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Il 16 aprile scorso su Buone Notizie Enzo Manes, Presidente della Fondazione Italia Sociale, ha proposto di introdurre una "donazione obbligatoria" una tantum da parte di chi dichiara più di 1 milione di euro di patrimonio finanziario. Tali risorse andrebbero a sostenere, attraverso un apposito fondo di recovery, tutte le organizzazioni non profit escluse dai provvedimenti del Governo, che nei prossimi mesi senza sostegni adeguati rischierebbero di scomparire. Abbiamo chiesto a Manes di spiegarci meglio la sua proposta.


Lei propone di introdurre una norma che preveda una “donazione obbligatoria” sui patrimoni più alti per sostenere il Terzo Settore. Per quanto ben argomentata, tuttavia, questa proposta potrebbe sembrare una sorta di patrimoniale, u
na misura che come sappiamo non gode di particolare favore nel nostro Paese. Non avrebbe più senso agevolare e facilitare le donazioni che in questo periodo di emergenza sono state molto consistenti?

Ho proposto una “donazione obbligatoria” con l’intenzione di provocare. Provocare una riflessione. Ero consapevole che l’ossimoro avrebbe fatto arricciare il naso a più di uno. Ma il tema che sollevo, al di là di come lo si voglia chiamare, è che il livello di ricchezza privata del Paese giustifica uno sforzo in più rispetto al passato.
Su 10.000 miliardi di patrimoni, suddivisi quasi alla pari tra beni mobili e immobili, gli attuali 10 miliardi (scarsi) di donazioni che gli italiani destinano al non profit sono un’inezia.

Per di più, oggi gran parte dei donatori sono persone comuni, a reddito medio-basso. Trovo scandaloso che chi potrebbe contribuire di più non lo faccia.
Quindi ha senso un gentile “nudge”, una tantum, per chi ha più di un milione di euro di ricchezza finanziaria (lasciando quindi fuori le proprietà immobiliari, che nel nostro Paese sono il forziere della classe media). È un intervento pensato esplicitamente per i benestanti, ai quali non farà nessuna differenza in termini di benessere e qualità della vita privarsi di un millesimo di quanto hanno investito in titoli o obbligazioni. Lo spauracchio della patrimoniale – evocata a sproposito, dato che non sono risorse destinate al bilancio pubblico – non deve farci perdere di vista il senso delle cose. Davvero pensiamo che mille euro su una ricchezza di un milione sia un sacrificio insopportabile? A fronte della prospettiva di un Paese impoverito, in cui aumenterà il numero di quanti saranno in bisogno, mi sembra che sia il momento di superare ogni remora. Se non ora, quando?

Aggiungo, anzi, che la stessa iniziativa va estesa alle grandi imprese. In questo senso, come Fondazione Italia Sociale, abbiamo intenzione di proporre alle aziende quotate in borsa di partecipare con un contributo dello 0,5 per mille della loro capitalizzazione. Perché, al di là di quanto meritoriamente donato nel pieno dell’emergenza a sostegno del sistema sanitario, i problemi maggiori si manifesteranno nei prossimi mesi, quando dovremo fare i conti con gli effetti della crisi economica, con la chiusura di imprese, con la perdita di posti di lavoro. Sarebbe grave che dopo l’ondata di solidarietà e le donazioni delle scorse settimane si pensasse che il problema è risolto e la mano può essere rimessa in tasca. Certo, sarebbe preferibile che il gesto filantropico avvenisse volontariamente. Ma questa è una situazione eccezionale e non c’è tempo da perdere. Per questo una forzatura è accettabile e non credo sinceramente che alteri la natura ontologica del dono.

Ripeto: l’obiettivo è quello di portare al non profit più risorse, il prima possibile. A partire da chi le ha.


Ammettendo che la “donazione obbligatoria” vada a buon fine, avete già stimato quante risorse potrebbero arrivare da questa misura?

In Italia la ricchezza finanziaria privata ammonta a circa 4.500 miliardi di euro. Di questa, circa un terzo è in titoli finanziari detenuti da soggetti con disponibilità superiore a 1 milione di euro. Quindi, potenzialmente, applicando l’1 per mille si potrebbe contare su circa 1,5 miliardi di euro. Ai quali potrebbe aggiungersi lo 0,5 per mille della capitalizzazione delle aziende quotate, per altri 300-350 milioni di euro. Quindi in totale una cifra approssimativa di 1,8-1,9 miliardi di euro. Quasi quattro volte l’attuale gettito del 5 per mille.

Ma non è l’unica proposta che abbiamo avanzato come Fondazione Italia Sociale. C’è anche l’idea di modificare le attuali soglie e aliquote dell’imposta sulla successione e sulle donazioni, tutelando i gradi di parentela diretta ma aumentando progressivamente fino al 40 per cento le imposte per i discendenti più lontani (dal quarto grado in avanti). Salvo che i lasciti vengano destinati a organizzazioni e progetti di interesse sociale: in questo caso la differenza tra l’attuale (8 per cento) e la futura aliquota massima (40 per cento) verrebbe destinata direttamente allo scopo sociale stabilito dal donatore.

L’Italia è uno dei Paesi del mondo con la più bassa tassazione sulle eredità. Se a questo si aggiunge che entro i prossimi dieci anni una consistente parte della popolazione (si calcola circa il 20 per cento) non avrà eredi diretti ai quali trasmettere i propri beni, per l’effetto congiunto di una minore natalità e di un progressivo invecchiamento degli italiani, è chiara l’importanza di una modifica delle norme che regolano le successioni. Consentirebbe di indirizzare almeno una parte di queste risorse al non profit e a progetti di interesse sociale.

La stima delle risorse che così potrebbero essere destinate a progetti sociali – secondo l’analisi realizzata da Gianpaolo Barbetta per la Fondazione Cariplo – è di circa 120-130 miliardi di euro l’anno. Sarebbe un game changer per lo sviluppo del Terzo settore nel nostro paese. E rimedierebbe ad una delle fonti di disuguaglianza più macroscopiche.


Le risorse raccolte dove confluirebbero e, soprattutto, come sarebbero utilizzate?

La raccolta dovrebbe essere destinata ad un fondo nazionale appositamente costituito. L’idea dell’1 per mille sulle ricchezze private (e dello 0,5 per mille sul valore di borsa delle imprese) nasce dall’esigenza di creare un fondo attivo su scala nazionale per compensare, con contributi a fondo perduto e prestiti a tasso zero, le mancate entrate delle organizzazioni non profit più colpite dal blocco delle attività. Un’iniezione di liquidità senza condizionalità onerose e senza l’obbligo di elaborare progetti articolati. Si tratterebbe di intervenire sulle organizzazioni che possono dimostrare il danno conseguente alla chiusura forzata. E che – con un aiuto una tantum – possono essere rimesse in condizione di tornare a occuparsi di chi ha bisogno.

I fondi di recovery per il non profit non sono una novità. In altri Paesi ci sono diversi esempi ai quali ispirarsi per ideare meccanismi semplici, di intervento rapido a sostegno dei bilanci delle organizzazioni, per consentire una rapida ripresa delle attività. In queste settimane abbiamo studiato il caso dei Non Profit Recovery Fund creati in diverse città. O anche il fondo di 750 milioni di sterline costituito dal governo britannico per sostenere il non profit più colpito dal prolungato lockdown.

In Italia, larga parte delle organizzazioni di Terzo settore è rimasta finora esclusa dalle misure anticrisi del governo. Mentre per imprese e lavoratori autonomi sono stati messe in campo forme agevolate di credito o contributi a fondo perduto, nulla è stato previsto per le organizzazioni di Terzo settore costituite in forma diversa dall’impresa (fatta eccezione per la cassa integrazione in deroga). Questo significa che, se si escludono le circa 20.000 cooperative sociali o imprese sociali, ci sono 330.000 organizzazioni senza nessuna forma di sostegno. Per questi soggetti i mesi di blocco hanno significato l’azzeramento delle entrate da attività e progetti e il dirottamento di parte ingente delle donazioni sull’emergenza sanitaria. La loro sopravvivenza è veramente a rischio. Non è necessario avere doti divinatorie per immaginare che i prossimi 12-18 mesi vedranno crescere i bisogni sociali che non potranno essere soddisfatti dalle forme tradizionali di welfare. È fondamentale che il Terzo settore sia in buona salute, perché ne avremo un gran bisogno.