invece alla base – ha continuato Pavarin – c’è piuttosto un problema innanzitutto culturale: “dobbiamo pensare a come un detenuto possa ripagare il danno che ha recato alle altre persone, e questo deve necessariamente orientarci verso misure alternative alla semplice detenzione”.

A conclusione dell’incontro è intervenuto anche il senatore del Pd Luciano Violante, già presidente della Camera, che si è assunto il non facile impegno di presentare in Parlamento proposte per incoraggiare forme di detenzione alternative che possano favorire il corretto reinserimento dei detenuti: “le carceri sono stracolme, ma la soluzione non è l’amnistia. Sarebbe solo un modo per rinviare i problemi e non risolverli. Non possiamo pensare di cambiare il carcere e il concetto di pena se non avviamo un profondo cambiamento culturale all’interno della nostra società”.
 

Riferimenti 

Il sito del Consorzio Rebus

Sintesi del progetto Esodo

Il video dell’incontro "Vigliando Redimere. Quale idea di pena nel XXI secolo?" su Youtube (inizio al min. 3.35) 

Quei 35 milioni che risparmieremmo facendo lavorare i detenuti
Luigi Ferrarella, Corriere della Sera, 17 settembre 2012