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Nel capitolo del Secondo Rapporto sul Secondo Welfare dedicato alla povertà abbiamo analizzato il ruolo degli attori del secondo welfare nel quadro delle politiche di contrasto. Come è emerso, questi attori intervengono sia attraverso l’attività di advocacy (in particolare sostenendo il tema nel tentativo di accrescerne la visibilità politica) sia contribuendo all’implementazione delle misure di contrasto alla povertà a livello locale. Nella nostra intervista a Ivano Abbruzzi, Presidente della Fondazione L’Albero della Vita, vediamo come l’advocacy può concretizzarsi anche nella promozione di un nuovo approccio alla lotta alla povertà. Questa fondazione, attraverso l’attività di ricerca e la progettazione di interventi rivolti ai minori, sta infatti promuovendo una visione che mette al centro il potenziale delle famiglie povere e le considera come le principali protagoniste dei progetti di uscita dalla povertà.


Di recente abbiamo dato spazio ai
risultati di una ricerca sulle famiglie e i bambini in povertà da voi promossa. Può raccontarci quali sono le ragioni che vi hanno spinto a sostenere questa ricerca?

La nostra organizzazione lavora sul tema della povertà (in particolare quella infantile) ormai da molto tempo e, da quando abbiamo iniziato la nostra attività, uno degli elementi che ci ha colpito di più è il carattere marcatamente assistenziale di molti interventi in materia. In un quadro di questo tipo, raramente per capire la condizione delle famiglie esse sono ascoltate. Questo ci ha portato a ragionare su un’impostazione di ricerca più qualitativa che quantitativa (la nostra ricerca ha infatti interessato sette città coinvolgendo circa 300 famiglie) e centrata appunto sul dar voce alle famiglie indigenti. L’intento era quello di avvicinarci alla famiglia per capirne i vissuti in rapporto alla povertà. In sostanza, al di là della condizione reddituale, si trattava di capire quale fosse il percepito di queste famiglie, quali le opportunità mancate, quali le difficoltà. Inoltre, abbiamo cercato di capire come fosse vissuto il sistema di aiuti in essere, se è utile, se raggiunge ciò che serve e che tipo di attese ci sono da parte delle famiglie. Ma quello che più ci interessava era capire come e se le famiglie si sentono protagoniste di un processo di cambiamento e come e se sentono che le loro risorse possano essere meglio impiegate in un’ottica di uscita dalla povertà. Questo perché gli interventi assistenziali sono vissuti passivamente. Noi ci aspettiamo invece un’attivazione da parte delle famiglie. In altre parole, riteniamo che le famiglie debbano essere considerate come la prima risorsa del loro stesso progetto.


Quali sono gli elementi di originalità che caratterizzano questa ricerca?

Gli aspetti di innovazione sono due. Il primo riguarda l’aver dato voce ai poveri piuttosto che concentrarci, ad esempio, sugli elementi di carattere reddituale, su quali e quanti servizi sono stati ricevuti e da chi sono stati erogati. Il nostro obiettivo infatti era ascoltare chi la povertà la vive. Il secondo elemento di originalità si lega al fatto che abbiamo cercato di guardare a ciò che le famiglie ricevono (e non ricevono) non tanto in un’ottica assistenzialistica, quanto piuttosto in un’ottica di potenziale. Il focus è stato quindi sul potenziale della famiglia. In questo quadro abbiamo guardato non solo al potenziale verso se stessa (quindi cosa sente di poter fare per concorrere al suo risultato) ma anche che cosa può fare in una chiave di welfare generativo, per contribuire al benessere della comunità cui appartiene. Da questo punto di vista, la ricerca si è avvicinata a un vero e proprio intervento di attivazione. Quando si sottopone una domanda tipo “qual è il potenziale che senti di avere e che potrebbe essere utilizzato per promuovere un processo di cambiamento” si sta già innescando un processo di cambiamento. Quindi questa ricerca è stata anche l’occasione per incoraggiare le famiglie a utilizzare le proprie risorse in maniera attiva.

Quali sono i risultati più interessanti che la ricerca ha consegnato?

L’elemento più interessante che è emerso è che la famiglia c’è. In sostanza, anche quando si è in contesti di povertà molto forti le famiglie sentono di avere un potenziale. Questo ha confermato il nostro assunto di partenza. La famiglia sente di avere risorse e vuole partecipare attivamente al proprio destino. In particolare, le famiglie con figli portano un senso di responsabilità diffuso, percepiscono l’importanza di attivarsi per uscire dalla propria condizione e questo, a nostro avviso, si lega proprio alla genitorialità. Altro dato abbastanza nuovo è quello relativo ai bambini. Dalla ricerca, che ha anche dedicato spazio all’ascolto dei bambini appartenenti ai nuclei familiari coinvolti, è emerso infatti che, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, i bambini sentono poco il peso della loro condizione di povertà. In sostanza, questi bambini non si sentono poi così poveri, l’essere all’interno di una famiglia con riferimenti affettivi solidi è quello che riconoscono come maggiore valore. Infine, è emerso che le famiglie percepiscono che una parte di aiuti molto importante è rappresentata dall’accompagnamento sotto forma di servizi. Considerando la carenza di questo tipo di servizi tipica del nostro sistema di welfare, si tratta chiaramente di un elemento importante e di cui è necessario tenere conto.

Può raccontarci come è nata la Fondazione l’Albero della Vita?

L’Albero della Vita nasce nell’aprile del 1997 come un’organizzazione di volontariato per poi diventare (nel 1998) una cooperativa sociale e, successivamente, costituirsi in fondazione (nel 2004). Oggi ci sono tre enti (l’associazione, la cooperativa e la fondazione) che lavorano con la medesima struttura. Si tratta quindi di un’organizzazione integrata che nasce con l’intento di promuovere la tutela dei minori fuori famiglia. Le nostre prime attività hanno infatti riguardato l’accoglienza dei minori allontanati dalle famiglie. Inizialmente, queste attività sono state sviluppate in Lombardia dove ci siamo occupati dell’accoglienza residenziale e diurna (centri diurni e comunità educative). Nel 2004, abbiamo iniziato a lavorare anche in Piemonte e in Sardegna. A partire dal 2006, siamo invece diventati un’organizzazione diffusa a livello nazionale e progressivamente anche a livello europeo e in alcuni paesi in via di sviluppo. Attualmente, L’Albero della Vita ha quindi progetti un po’ in tutte le regioni italiane. A livello europeo lavora in partenariato in vari paesi con alcuni programmi finanziati dalla Commissione Europea. Inoltre, soprattutto dal 2008, abbiamo iniziato a lavorare in India, Bangladesh, Nepal, Kenya, Haiti e Perù.

Quali sono le principali aree di intervento della Fondazione?

A livello italiano, l’area principale riguarda l’accoglienza dei minori fuori famiglia. Questa attività si è integrata molto con lo strumento dell’affido familiare, con l’accoglienza di mamme con bambini e l’accoglienza di minori stranieri non accompagnati. Un’altra parte delle attività riguarda poi i progetti scolastici di educazione allo sviluppo e alla cittadinanza mondiale. Inoltre, abbiamo un programma, che si chiama “Emergenza Minori”, che prevede varie attività rivolte ai minori in povertà assoluta presenti nelle periferie delle grandi città (in particolare a Torino, Genova, Milano, Venezia, Reggio Emilia, Roma, Bari, Napoli, Reggio Calabria, Palermo). Attraverso questi interventi, abbiamo promosso l’idea che i programmi educativi devono puntare ad ampliare gli orizzonti che i bambini e i ragazzi hanno sulla loro città. Questo progetto punta infatti a dare ai ragazzi nuovi riferimenti e prospettive, con l’obiettivo di stimolare la ricerca di migliori opportunità per il presente e per il futuro. “Emergenza Minori” mira quindi ad allargare la cornice di vita dei ragazzi grazie all’incontro con: 1) modelli di vita proattivi; 2) stili di relazione cooperativi e partecipativi; 3) diversi contesti della loro città; 4) diverse prospettive sui contesti di vita; 5) la bellezza e l’arte. In questo caso l’obiettivo era quello di stimolare la ricerca di migliori opportunità nel presente e nel futuro. I programmi di intervento hanno offerto a bambini e ragazzi: opportunità educative e di socializzazione, opportunità di sport, arte e tempo libero; sostegno alla scolarizzazione e prevenzione del dropout. In questo ambito abbiamo lavorato per 8 anni realizzando interventi in forma diretta e in partnership con altre organizzazioni radicate nei quartieri. In tutto sono stati implementati 23 progetti che si sono rivolti a 2.162 beneficiari diretti.

Nel 2014, a Palermo e a Milano, è poi partito il programma “Varcare la Soglia” che al momento è il nostro progetto pilota. Varcare la Soglia propone un intervento integrato di contrasto alla povertà dei bambini, agendo sulle caratteristiche di fragilità del sistema familiare e prevedendo un coinvolgimento attivo dell’intero nucleo. In questo caso gli interventi riguardano non solo il sostegno alla genitorialità ma anche il sostegno agli stessi genitori attraverso interventi sulla condizione lavorativa e formativa. In particolare, Varcare la Soglia punta a reimmettere la famiglia in una dinamica proattiva favorendo l’individuazione delle expertise e delle capacità, investendo sulla scolarità, la formazione professionale e favorendo l’accesso alle reti di avvio al lavoro. Inoltre, con questo progetto lavoriamo sulla motivazione a utilizzare al meglio le proprie personali risorse per realizzare un percorso di uscita dalla povertà. Questo programma punta quindi sulla nostra capacità di lavorare sulle motivazioni delle persone e di coinvolgerle come attori del loro processo di cambiamento. In sostanza, il tema della ricerca di cui parlavo prima è alla base di questo progetto.

Questo progetto è attualmente attivo in due città ma verrà esteso anche ad altri territori. In particolare, stiamo valutando la possibilità di realizzarlo anche in Piemonte, Liguria, Lazio, Campania, Puglia e Calabria. Lo schema di lavoro prevede sia l’intervento vero e proprio, sia momenti di ricerca finalizzati a capire come e se le risorse pubbliche messe in campo producano effettivamente dei risultati e se un approccio che accompagna le persone riesce o meno a fare la differenza. In sostanza, vorremmo capire se questo tipo di aiuto funziona di più rispetto ad altri strumenti solitamente messi in campo e i primi risultati raccolti sono già molto entusiasmanti. Pensiamo infatti che dimostrare questo da un punto di vista empirico possa costituire uno strumento di riflessione per le politiche pubbliche future.

Quali sono invece i progetti realizzati nei paesi in via di sviluppo?

Le attività in questi paesi sono iniziate con il sostegno a distanza, concentrandoci sul diritto allo studio e sull’educazione come leva dello sviluppo. Successivamente abbiamo lavorato con progetti che coinvolgono le famiglie e le comunità di appartenenza dei bambini e toccano vari aspetti fra i quali ad esempio la fruizione di acqua potabile e servizi igienici, interventi di sicurezza e sovranità alimentare e di assistenza medica. Abbiamo poi sviluppato attività di prevenzione del matrimonio precoce e dello sfruttamento sessuale delle bambine; in questi casi si tratta quindi di programmi di protezione dell’infanzia rispetto ai rischi di abuso. Questi programmi hanno riguardato principalmente l’India e il Kenya. In altri paesi come Haiti e Nepal abbiamo invece lavorato sull’emergenza terremoto prevedendo piccoli interventi infrastrutturali volti a garantire l’accesso alla scuola per i bambini anche in momenti di difficoltà. A partire dall’emergenza terremoto, in questi paesi abbiamo poi sviluppato programmi di lungo periodo in campo sanitario e dell’istruzione. Infine, in Perù, Kenya, India e Bangladesh abbiamo fatto interventi di cooperazione allo sviluppo locale di carattere agricolo.

La Fondazione collabora con altre realtà simili? Promuovete progetti condivisi? Ci sono collaborazioni con enti locali o con istituzioni regionali?

Per le attività di accoglienza e affido lavoriamo molto con gli enti locali (in particolare con i servizi sociali) o con il tribunale dei minorenni. Sul tema dell’istruzione, i nostri interlocutori chiaramente sono le scuole e le varie istituzioni regionali e provinciali competenti. Per quanto riguarda invece i progetti che coinvolgono le periferie si tratta di attività che abbiamo fatto in partenariato con alcune realtà del privato sociale e con le istituzioni locali.

A livello di reti vere e proprie invece, dialoghiamo con tavoli nazionali, regionali e comunali. A livello nazionale è il caso ad esempio di PIDIDA che sta per “i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza” si tratta di una rete promossa da Unicef. Inoltre, collaboriamo attivamente nel gruppo CRC che redige annualmente il rapporto sull’implementazione della convenzione per i diritti dell’infanzia in Italia. Facciamo parte di “CoLomba” che è la rete delle ONG lombarde e del Forum del Sostegno a Distanza. Infine, a livello europeo siamo membri attivi della rete Euro-Child.

Quali sono le principali fonti di finanziamento che consentono di realizzare i progetti?

La nostra fonte principale di finanziamento è costituita dalla raccolta fondi da privati intercettati grazie all’invio di mailing postali, alla campagna del 5×1000 e la campagna del Sostegno a Distanza (SAD). E’ in avviamento la predisposizione di banchetti in strada dove i dialogatori invitano le persone a sottoscrivere una donazione continua o un SAD. La raccolta fondi coinvolge anche alcune aziende che, ad esempio, donano in occasione delle campagne natalizie che promuovono progetti specifici.

Alcune delle attività hanno invece fonti di finanziamento istituzionali. È il caso dei progetti che riguardano la tutela dei minori (sia per l’accoglienza sia per gli affidi) che sono sostenuti dai comuni invianti. Inoltre, vari progetti sono promossi grazie al finanziamento da parte di istituzioni e fondazioni nazionali, europee e internazionali attraverso la partecipazione a bandi e gare di appalto.