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Il dibattito intorno ai modelli di welfare innovativi

Recentemente il dibattito sui nuovi modelli di welfare, che propongono di affiancare alle azioni tradizionalmente garantite da soggetti istituzionali quelle svolte da realtà non appartenenti al settore pubblico, si è fatto progressivamente più intenso. Diversi sono i termini che negli ultimi mesi sono stati utilizzati per indicare tali sistemi innovativi in tema di politiche sociali – secondo welfare, welfare sussidiario, welfare privato, welfare 2.0 – ma, molto spesso, tanto dal punto di vista dei soggetti coinvolti che delle misure da essi previste, non è del tutto chiaro quali siano le caratteristiche proprie di questi modelli. Appare pertanto utile cercare di individuare e analizzare i principali approcci che, seppur attraverso termini e modalità differenti, propongono di uscire dalla crisi modificando gli attuali sistemi di welfare da un punto di vista strutturale, organizzativo e, soprattutto, culturale. Attraverso alcune analisi, che proporremo nelle prossime settimane, cercheremo pertanto di capire quali siano i caratteri e le prospettive di tali modelli innovativi.

L’Ufficio Pio e il welfare 2.0

Uno degli approcci più interessanti è sicuramente quello concettualizzato nel mese di luglio dall’Ufficio Pio di Torino, ente strumentale della Compagnia di San Paolo, che nel corso della presentazione del proprio Bilancio di Missione per il 2012, intitolato “Pionieri del welfare 2.0”, ha individuato i caratteri peculiari del modello di welfare verso cui il nostro Paese dovrebbe orientarsi. L’attuale situazione economica e sociale, secondo i funzionari dell’Ufficio Pio, rende sempre più evidente la crescita diffusa della povertà, l’aumento del numero di persone che da vulnerabili diventano bisognose e le difficoltà dello Stato nel garantire i servizi di assistenza necessari per fronteggiare la crisi. In Italia il welfare state “tradizionale”, basato principalmente sul ruolo svolto dalla famiglia e dallo Stato, non è più efficace come un tempo e, per tale ragione, appare necessario attuare un cambiamento radicale nell’impostazione con cui si aiutano le persone attraverso l’adozione di una nuova idea di welfare: il welfare 2.0.

Perché “2.0”?

Il concetto di 2.0 è normalmente associato all’idea di web 2.0, ovvero l’evoluzione del World Wide Web in senso maggiormente interattivo. Gli utenti che utilizzano internet, oltre a poter accedere ad informazioni tramite siti statici, attraverso nuovi strumenti informatici – come blog, chat, forum e social network – hanno acquisito la possibilità di produrre e scambiarsi contenuti e, interagendo fra loro, contribuiscono a creare giorno per giorno la rete stessa. La novità del welfare 2.0, a differenza di quanto si possa pensare, tuttavia non risiede nell’evoluzione delle politiche sociale in senso tecnico-informatico, ma indica piuttosto uno sviluppo dei rapporti tra i soggetti che appartengono all’universo del welfare in un’ottica maggiormente collaborativa. Partendo dalle proprie esperienze di intervento l’Ufficio Pio ha individuato quattro caratteristiche proprie del welfare 2.0, che ben chiariscono questa idea di rinnovata relazionalità:

welfare personale: al centro è posta la persona piuttosto che il servizio fornito. L’intervento dove possibile dovrebbe essere frutto di un rapporto di conoscenza diretta ed individuale tra chi offre il servizio e chi lo riceve.
welfare collaborativo: i servizi offerti a ogni soggetto sono frutto di un percorso costruito da tutti gli attori presenti sul territorio, come organizzazioni non profit, associazioni, enti pubblici e mondo del volontariato.
welfare comunitario: nella costruzione delle risposte ai bisogni sono coinvolti, oltre a enti pubblici e privati del territorio, anche i cittadini. In questo modo le informazioni possono essere più complete e accessibili da tutti gli attori interessati dagli interventi di carattere sociale.
welfare restitutivo: le persone sostenute, primi autori del loro stesso percorso, restituiscono alla comunità quanto ricevuto in base alle proprie possibilità e capacità.

Il carattere “2.0” del welfare, dunque, è visibile in una nuova modalità di rapporto tra erogatori dei servizi e gli utenti, concepiti non come realtà distinte e separate ma come entità che comunicano, agiscono e collaborano attivamente per il bene comune.

L’intervista ai funzionari dell’Ufficio Pio

Per comprendere meglio come si declinino le caratteristiche sopra indicate abbiamo ritenuto interessante entrare direttamente in contatto con alcune persone che lavorano all’interno dell’Ufficio Pio e che hanno gentilmente accettato di spiegarci le peculiarità del modello di welfare proposto. Sul finire del mese di luglio abbiamo dunque avuto modo di confrontarci con Giovanni Tamietti, direttore dell’Ufficio Pio, Marco Lardino, Ufficio Comunicazione dell’Ufficio Pio, e Daniela Gregnanin, Area Politiche Sociali della Compagnia di San Paolo. Di seguito riportiamo parte del dialogo avuto con loro.

Dottor Tamietti, potrebbe spiegarci da che presupposti siete partiti per stabilire i criteri su cui si basa il welfare 2.0?

Siamo partiti innanzitutto da contesti concreti e da un concetto di sussidiarietà operativa. In un momento in cui c’è molta difficoltà a reperire e collocare risorse – di questi tempi, infatti, un grosso problema è anche quello di dove investire le risorse, e non solo il fatto di averle – ci siamo dunque chiesti in che modo potessimo continuare a rispondere positivamente ai bisogni della comunità in cui ci troviamo ad operare. Ci siamo risposti che per continuare a operare in maniera efficace è innanzitutto necessario stabilire quale sia l’oggetto della nostra attività, quale sia l’obiettivo principale delle nostro lavoro. La risposta che ci siamo dati è che al centro c’è la persona: solo partendo dai bisogni della persona in quanto tale, infatti, è possibile capire come aiutarla a uscire dalla condizione di disagio in cui si trova. E’ sicuramente un approccio diverso, che rivoluziona tutto il meccanismo fino ad oggi impiegato, perché al centro non c’è l’ente che distribuisce le risorse o fornisce questo o quel servizio ma c’è la persona. E’ un’idea apparentemente nuova, ma non è altro che l’applicazione del principio di sussidiarietà a cui ci richiama la nostra Costituzione, che ci invita a guardare prima di tutto verso chi sta “più in basso”.
Per comprendere cosa si intenda con sussidiarietà penso sia utile fare alcuni esempi concreti, che ben dimostrano come sia possibile applicare tale concetto alla realtà presente. Lo scorso anno Ufficio Pio e ATC (Azienda Territoriale per la Casa di Torino) hanno stabilito un’intesa per sostenere alcune famiglie in difficoltà economica che non riescono a far fronte alle spese abitative. In Piemonte esiste un fondo regionale destinato a coprire le “morosità incolpevoli”, ovvero bollette e spese di gestione relative alla casa che gli utenti, per diverse problematiche sopraggiunte, non riescono a pagare autonomamente. Per non sovrapporre interventi, l’Ufficio Pio ha deciso di aiutare i nuclei familiari che potevano accedere al fondo sostenendo altre spese: pagando i costi dovuti alla frequenza delle scuole dei figli, affiancandole nella cura dei famigliari anziani, sostenendo alcune spese sanitarie non coperte dal sistema sanitario nazionale, ecc. Non siamo intervenuti nel pagamento delle bollette intestate ad ATC, già parzialmente coperte dal fondo regionale, ma abbiamo scelto di aiutare direttamente le famiglie in un altro modo, sgravandole da alcuni costi che altrimenti avrebbero dovuto sostenere direttamente.

Sempre in relazione alle questioni abitative, è importante sottolineare come un’impostazione slegata dalle esigenze delle persone comporti a risultati negativi non solo da un punto di vista sociale ma anche economico. Col sistema attuale, ad esempio, in caso di istanza di sfratto, nella maggior parte dei casi le istituzioni intervengono in aiuto della famiglia solo quando lo sfratto è già avvenuto, poiché i procedimenti amministrativi vigenti impediscono al funzionario di intervenire preventivamente. La famiglia, dunque, fino a quando non si trova in mezzo alla strada deve arrangiarsi da sola. Attraverso un progetto che stiamo mettendo a punto in questi mesi ci siamo accorti di come, invece, intervenendo preventivamente si possano ottenere vantaggi non solo economici ma anche sociali. Il fatto che una famiglia possa rimanere nella propria abitazione determina infatti un risparmio notevole, perché evita che il Comune spenda ingenti risorse per soluzioni abitative di emergenza (alberghi per moglie e figli, dormitori comunali per il capofamiglia) e ovviamente porta a risultati sociali molto importanti. La famiglia resta nella propria abitazione, nel territorio, i bambini continuano a frequentare i luoghi abituali e i legami interfamiliari non si sfaldano.

Un altro esempio è il “tavolo povertà” della Città di Torino, un luogo che l’Ufficio Pio ha fortemente sostenuto, dove si possono confrontare le istituzioni e le realtà che si occupano di persone in difficoltà economica. Il tavolo è un contesto privilegiato in cui capire meglio come, unendo le forze, si può aiutare chi si trova in difficoltà. Nessuno cerca di supplire alle responsabilità altrui, così come nessuno impone ad altri una certa modalità di lavoro piuttosto che un’altra, ma è un luogo in cui confrontarsi sui reali bisogni della città e soprattutto delle persone e pensare a soluzioni efficaci. I risultati di questa collaborazione sono evidenti sia da un punto di vista gestionale che di azioni concrete attivate sul territorio: i bisogni vengono analizzati nelle riunioni del tavolo e gli operatori sia dell’ente pubblico che del terzo settore hanno la possibilità di avere un quadro più generale della situazione e di attivare azioni più consone.

Il welfare 2.0 secondo le vostre indicazioni possiede quattro caratteristiche principali: personale, collaborativo, comunitario e restituivo. I primi tre punti paiono immediati e comprensibili ma quale sia l’obiettivo del quarto, il fattore “restitutivo”, non è del tutto chiaro. Può spiegarci come dovrebbe funzionare la “restituzione”?

Anche in questo caso preferirei rispondere attraverso alcuni esempi, che credo rendano meglio l’idea di che cosa intendiamo con questa terminologia. La sperimentazione pratica del welfare restituivo è ben visibile nel progetto Trapezio (di cui Secondo Welfare si è occupato già nel novembre scorso, nda) e nei frutti che esso ha determinato. Il primo caso è quello di una giovane “trapezista” che lavorava e studiava e che a un certo punto, a causa di una malattia, è stata costretta a scegliere tra lo studio e l’università. Il progetto Trapezio l’ha aiutata pagandole gli studi, permettendole in questo modo di laurearsi e diventare infermiera nonostante la malattia. Questa ragazza ora restituisce quanto le è stato dato fornendo prestazioni infermieristiche gratuite a persone che le vengono indicate dall’Ufficio Pio. Un altro esempio molto concreto è quello di una signora che, grazie al nostro aiuto, è riuscita ad aprire una lavanderia a gettoni nonostante alcuni gravi problemi familiari. Attualmente questa persona offre dei gettoni gratis a volontari o persone che ne hanno necessità, e in tal modo “ripaga” chi l’ha aiutata in precedenza. Altro esempio significativo: lo scorso anno abbiamo organizzato un importante convegno sul progetto Trapezio. I costi di tale evento sono stati contenuti grazie all’apporto di molti trapezisti che hanno speso parte del proprio tempo per fare le riprese, garantire l’accoglienza ai partecipanti e preparato il buffet, restituendo col loro lavoro quando ricevuto in precedenza. Attraverso questi esempi credo sia più semplice capire cosa si intenda con restituzione e quali benefici concreti essa può garantire alla comunità.

Ma in che modo viene deciso come avviene la restituzione? Si basa sulla libera iniziativa di chi partecipa o ci sono delle modalità prestabilite da seguire?

Nel caso del progetto Trapezio viene stipulato un patto che indica l’impegno di chi viene aiutato a restituire. Come restituire può essere stabilito dall’Ufficio Pio o dagli altri partner del progetto oppure può essere scelto dal soggetto in base alla sue possibilità e capacità. Attualmente stiamo lavorando su diverse modalità di restituzione – il pagamento in denaro, la realizzazione di opere o la fornitura di particolari servizi – che possano essere applicate anche a programmi diversi dal progetto Trapezio. Quest’ultimo infatti si fonda su numeri abbastanza piccoli, e le modalità di restituzione sono disegnate su soggetti che comunque in un modo o nell’altro hanno la possibilità di restituire quanto ricevuto. Crescendo i numeri e allargandosi la varietà di soggetti che vengono aiutati è normale che stabilire modalità di restituzione non sia sempre semplice. Ad esempio è difficile pensare che un soggetto anziano che riceve assistenza medica domiciliare possa in qualche modo ripagare questo servizio. Siamo comunque convinti che in molti casi la via della restituzione sia percorribile. Un altro progetto dove pensiamo possa essere attuata la restituzione è “Percorsi”. I destinatari sono i ragazzi che frequentano gli ultimi due anni delle superiori oppure sono già all’università e che, per vari motivi, soprattutto situazioni di povertà, rischiano di non poter terminare i propri studi. In questo progetto proporremo ai ragazzi che aiutiamo di impegnarsi a restituire quanto ricevuto partecipando ai nostri progetti legati alla scuola e all’educazione, aiutando per esempio altri giovani nei doposcuola o facendo ripetizioni gratis.

In base a ciò che raccontate il modello di welfare 2.0 pare funzionare molto bene sul territorio di Torino, ma sarebbe “esportabile” in altri contesti?

Giovanni Tamietti – penso che ci siano alcune problematiche fondamentali riguardanti l’esportazione del modello in altri contesti. Da un lato noi, come Ufficio Pio, abbiamo la fortuna di poter pensare all’innovazione perché abbiamo una certa disponibilità di risorse e perché non abbiamo l’onere dei servizi essenziali. La maggioranza degli enti, sia pubblici che privati, non hanno simili possibilità economiche e, soprattutto, si devono occupare di una serie di rischi e bisogni fondamentali che assorbono gran parte dei fondi e delle energie a loro disposizione. L’assenza di un soggetto simile all’Ufficio Pio, dunque, potrebbe essere un problema non secondario. In secondo luogo alcuni aspetti del modello, in particolare quello della restituzione, culturalmente sono ancora poco accettati. E’ infatti difficile scardinare un modello che prevede un rapporto unilaterale, in cui il soggetto si rivolge all’ente e l’ente risolve il suo problema. Anche noi, che il modello lo abbiamo pensato, abbiamo fatto molta fatica all’inizio a proporre questo approccio tutt’altro che assistenzialista. Una cosa è dire “meno assistenzialismo”, un’altra è entrare in rapporto con tante realtà diverse, far passare l’idea e, soprattutto, metterla in pratica mettendo d’accordo tutti gli attori coinvolti. In questo senso è importantissimo che tutti coloro che agiscono per aiutare chi si trova in difficoltà siano considerati e si considerino in maniera paritetica, posti sullo stesso piano, e nessuno abbia la pretesa di poter dire all’altro che cosa debba fare. Per far questo serve una mentalità aperta, un lavoro continuo e una volontà di collaborazione che, a volte, a causa di una certa impostazione culturale di cui parlavo prima, sono deboli o assenti.

Daniela Gregnanin – La Compagnia di San Paolo, per favorire questo nuovo tipo di approccio, da una decina d’anni sviluppa i cosiddetti progetti di innovazione sociale: su importanti tematiche di rilevanza sociale sono stati proposti momenti di riflessione tra pubblico e privato attraverso cui sviluppare risposte adeguate per specifici bisogni, grazie alle quali in diverse occasioni è stato possibile superare alcune rigidità tipiche degli enti pubblici. Stabilire momenti in cui potersi confrontare su problemi particolari è stato molto importante, e ha permesso in molti casi esiti favorevoli tanto delle relazioni che delle misure destinate alle persone. Un esempio è quello del microcredito sociale, su cui è iniziata una riflessione nel 2001 e una sperimentazione nel 2004, che ha permesso la nascita di una partnership tra fondazioni, banche e enti non profit che lavorano sul territorio per favorire la concessione di credito con fine di investimento e non di consumo a persone non bancabili . Nel 2009 la sperimentazione è finita ma la Regione Piemonte, a fronte del lavoro congiunto, ha colto le potenzialità di questo progetto e ha trasformato queste pratiche in una misura ordinaria a livello regionale. Perché processi del genere si realizzino, come ha detto anche Giovanni Tamietti, penso sia necessaria la presenza di attori di qualità. Al fine del modello è infatti fondamentale che siano presenti sul territorio soggetti autorevoli, in grado svolgere un ruolo dinamico e atipico rispetto agli altri attori tradizionali. Questo ruolo, in Italia, è ricoperto principalmente dalle fondazioni di origine bancaria, le quali posseggono una serie di conoscenze, di rapporti e di risorse senza le quali sarebbe difficilmente concepibile un sistema come quello di cui abbiamo raccontato.

Ma secondo lei questi risultati positivi dipendono dal fatto che voi avete una percezione e una sensibilità diversa rispetto alle istituzioni pubbliche?

Giovanni Tamietti – A mio parere è una questione innanzitutto di organizzazione. Noi infatti, rispetto ad altre istituzioni, abbiamo un approccio più flessibile che ci permette di rispondere meglio a diversi problemi mentre la burocrazia, non essendo in grado di incasellare tutte le questioni che si trova di fronte, a volte li aumenta invece che risolverli. Le esperienze che le abbiamo raccontato dimostrano come un nuovo approccio sia possibile, e i suoi risultati ne indicano la concretezza al di là dei principi e delle parole.

 

Riferimenti

Il sito dell’Ufficio Pio di Torino

Il Bilancio di Missione 2012 "Pionieri del welfare 2.0"

L’articolo "Il Trapezio: vulenrabilità e progetti di autonomia"

Il sito del progetto "Percorsi"

Il sito della Compagnia di San Paolo

Le politiche sociali attuate dalla Compagnia

 

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