Questo articolo è stato pubblicato sul numero 1/2021 di Impresa Sociale, rivista parte del nostro network.


Il lavoro è il risultato di una riflessione congiunta delle autrici, anche se il paragrafo “La lenta evoluzione normativa del lavoro in carcere” è da attribuire a Monica Rosini ed il paragrafo “Perché le imprese sociali sono forme organizzative adatte al lavoro in carcere e alla riabilitazione dei detenuti” a Valeria Cavotta. L’introduzione e le considerazioni conclusive sono state scritte congiuntamente.

Introduzione

Nel settembre 2015 i governi dei 193 Paesi membri dell’ONU hanno concordato un programma per lo sviluppo sostenibile da raggiungere entro il 2030, sostanziato in diciassette obiettivi, che, perseguiti congiuntamente da ciascuno Stato, disegnano un piano d’azione “per le persone, il pianeta e la prosperità” (ONU, Assemblea Generale – p. 1). Tra gli obiettivi rientrano, ad esempio, la lotta alla povertà e al cambiamento climatico, e il rafforzamento della pace universale. Quest’ultimo obiettivo, il numero 16, mira a “promuovere società pacifiche e inclusive per uno sviluppo sostenibile, garantire a tutti l’accesso alla giustizia, e creare istituzioni efficaci, responsabili ed inclusive a tutti i livelli” (ONU, Assemblea Generale – p. 25). Un sistema giudiziario che aspiri alla rieducazione (per alcuni, educazione) del detenuto affinché non torni a delinquere e sia dotato di nuovi strumenti del vivere civile ha, a parere di chi scrive, un ruolo non secondario nell’assicurare lo sviluppo di una società pacifica, inclusiva e caratterizzata da un benessere più diffuso.

Tale obiettivo infatti, per la sua piena realizzazione, non può trascurare le persone detenute, una delle categorie più esposte all’esclusione sociale, sia nel momento della permanenza nell’istituto penitenziario, sia in quello successivo del reinserimento nella comunità[1]. Questa prospettiva, che pone al cento la persona umana, anche detenuta, non è nuova: la troviamo già nella Costituzione repubblicana del 1948, laddove si prevede che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27, co. 3) e, quindi, al suo recupero sociale[2].

Si tratta, tuttavia, di un obiettivo rimasto sostanzialmente inattuato. Come evidenziato dalla relazione degli Stati Generali sull’Esecuzione Penale del 2016, per quanto molto sia stato fatto negli ultimi tempi, sia a livello legislativo, che amministrativo, la realtà carceraria “è ancora distante dalle connotazioni e dal compito che alla pena assegna la Costituzione”[3], ovvero la rieducazione del detenuto e il suo reinserimento nella collettività. Basti pensare, ad esempio, al numero ancora alto di suicidi ed episodi di violenza, alle carenze igieniche e inadeguatezza della assistenza sanitaria, alla diffusa mancanza di lavoro intra ed extra murario, alle carenze dell’assistenza post-penitenziaria, all’elevata percentuale dei casi di recidiva.

Uno – se non il principale – degli elementi cardine del trattamento rieducativo è il lavoro, per le concrete opportunità di reinserimento sociale e di recupero che offre alla persona detenuta (Pavarini, 2002; Canepa, Merlo, 2004). Questo legame tra funzione rieducativa e lavoro è pienamente in armonia con il complessivo quadro costituzionale che, oltre ad affermare il valore rieducativo della pena[4], fonda la Repubblica democratica proprio sul lavoro (art. 1)[5]. Le fondamenta lavoristiche sono, poi, sviluppate nell’art. 4 che impegna la Repubblica a riconoscere a tutti i cittadini il diritto al lavoro e a promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Nell’architettura costituzionale, il lavoro è “primario tra i beni primari” (Mazziotti di Celso, 1973), non è mero strumento per il conseguimento dei mezzi di sussistenza, bensì tramite necessario per l’affermazione della personalità e la partecipazione alla comunità nazionale e al suo sviluppo (Mortati, 1975). Il lavoro è l’espressione primaria della partecipazione del singolo al vincolo sociale (Luciani, 2010): non sorprende, quindi, che possa configurarsi come strumento di fondamentale importanza per l’effettivo reinserimento del condannato nella comunità.

La potenzialità rieducativa ed inclusiva del lavoro è confermata da diversi studi che hanno evidenziato il legame tra lavoro in carcere e riduzione della recidiva (Schnepel, 2018; Sedgley et al., 2008). Il lavoro, in quanto attività risocializzante e responsabilizzante, può incidere dunque in maniera positiva sulla recidiva (Antigone, 2017).

Alla luce di tali premesse, il presente articolo si propone di affrontare il tema del lavoro penitenziario, combinando la prospettiva giuridica con gli studi di organizzazione e gestione d’impresa, al fine di valorizzare i contributi che entrambe possono offrire alla implementazione di un sistema che realizzi una reale rieducazione del reo. Più esattamente, la prima parte del lavoro, si interrogherà sull’introduzione del lavoro nel sistema penitenziario italiano e sui successivi tentativi di miglioramento sperimentati dal legislatore, per giungere a considerare i recenti approdi di tale evoluzione delineati dal d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 124 (“Riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di vita detentiva e lavoro penitenziario, in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 85, lettere g), h) e r), della legge 23 giugno 2017, n. 103”), attuativo della delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario (c.d. riforma Orlando). Sarà, quindi, possibile apprezzare gli strumenti approntati dal legislatore per riqualificare il lavoro penitenziario e renderlo più attraente e concorrenziale, anche a livello di produttività, aprendo le porte alle imprese private (Di Silvestre, 2005). La seconda parte dell’articolo si interrogherà, invece, sull’adeguatezza delle imprese sociali[6], quale forma organizzativa che meglio risponde all’obiettivo di rieducare il detenuto tramite il lavoro, mettendo in luce alcuni processi organizzativi caratteristici delle imprese sociali.

L’auspicio è che siffatta analisi possa offrire un contributo alla riduzione del diffuso e vistoso scollamento tra norme e loro applicazione che, non da oggi, affligge il lavoro carcerario (Bronzo, 2018)[7]: al 30 giugno 2020 i detenuti lavoranti erano soltanto 17.115 su una popolazione carceraria di 53.579 unità. Un ulteriore auspicio è di mettere in evidenza il contributo che le imprese sociali possono dare per la rieducazione del detenuto tramite dei processi organizzativi ad esse peculiari.

La lenta evoluzione normativa del lavoro in carcere

L’analisi del ruolo che l’impresa sociale può svolgere ai fini della rieducazione del detenuto non può che muovere da una sintetica ricostruzione della disciplina del lavoro penitenziario e della sua evoluzione, fino agli approdi più recenti della riforma Orlando.

Com’è noto, il lavoro entra in carcere con funzione punitiva, come un quid ulteriormente afflittivo da affiancare alla privazione della libertà del reo (Pera, 1971). Questa era l’impostazione del primo regolamento penitenziario del Regno d’Italia (1862), del Codice Zanardelli del 1989 e del Regolamento penitenziario del 1 febbraio 1891, n. 260[8], confermata dalla legislazione fascista degli anni Trenta[9]. Sono stati i principi costituzionali – quelli sopra citati, ma anche la centralità della persona umana (art. 2) e il principio di umanizzazione delle pene (art. 27, co. 3) – a rendere illegittima l’idea di lavoro forzato che animava la legislazione prerepubblicana. Siffatti principi e la dignità della persona, che ne costituisce il presupposto, esigono che l’esecuzione della pena avvenga con modalità tali da non costituire “un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale”[10].

I principi costituzionali plasmano anche il carcere, rendendolo un luogo in cui il lavoro cessa di essere misura afflittiva e acquisisce i connotati, previsti dalla Costituzione, di mezzo per l’affermazione della personalità del detenuto.

Il disegno costituzionale è, tuttavia, rimasto per lungo tempo inattuato (Faraguna, Gialuz, 2012). Solo nel 1975, con la legge di riforma dell’ordinamento penitenziario[11], il legislatore ha provveduto al necessario adeguamento delle regole sul lavoro in carcere. La riforma ha, finalmente, fatto del lavoro un elemento cardine del trattamento penitenziario, stabilendo che al condannato e all’internato “salvo casi di impossibilità” deve essere “assicurato il lavoro” (art. 15, co. 2, o.p.). Il lavoro diventa, quindi, strumento finalizzato alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato.

Tale fine ispira anche la scelta della tendenziale equiparazione tra lavoro penitenziario e lavoro libero, con i soli condizionamenti derivanti dalla situazione di reclusione. Pertanto, il lavoro è remunerato; l’organizzazione e i metodi devono riflettere “quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale”; nell’assegnazione di un’opportunità lavorativa deve tenersi conto, oltre che dei carichi familiari, dell’anzianità di disoccupazione maturata durante lo stato di detenzione e di internamento e delle abilità lavorative possedute; è possibile svolgere, per conto proprio, attività artigianali, intellettuali o artistiche; la durata delle prestazioni non può superare i limiti stabiliti dalle leggi e sono garantiti il riposo festivo e la tutela assicurativa e previdenziale (Chinni, 2019).

Si trattava, tuttavia, di una equiparazione non piena, continuando – anche dopo la riforma del ‘75 – a sussistere alcuni elementi di specialità del lavoro penitenziario, quali il requisito della obbligatorietà[12]; la previsione di una remunerazione o mercede “non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro” e determinata con una procedura particolare[13]; la previsione di prelievi di varia natura sulla remunerazione; il mancato riconoscimento del diritto alle ferie[14].

Sul piano pratico, l’entrata in vigore della nuova normativa ha comportato una drastica riduzione delle commesse da parte di privati esterni all’istituzione penitenziaria, a causa del maggior costo del lavoro dei detenuti determinato dall’introduzione delle garanzie sopra richiamate, a cui l’amministrazione penitenziaria non è stata in grado di sopperire con opportunità di lavoro per produzioni rivolte alle esigenze degli stessi istituti penitenziari; ne è derivata una diminuzione delle occasioni di lavoro per i detenuti. Il divario tra la lettera della legge e la relativa attuazione si è rivelato incolmabile.

Di qui la necessità di interventi di riforma che, per quanto ispirati a logiche di politica carceraria non identiche, risultano accumunati dall’obiettivo di incrementare le opportunità di lavoro per i detenuti. In primis, la legge 10 ottobre 1986, n. 663 (c.d. legge Gozzini) ha aumentato la possibilità di ricorso alle misure alternative e al lavoro all’esterno del carcere. L’originario l’art. 21 o.p. (modalità di lavoro) è stato significativamente intitolato “lavoro all’esterno”, in quanto recante la disciplina del lavoro svolto da detenuti e internati al di fuori dell’istituto penitenziario. Nella trattazione dei diritti del detenuto lavoratore si distinguono, dunque, le posizioni di coloro che sono ammessi al lavoro all’esterno rispetto a coloro che si dedicano al lavoro intramurario. In relazione allo svolgimento di quest’ultimo si applicano le disposizioni previste dall’art. 20 o.p., novellato dall’art. 5 della legge Gozzini: per cui ai fini dell’assegnazione del lavoro ai detenuti si deve tener conto anche “dei loro desideri ed attitudini” e le direzioni degli istituti penitenziari possono, previa autorizzazione del Ministro di Grazia e Giustizia, vendere prodotti delle lavorazioni penitenziarie “a prezzo pari o anche inferiore al loro costo, tenuto conto, per quanto possibile, dei prezzi praticati per prodotti corrispondenti nel mercato all’ingrosso della zona in cui è situato l’istituto”.

Diverso l’approccio della legge 12 agosto 1993, n. 296[15], che, nell’ottica di favorire in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale, ha previsto la possibilità per imprese pubbliche o private di gestire lavorazioni direttamente dentro gli istituti penitenziari, nonché l’istituzione di corsi di formazione professionale organizzati e svolti da aziende pubbliche, o anche da aziende private convenzionate con la Regione. Ha, altresì, consentito all’amministrazione penitenziaria di affidare la “direzione tecnica” di sue lavorazioni “con contratto d’opera” a persone esterne, “le quali curano anche la specifica formazione dei responsabili delle lavorazioni e concorrono alla qualificazione professionale dei detenuti, d’intesa con la regione”, e di prendere commissioni di forniture di beni per conto di privati (art. 20-bis o.p.). L’intervento del legislatore ha, così, tentato di valorizzare la qualificazione professionale della forza lavoro detenuta attraverso l’apertura del carcere ad imprese private, incaricate, a fianco di aziende pubbliche, di tenere corsi di formazione professionale e di organizzare direttamente il lavoro penitenziario.

Nel frattempo, la legge 8 novembre 1991, n. 381 (“Disciplina delle cooperative sociali”), anche raccogliendo le sperimentazioni intraprese da alcune Regioni negli anni Ottanta, aveva incluso, all’art. 4, i detenuti ammessi alle misure alternative tra le “persone svantaggiate”, chiamate obbligatoriamente a costituire almeno il 30% della forza lavoro delle cooperative sociali “di tipo B”. Anche in relazione a questa categoria di persone veniva riconosciuta, al pari degli altri lavoratori svantaggiati, la completa fiscalizzazione degli oneri sociali, favorendo così lo sviluppo di una nuova e significativa opportunità di lavoro per i detenuti.

A seguito della riforma dell’ordinamento penitenziario, alla distinzione tra lavoro interno e lavoro esterno, si affianca quella tra lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e lavoro alle dipendenze di imprese esterne, ripresa poi dalla legge 22 giugno 2000, n. 193 (c.d. legge Smuraglia)[16]. Tale legge, al fine di favorire lo sviluppo del lavoro in carcere e tenendo conto degli esiti positivi conseguiti con la sopra citata legge 381/1991, ha valorizzato il ruolo delle cooperative sociali (Furfaro, 2008). Questa strategia è stata perseguita attraverso l’ampliamento della nozione di “persone svantaggiate”, prevista dall’art. 4 della legge, tra le quali sono state inserite anche le “persone detenute o internate negli istituti penitenziari”, nonché i condannati ammessi al lavoro all’esterno[17]. Nell’inserimento lavorativo anche di questi soggetti sono state impegnate, le cooperative sociali di “tipo B”, che, secondo quando previsto dall’art. 1 l. 381/1991, hanno “lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini”[18]. Per favorire lo svolgimento di tale attività sono previsti vantaggi contributivi e previdenziali, anche se secondo un regime non uniforme. Più esattamente il novellato art. 4 l. 381/1991 ha stabilito, relativamente alle retribuzioni corrisposte alle persone detenute o internate negli istituti penitenziari[19], non già l’azzeramento dei contributi per l’assicurazione obbligatoria previdenziale ed assistenziale (come previsto dalla 381/1991 al pari degli altri soggetti svantaggiati elencati dalla legge), ma – incomprensibilmente (Romano, 2000) – la sua mera riduzione nella misura percentuale individuata ogni due anni con decreto del Ministro della Giustizia, di concerto con il Ministro dell’Economia. Identici benefici sono estesi anche ad aziende pubbliche o private, ma solo ove organizzino attività produttive o di servizi all’interno degli istituti penitenziari, impiegando persone detenute o internate, limitatamente ai contributi dovuti per questi soggetti.

L’art. 3 della legge ha, infine, previsto un incentivo fiscale (poi identificato con un credito d’imposta) per le imprese, comprese le cooperative sociali, che assumono lavoratori detenuti per un periodo di tempo non inferiore ai trenta giorni o che svolgono effettivamente attività formative nei loro confronti.

Il legislatore ha, quindi, cercato di intervenire sul costo del lavoro carcerario per attrarre iniziative da parte di imprese esterne, in particolare di cooperative sociali di tipo B, strutturalmente orientate a finalità solidaristiche piuttosto che all’esclusiva ricerca del profitto. Si è con ciò tentato di promuovere e favorire quella “funzione sociale” che la Costituzione riconosce alla cooperazione “a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata” (art. 45).

Gli sgravi contributivi e le agevolazioni fiscali, quali strumenti di attrazione del lavoro in carcere, sono stati, più recentemente, rafforzati dal decreto legge 1° luglio 2013, n. 78[20], che ha aumentato l’ammontare degli incentivi fiscali all’assunzione di detenuti ed esteso l’ambito di applicazione del credito d’imposta e degli sgravi contributivi.

Queste misure, per quanto abbiano risvegliato un certo interesse da parte delle imprese all’assunzione di lavoratori detenuti, non hanno risolto il problema della carenza di opportunità di lavoro intramurario, forsanche per il fatto di essere condizionate nella determinazione di entità e modalità di fruizione all’adozione, non sempre tempestiva, di decreti interministeriali.

Non vi è dubbio che la politica di abbattimento del costo del lavoro sia un incentivo importante all’incremento del lavoro intramurario, ma non può essere l’unico. I modesti risultati prodotti dall’applicazione delle misure di agevolazione evidenziano che serve anche altro, come garanzie legate alla professionalità e all’affidabilità della forza lavoro o garanzie sull’indipendenza gestionale dei luoghi di lavoro e in cui orari e i turni non siano dettati dall’organizzazione del sistema carcerario e, in generale, la non sempre facile conciliazione tra esigenze di organizzazione e sicurezza dell’ambiente carcerario ed esigenze produttive e commerciali.

In questo quadro normativo si è recentemente innestato il d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 124, che ha dato esecuzione alla legge delega 13 giugno 2017 n. 203[21]. Il capo II ha introdotto alcune significative novità sul lavoro penitenziario, senza, tuttavia, stravolgere la disciplina.

In particolare, conformemente alle più recenti indicazioni sovranazionali[22], è stato soppresso il riferimento all’obbligatorietà del lavoro penitenziario, che per quanto privo di effettività era suscettibile di avvallare interpretazioni incompatibili con le finalità rieducative della pena[23]. I detenuti hanno l’opportunità – non più l’obbligo – di svolgere attività lavorative e/o di partecipare attivamente alla propria riabilitazione. La riforma recepisce, poi, le statuizioni della giurisprudenza costituzionale sul diritto alle ferie.

Si interviene, altresì, sulla disciplina della remunerazione, eliminando il riferimento alla mercede e stabilendone la quantificazione in una misura fissa, pari a due terzi del trattamento economico dei contratti collettivi. Per quanto la disposizione risponda alla necessità di semplificare la procedura di determinazione del quantum della retribuzione, che ha dato luogo a ritardi intollerabili, solleva qualche dubbio di costituzionalità, per l’assenza di possibilità di parificazione con la retribuzione del lavoro libero.

La riforma del 2018 si segnala, infine, per l’elevazione del lavoro volontario e gratuito da parte dei detenuti e degli internati nell’ambito di progetti di pubblica utilità a fattispecie autonoma e distinta dal lavoro esterno[24]. La nuova disciplina prevede che lo svolgimento di tali attività possa avvenire anche all’interno degli istituti penitenziari, sempreché non abbia ad oggetto la gestione o l’esecuzione dei servizi d’istituto. La partecipazione a progetti di pubblica utilità è, così, configurata come un elemento del trattamento rieducativo ex art. 15 o.p. (Alcaro, 2018).

Tale scelta è stata evidentemente motivata dalla volontà di porre rimedio al cronico problema di effettività che affligge il lavoro penitenziario, nonché dalla convinzione che l’occupazione in lavori di utilità sociale abbia un’alta valenza risocializzante. È effettivamente così?

L’interrogativo impone di muovere dalla diversa regolamentazione che il lavoro di pubblica utilità riceve nella disciplina penalistica e in quella penitenziaria. Per la prima rappresenta una sanzione penale, eseguita a beneficio della comunità (Leonardi, 2007); per la seconda, invece configura una delle modalità del trattamento rieducativo. Il lavoro volontario e gratuito attiene alla fase dell’esecuzione ed è un’opportunità offerta al detenuto.

Questa ambivalenza alimenta l’opinione – evidenziata anche dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale[25]– per cui il lavoro delle persone ristrette costituisce “un’attività risarcitoria della collettività, quasi che alla privazione della libertà – che è in sé il contenuto della sanzione penale – debba aggiungersi qualcos’altro perché la comunità esterna possa vedere l’effettività della punizione”. Questo approccio si riflette nei Protocolli attuati tra istituti penitenziari e enti locali per l’inserimento delle persone detenute in attività di pubblica utilità, a titolo volontario e gratuito. È ancora il Garante a evidenziare il fatto che il lavoro di pubblica utilità sia entrato nel lessico come forma “altra” di sanzione penale per taluni reati lievi, ma che questa ricostruzione non sia condivisibile quando si aggiunge all’esecuzione penale in corso.

Questa logica di tipo afflittivo mal si concilia con la finalità rieducativa, che pare presupporre un lavoro “vero”, remunerato, che rappresenta anche un elemento di dignità per il detenuto. Nella prassi del sistema carcerario il lavoro di pubblica utilità rischia di smarrire la sua natura di attività volontariamente intrapresa dal detenuto per offrire un contribuito spontaneo alla comunità nella quale sarà chiamato a reinserirsi, e tradursi nell’unica possibilità di “fare qualcosa” e, quindi, in una misura ulteriormente afflittiva.

Tale rischio può essere evitato puntando su una effettiva implementazione del quadro normativo, in cui il lavoro retribuito sia una opzione concretamente praticabile e il lavoro gratuito mantenga la sua natura volontaria, volta, comunque, a far acquisire al detenuto attitudine al lavoro e preparazione professionale al fine di agevolarne il reinserimento nella società.

Perché le imprese sociali sono forme organizzative adatte al lavoro in carcere e alla riabilitazione dei detenuti

Secondo i dati del Ministero della Giustizia, al 30 giugno 2020 su 53.579[26] detenuti complessivamente presenti nelle carceri italiane, 15.043 sono impiegati alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria in cucine, lavanderie o servizi di pulizia, mentre ancora esiguo è il numero di quanti lavorano all’interno del carcere ma per conto di imprese (184 detenuti) o cooperative sociali (596 detenuti); vi sono poi 1.265 detenuti che lavorano all’esterno del carcere alle dipendenze di cooperative e altre imprese, oltre a 27 persone in semilibertà che hanno intrapreso un’attività di lavoro autonomo[27].

I settori produttivi in cui sono impiegati i detenuti sono vari: figurano, tra gli altri, attività di stampa, laboratori sartoriali, aziende agricole, servizi di grafica, informatica, ristorazione e catering. All’interno del portale del Ministero della Giustizia è possibile consultare la “Vetrina dei prodotti dal carcere”, che espone i prodotti creati per istituto penitenziario coinvolto (Maglia, 2018). Ad oggi, nonostante gli sgravi fiscali e le agevolazioni previste dalla legge Smuraglia, il numero di detenuti che lavora è ancora molto contenuto, come si evince dai numeri riportati. A pesare sulla quantità di iniziative commerciali svolte all’interno del carcere è certamente un contesto particolarmente rigido di regole, per esempio per permessi e spostamenti, che mal si concilia con la flessibilità e la rapidità richiesta nel mondo del lavoro.

Le cooperative sociali, tuttavia, sono considerate decisive nell’abbattere il tasso di recidiva come affermato dalla Corte dei Conti secondo cui “l’inserimento di detenuti in imprese e soprattutto cooperative sociali abbatta il tasso di recidiva dal 70% al 10%” (Tiraboschi, 2016 – p.1232).

Di seguito, le ragioni di questa affermazione sono approfondite alla luce di una ricerca empirica, condotta in un carcere italiano su una cooperativa sociale da una delle autrici, e ispirata alla letteratura scientifica organizzativa e gestionale.

Le imprese sociali, in una definizione organizzativa e non giuridica perseguono tipicamente due mission: una sociale e una economica (Borzaga, Fazzi, 2011), essendo la seconda funzionale alla persistenza nel tempo della prima. Una forma molto diffusa di impresa sociale in Europa è quella della “Work Integration Social Enterprise” (WISE), che nel panorama italiano ad oggi si identifica in gran parte nella cooperazione sociale di tipo B, ovvero le imprese sociali che offrono opportunità lavorative a soggetti svantaggiati (Defourny, Nyssens, 2008). Nel contesto in oggetto, la mission sociale delle WISE è quella di fornire opportunità lavorative ai detenuti come parte di un percorso di crescita personale e integrazione sociale perseguita attraverso la produzione di beni o servizi venduti sul mercato. Dunque, la mission sociale è il fine, la raison d´etre dell’organizzazione, mentre la sostenibilità economica attraverso la vendita di beni e servizi è un mezzo a sostegno della mission sociale.

Alla luce delle ricerche condotte in un carcere italiano su una cooperativa sociale, teorizziamo di seguito le ragioni dell’adeguatezza del modello organizzativo delle imprese sociali nel contesto del carcere. A tal fine, pur non sviluppando un case study sulla cooperativa in questione ci si avvale di alcuni passi di interviste come fonte di esempi e considerazioni.

In linea generale, si sostiene che il contesto del carcere ponga numerosi ostacoli al lavoro di impresa e alla rieducazione del detenuto. Un intervistato fa riferimento alla rigidità dell’istituzione carceraria, per esempio, in termini di autorizzazioni e limitazioni:

«Il carcere non è un luogo di per sé favorevole al lavoro. Il lavoro richiede flessibilità mentre in carcere ci sono grandi rigidità… gli impegni dei detenuti, per esempio i colloqui con gli avvocati, hanno la priorità sul lavoro» (Direttore tecnico della cooperativa).

Per un altro intervistato, gli ostacoli riguardano l’approccio al lavoro da parte del detenuto – «che intende la relazione lavorativa in maniera strumentale, per esempio per ottenere dei permessi e non come un’occasione di riabilitazione personale» (Psicologa del lavoro della cooperativa) – nonché le difficili dinamiche relazionali tra detenuti che possono intralciare gli sforzi fatti per la loro rieducazione.

È rispetto a tali ostacoli, che alcune caratteristiche tipiche delle imprese sociali ne fanno una forma organizzativa che meglio di altre si presta al lavoro in carcere e alla rieducazione del detenuto.

In primo luogo, rispetto alla rigidità del contesto carcerario e al clima generale di sofferenza del detenuto, le imprese sociali possono rispondere adeguatamente essendo forme organizzative caratterizzate da un alto grado di flessibilità nella riorganizzazione del lavoro (Borzaga, Fazzi, 2011; Depedri, 2012). Tale flessibilità nella riorganizzazione del lavoro può, quindi, meglio adattarsi alla rigidità burocratica del carcere, per esempio riguardo alle procedure di selezione del detenuto lavoratore e agli orari lavorativi, ma anche alle frequenti alterazioni dello stato psicofisico dal detenuto (Maglia, 2019), che influenzano negativamente la qualità e la continuità del lavoro svolto:

«Noi dobbiamo fare i conti non solo con le problematiche del lavoro ma anche con le problematiche personali o familiari che spesso vanno a modificare in maniera importante lo stato psicofisico della persona, per cui non ti garantisce più… non arriva più in orario, quell’orario di lavoro non va più bene, ha un problema di spostamento, tanti fattori più o meno importanti che vanno ad incidere sulla prestazione, sulla performance» (Direttore Ufficio Sociale della cooperativa).

La riorganizzazione del lavoro, quasi quotidiana, può consistere nel rivedere gli orari lavorativi o le mansioni della persona, e nell’affiancare o sostituire dei beneficiari momentaneamente in difficoltà. Nei fatti, tutte le imprese sociali si confrontano con deficit di produttività dovuti alle limitazioni che possono caratterizzare i loro beneficiari (Borzaga, 2012), ma queste carenze possono essere esacerbate nel contesto del carcere e necessitano quindi di essere prontamente ovviate. Oltre all’alto grado di flessibilità nella riorganizzazione del lavoro, le imprese sociali si caratterizzano anche per una socializzazione alla presa in carica del beneficiario e delle sue difficoltà da parte di tutti i membri dell’organizzazione. Sebbene le imprese sociali possano attrarre dipendenti che ne condividono ideali e valori, o dipendenti in cerca di relazioni lavorative di senso (Borzaga, Depedri, 2008), il processo di socializzazione alla presa in carico delle fragilità dei detenuti a tutti i livelli aziendali, è ancor più necessario nel contesto del carcere:

«In questo contesto è indispensabile lavorare tutti insieme altrimenti umanamente non riesci a reggere il rapporto con ciascun detenuto» (Direttore tecnico della cooperativa).

Ne consegue che la presa in carico del soggetto svantaggiato non viene lasciata all’eventuale bontà di un singolo operatore come potrebbe accadere in un’organizzazione che non abbia una mission sociale. I supervisori di produzione, sia nelle imprese sociali che in quelle commerciali, hanno competenze prevalentemente tecniche, e i deficit di produttività a cui bisogna far fronte in caso di deterioramento dello stato psicofisico del detenuto potrebbero portare, in assenza di adeguata sensibilizzazione, a delle conflittualità tra vari membri dell’organizzazione (Battilana et al., 2015):

«I team leader sono quelli che hanno il contatto quotidiano con i nostri operatori, quelli che secondo me di fatto esprimono veramente la mission, i valori della cooperativa […] trasmettendo un’idea buona di lavoro, completa, che non sia schiacciata sui numeri ma che sia giusta» (Direttore tecnico della cooperativa).

La presa in carico dei soggetti svantaggiati da parte di tutti i membri dell’organizzazione nell’ambito del proprio ruolo, non è, tuttavia, da considerarsi un automatismo nelle imprese sociali, nelle quali possono certamente sussistere delle conflittualità tra i vari membri dell’organizzazione rispetto ai deficit di produttività (Battilana et al., 2015).

Altra specificità delle imprese sociali che le rendono forme organizzative adatte alla rieducazione del detenuto attraverso il lavoro, riguarda il lavoro relazionale che esse svolgono a sostegno del beneficiario. Vale a dire, al di là dell’integrazione lavorativa del detenuto, che avverrebbe con qualsiasi altra impresa non-sociale che decida di dare lavoro in carcere, l’impresa sociale tipicamente lavora affinché il detenuto acquisisca competenze personali e relazionali oltre alle competenze tecniche afferenti al lavoro svolto. Le competenze in oggetto riguardano, ad esempio, la capacità di relazionarsi in un gruppo e con dei superiori, l’osservanza delle regole, il superamento di una visione strumentale del lavoro afferente all’acquisizione di benefici materiali o di permessi a favore invece di una concezione del lavoro come strumento di crescita e valorizzazione della persona.

Durante le interviste svolte ai membri della cooperativa, è emerso quanto questo lavoro – volto a rendere autonoma la persona dal punto di vista personale e relazionale oltre che professionale – sia considerato cruciale al fine di facilitare il reinserimento del detenuto in società. Ad esempio, la cooperativa lavora sull’aspetto fiduciario poiché «i detenuti assumono spesso posizioni difensive, per esempio tendono sempre a vedere una fregatura quando ci sono variazioni in busta paga» (Direttore Ufficio Sociale della cooperativa); la cooperativa lavora anche sul concetto del “guadagnarsi da vivere” con un impegno costante, poiché «se uno è un rapinatore abitudinario, il concetto di guadagnarsi da vivere durante tutto il mese con il lavoro piuttosto di fare un rapina al mese che dura 10 minuti, non è ovvio al di là che sia un reato» (Direttore Ufficio Sociale della cooperativa). Un lavoro cardine, infine, riguarda il superamento della strumentalità come approccio al lavoro,

«la cosa più difficile è sradicare la tendenza a vivere l’opportunità lavorativa in modo strumentale invece di considerarla un’opportunità che cambierà i tuoi schemi e la tua vita» (Psicologa del lavoro della cooperativa).

In sostanza, lavorare sull’acquisizione e il rafforzamento di competenze relazionali oltreché tecniche dota il detenuto di nuovi strumenti e aumenterebbe la possibilità di ottenere e mantenere un lavoro dopo la detenzione. Inoltre, studi recenti hanno mostrato come il lavoro in carcere, quando supportato in modo adeguato, produca una trasformazione identitaria positiva del detenuto e una maggiore fiducia nelle proprie capacità (Mongelli et al., 2018; Rogers et al., 2017). Tali effetti positivi naturalmente richiedono tempo, competenze e processi organizzativi adeguati. Al fine di rafforzare le competenze personali e relazionali del detenuto, l’impresa sociale elabora quindi dei progetti individualizzati, monitorando l’acquisizione delle competenze nel tempo, e nel caso, apporta modifiche all’intensità dell’intervento. Il lavoro sulle competenze trasversali è continuativo, svolto attraverso un confronto costante tra l’ufficio sociale e supervisori di produzione. Questi ultimi, infatti, monitorano quotidianamente il lavoro svolto e si avvalgono delle competenze dell’ufficio sociale in caso di difficoltà incontrate con il lavoratore.

In conclusione, rispetto agli ostacoli posti dal lavoro in carcere, si sostiene che le caratteristiche delle imprese sociali quali la flessibilità nella organizzazione del lavoro, una socializzazione alla presa in carico delle fragilità dei beneficiari a tutti i livelli organizzativi, e il lavoro sulle competenze personali e relazionali a favore del beneficiario, facciano delle imprese sociali le forme organizzative meglio attrezzate per svolgere un ruolo decisivo nella rieducazione del detenuto e per preservare una tenuta organizzativa messa a dura prova dal contesto del carcere.

A fronte di esperienze molto positive, quali quella della cooperativa sociale considerata – molto performante anche a livello economico – è tuttavia importante un’azione di concerto volta a ottimizzare le condizioni di contesto in cui le imprese sociali possano esprimere al meglio le proprie mission sociali ed economiche. Un lavoro atto a migliorare le condizioni di contesto, si auspica, aumenterebbe il numero delle imprese sociali che decidono di offrire opportunità di inserimento lavorativo ai detenuti, con conseguenti benefici per la collettività.

Conclusioni

Secondo una statistica riportata da Il Sole 24 Ore, quasi il 70% dei detenuti torna a delinquere; la percentuale si abbassa sensibilmente per i detenuti che abbiano svolto un’attività lavorativa durante la detenzione. Si tratta oltre che di un danno economico, anche di un fallimento che richiede attenzione poiché “nessun Paese accetterebbe che negli ospedali morissero 7 ricoverati su 10 o che nelle scuole fossero bocciati 7 studenti su 10” (Il Corriere della Sera, 2012).

Il lavoro rappresenta l’autentico presupposto del reinserimento sociale dell’ex detenuto, non soltanto dal punto di vista meramente economico, ma anche quale strumento di emancipazione e realizzazione della persona.

In questo saggio, si sono volute ricostruire le principali tappe dell’evoluzione del lavoro penitenziario, evidenziando il percorso legislativo verso un progressivo avvicinamento tra lavoro penitenziario e lavoro nella società. Non può, tuttavia, negarsi che permangano “ragioni sostanziali di una particolare, specifica protezione di questo lavoro, naturalmente non oltre quel limite, superato il quale vi sarebbe un giustificato privilegio a favore di soggetti certo colpevoli rispetto alla società. Infatti, se la Repubblica è impegnata a tutelare il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35 Cost.), va pure tutelato il lavoro che è imposto al fine del recupero sociale del detenuto, in relazione al precetto che impone un regime penitenziario volto ad ottenere la rieducazione del condannato” (Treu, 1968).

Proprio alla luce di queste “ragioni sostanziali” il legislatore si è attivato – in particolare, con la legge Smuraglia – per “riportare” in carcere imprese pubbliche e private e cooperative sociali, attraverso incentivi di tipo fiscale e contributivo, con un certo favor per le cooperative sociali. Questa strategia è stata confermata in tempi più recenti, con il d.l. n. 78/2013, che ha irrobustito gli incentivi già previsti e ne ha esteso l’ambito di operatività sia dal punto di vista dei soggetti sia dei tempi di fruizione successivi alla cessazione dello stato di detenzione.

La tendenza normativa al rafforzamento dell’offerta lavorativa intramuraria, in particolare tramite imprese sociali, sembrerebbe in linea con le potenzialità che le imprese sociali possono esprimere nel complesso, ma auspicato, processo di rieducazione del detenuto nonché alla valorizzazione della sua persona (Rogers et al, 2017; Mongelli et al., 2018). Si sono, quindi, messe in luce le ragioni per cui, a nostro avviso, le imprese sociali sono forme organizzative particolarmente adatte alla rieducazione del detenuto. Tali motivazioni risiedono in particolari processi messi in atto dalle imprese sociali o caratterizzanti le stesse, quali il lavoro sulle competenze personali e relazionali del detenuto, una socializzazione alla presa in carico del detenuto da parte di tutti i membri dell’organizzazione unita alla flessibilità nella riorganizzazione del lavoro a fronte degli svantaggi del detenuto.

Considerata, tuttavia, la presenza ancora esigua delle imprese sociali nelle carceri italiane, si auspica che le future ricerche in discipline giuridiche ed economiche si orientino verso l’approfondimento di nuove modalità attraverso cui incentivare e sostenere il lavoro delle imprese sociali, a vari livelli e tra vari stakeholder, ad esempio per quanto attiene la relazione tra impresa e contesto carcerario. Dal momento che sono ancora limitate le risorse che il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria destina al reinserimento in società dei detenuti (Antigone, 2017), ricerche future potrebbero lavorare ad una più efficace e sinergica relazione tra pubblica amministrazione e terzo settore (Marocchi, 2018) anche nel contesto qui esaminato. I benefici sarebbero di ordine morale ed economico e si compierebbero ulteriori passi in avanti nel raggiungimento dell’obiettivo 16 dell’agenda ONU 2030 per la promozione di società pacifiche e inclusive.

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Note

1 I detenuti ed ex detenuti sono, non a caso, ricompresi tra le persone svantaggiate dal Reg. CE n. 2204/2002 del 5 dicembre 2002 e dall’art. 4 della legge 8 novembre 1991, n. 381 (recante “Disciplina delle cooperative sociali”).
2 Questa previsione rappresenta un’eccezione nel panorama delle Costituzioni moderne, che generalmente non trattano della pena nel senso di stabilirne la finalità rieducativa, ma si limitano a prevede che la medesima non possa consistere in trattamenti contrari al senso di umanità (in tal senso già la Costituzione americana del 1778).
3 Cfr. Stati Generali sull’Esecuzione Penale, Documento finale, p. 5.
4 In proposito, ci preme sottolineare come il contributo assuma a presupposto della sua indagine la finalità rieducativa della pena (ex art. 27, co. 3, Cost.), pur non ignorando l’ampio dibattito, non solo penalistico, sul fondamento della pena e la concorrenza delle diverse teorie, della retribuzione, dell’emenda, della prevenzione generale e della prevenzione speciale (Mantovani, 1992).
5 In tema, recentemente, Chinni (2019).
6 Imprese sociali e cooperative sociali vengono qui equiparate come un’unica forma organizzativa.
7 Nell’ordinamento penitenziario “vivente”, il lavoro è un’occasione che pochi detenuti possono cogliere, e raramente presenta quelle caratteristiche indispensabili per esprimere la valenza risocializzante che gli sarebbe propria.
8 Recante “Regolamento generale degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi”.
9 Il riferimento è al Codice penale del 1930 e al R.D. 18 giugno 1931, n. 787 (“Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena”), che all’art. 1 prevedeva: “In ogni stabilimento carcerario le pene si scontano con l’obbligo del lavoro”. Il regolamento introdusse una prima distinzione normativa tra attività lavorativa da svolgersi all’interno o all’esterno dell’istituto penitenziario, poi ampiamente elaborata e completata nella successiva riforma del 1975 (Salvati, 2010).
10 Corte cost., 3 giugno 2013, n. 135, punto 6 del Considerato in diritto.
11 Legge 26 luglio 1975, n. 354 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”).
12 Più esattamente, il nuovo o.p. continuava a qualificare come obbligatorio il lavoro per i condannati e per i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro, determinando non poche difficoltà ad una sua interpretazione costituzionalmente orientata. Si trattava, invero, di un problema prevalentemente teorico considerata la (già evidenziata) scarsa capacità del sistema penitenziario di offrire lavoro alla popolazione carceraria.
13 Su tale previsione si sono appuntati dubbi di legittimità costituzionale, non condivisi dalla Corte costituzionale (sent. 13 dicembre 1988, n. 230), che, tuttavia, non ha mancando di precisare che la retribuzione del detenuto deve esser pari a quella dei CCNL nei soli casi in cui il datore di lavoro sia un soggetto privato, mentre può essere inferiore quando il datore di lavoro sia l’amministrazione.
14 A questa mancanza ha posto rimedio la sentenza Corte cost. 10 maggio 2001, n. 158, che ha riconosciuto il diritto alle ferie, argomentando che “il diritto al riposo annuale integra appunto una di quelle ‘posizioni soggettive’ che non possono essere in alcun modo negate a chi presti attività lavorativa in stato di detenzione”.
15 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187, recante nuove misure in materia di trattamento penitenziario, nonché sull’espulsione dei cittadini stranieri”.
16 Recante “Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti”.
17 Il testo originario dell’art. 4 non comprendeva tra le “persone svantaggiate” i comuni detenuti, ma soltanto coloro che erano ammessi alle misure alternative alla detenzione.
18 Il loro particolare oggetto sociale le distingue dalle cooperative sociali di tipo A che si occupano della “gestione di servizi socio-sanitari ed educativi”.
19 Nonché in riferimento agli ex degenti di ospedali psichiatrici giudiziari e alle persone condannate e internate ammesse al lavoro esterno.
20 Recante “Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena”, convertito in legge 9 agosto 2013, n. 94.
21 La delega è stata attuata anche dai coevi decreti legislativi nn. 121 e 123.
22 Il riferimento è, soprattutto, alla Rule 96 del United Nations Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners (the Nelson Mandela Rules), adottate dall’Assemblea generale delle Nazione Unite il 17 dicembre 2015, ai sensi della quale “Sentenced prisoners shall have the opportunity to work and/or to actively participate in their rehabilitation…”
23 Nella prassi nulla cambia, stante l’incapacità dell’amministrazione penitenziaria di garantire il lavoro a tutta la popolazione carceraria e la possibilità, già riconosciuta al detenuto, di dichiarare di non volere svolgere alcuna attività lavorativa e il relativo accoglimento e valutazione del magistrato di sorveglianza ai fini della concessione delle misure premiali.
24 Art. 20 ter o.p. Il lavoro di pubblica utilità era stato introdotto come modalità di lavoro all’esterno già con il d.l. 78/2013 (art. 21, co. 4 ter o.p.).
25 Relazione al Parlamento 2019, in particolare p. 109. Il testo integrale della relazione è disponibile qui.
26 Dati reperiti sul sito del Ministero della Giustizia.
27 Questi dati si riferiscono ai detenuti che lavorano dentro il carcere e non tengono conto dei detenuti semiliberi o che svolgono attività lavorative all’esterno, circa 1292 al 30 giugno 2020 e di cui non si conosce la ripartizione tra datori di lavoro. I dati reperiti sul sito del Ministero della Giustizia.