Continua il dibattito sul futuro del Terzo Settore italiano lanciato da Carola Carazzone, Segretario Generale di Assifero. In questo articolo pubblicato da Il Giornale delle Fondazioni Andrea Silvestri, Direttore Generale di Fondazione CRC, offre alcuni spunti di riflessione sul tema.
Vorrei innanzitutto ringraziare l’amica Carola Carazzone per il suo prezioso intervento pubblicato nei giorni scorsi, che interroga e stimola noi, operatori della filantropia istituzionale, a fare il punto su un tema cruciale per le fondazioni: l’interazione con gli Enti del Terzo Settore. L’articolo ha il pregio di gettare il sasso nello stagno, di porre i temi in modo diretto, talvolta anche provocatorio, raggiungendo lo scopo di attivare un dibattito utile per tutti. Si parla di due miti da sfatare, e soprattutto di due prassi da superare da parte dei soggetti finanziatori: il perseguimento della massima riduzione possibile dei costi di struttura e di funzionamento degli Enti del Terzo Settore; e l’eccessiva focalizzazione sul finanziamento di progetti e sull’utilizzo dei bandi competitivi, rispetto ad una auspicato sostegno alle organizzazioni, perché possano agire e svilupparsi.
Diagnosi condivisibile?
Partiamo proprio da questa “diagnosi”: osserverei innanzitutto come la casistica dei rapporti tra enti “finanziatori” ed Enti del Terzo Settore sia in realtà complessa e articolata, e richieda qualche distinzione. La situazione è molto diversa tra gli enti pubblici (ASL, Consorzi socio assistenziali, Comuni, Regioni, Commissione Europea) che “utilizzano” Enti del Terzo Settore, in particolare le cooperative sociali, come soggetti attuatori nell’erogazione dei servizi sociali, e soggetti grant making, come le fondazioni, che erogano contributi a fondo perduto agli stessi soggetti. Entrambi gli enti sono erogatori di risorse economiche verso gli Enti del Terzo Settore, ma con logiche molto diverse.
Nel primo caso, quello del Terzo Settore “fornitore di servizi”, la logica della compressione dei costi è più presente e pesante, giustificata dalla limitatezza delle finanze pubbliche rispetto ai bisogni, dalla numerosità dei concorrenti, dalla preoccupazione di dirigenti e funzionari di utilizzare nel modo più efficiente possibile le risorse pubbliche disponibili. Non è il mio settore di lavoro, ma come osservatore coinvolto posso dire che il problema, qui, sta nella scala temporale con cui l’ente finanziatore valuta i servizi da acquisire: i risparmi di oggi possono trasformarsi, domani, in “strangolamento” di partner fondamentali sul territorio, o quanto meno nella loro difficoltà di mantenere competenze e qualità del servizio; mentre costi maggiori oggi possono fornire risparmi significativi nel medio periodo.
Si pensi ad esempio ai servizi di educativa di strada per il recupero di minori a rischio, paragonati ai costi da sostenere per l’inserimento degli stessi giovani in comunità ed istituti, laddove le azioni di prevenzione vengano trascurate o compresse all’eccesso. A questo proposito mi sembra importante segnalare le esperienze che alcuni enti locali stanno conducendo, come il Comune di Brescia, con l’assessore Felice Scalvini che ha sostituito le gare competitive con processi di progettazione partecipata e promozione di partenariati, non solo per evitare la logica del massimo ribasso, ma anche per valorizzare la capacità degli Enti del Terzo Settore nel disegno dei servizi.
Perché l’enfasi sui progetti
È però vero che le logiche di “compressione dei costi”, o, più precisamente, di esclusione delle spese ordinarie di funzionamento da quelle ammissibili e finanziabili, sono presenti anche in molti strumenti di selezione, tipicamente bandi, adottati da fondazioni e altri soggetti grantmaking. Si è consolidata una prassi di finanziamento preferenziale per i progetti, ritenendo le spese ordinarie di funzionamento degli Enti del Terzo Settore “rischiose”, perché tendenzialmente senza una fine temporale.
Ma, soprattutto, le attività ordinarie degli enti sono più difficili da sottoporre ad una valutazione oggettiva e rigorosa ex ante, e ancor più, ex post. Proprio il giusto percorso evolutivo, intrapreso da tutte le fondazioni, di perseguimento di una trasparenza e di una oggettivazione delle proprie scelte erogative, con il nobile intento di superare logiche soggettive o personalistiche, ha spinto le fondazioni ad una eccessiva enfasi sulla valutazione dei progetti.
La prima sfida: l’innovazione, un valore aggiunto irrinunciabile
Occorre, dunque, superare la logica dei progetti, e “tornare” a valutare le organizzazioni, per la bontà del loro lavoro quotidiano e “ordinario” per la comunità?
In parte sì: la valutazione delle organizzazioni, della loro storia, dell’impatto che hanno generato e generano sulla comunità, deve entrare nei criteri di selezione delle Fondazioni ed acquisire peso.
Ma attenzione: se le fondazioni, in particolare quelle di origine bancaria, si “limitassero” a finanziare il Terzo Settore o le pubbliche amministrazioni, non porterebbero un valore aggiunto fondamentale, che rende l’impatto del loro intervento di molto superiore alla sommatoria dei contributi erogati: quello dell’innovazione. L’innesto di innovazione nei processi gestiti dalla Pubblica Amministrazione, spesso tramite il Terzo Settore, è un ruolo fondamentale che difficilmente altri soggetti potrebbero svolgere.
Ciò che rende ardua l’innovazione da parte di una Pubblica Amministrazione è una pluralità di cause: la scarsità di risorse, la difficoltà di assunzione di rischi, l’obbligo dell’universalità delle prestazioni ai cittadini. In questi processi le Fondazioni possono, e lo fanno in molti casi, farsi promotrici di percorsi di sperimentazione e di mobilitazione di risorse.
Quali progetti?
Chiamiamoli progetti, ma progetti strategici: per avere successo, come suggerisce Carola nel suo articolo, devono essere interdisciplinari, inter-istituzionali, pluriennali, capaci di miscelare diversi strumenti di supporto. I progetti di innovazione devono coinvolgere gli Enti del Terzo Settore nell’identificazione delle soluzioni innovative, e devono coinvolgere le Pubbliche Amministrazioni fin dalla fase di disegno, per individuare insieme le opportunità di estensione e di sostenibilità dei servizi.
Nel cambiamento sociale vale il famoso proverbio africano “se vuoi andare lontano, vai insieme ad altri”. Forse andrai un po’ più lento, ma costruirai le basi per un cambiamento efficace, duraturo, sostenibile. E’ un lavoro di analisi, progettualità, pazienza, determinazione, disponibilità a cambiare itinerario in corso d’opera. Occorre mobilitare le energie della comunità, dei privati cittadini, del tessuto sociale ed economico, per innescare veri processi di “collective impact”. Ed è un approccio che supera anche quello, seguito dalle fondazioni fino a pochi anni fa, della sperimentazione esemplare, realizzata in piccola scala e valutata nei suoi effetti, per poi passare la mano agli enti preposti, per l’auspicabile replica su larga scala. Le Fondazioni, oggi, per fare cambiamento, devono farsi carico anche dello scale-up, promuovendo in prima persona la mobilitazione di tutte le energie pubbliche e private del territorio, incluse le donazioni dei privati e le campagne di crowdfunding.
Mi permetterete di citare un esempio concreto, realizzato dalla Fondazione CRC: il progetto “VelA – Verso l’autonomia” che parte dalla tesi, studiata dall’Università degli Studi di Torino, che la capacità di vita autonoma delle persone con disabilità intellettiva può essere fortemente incrementata in età adulta tramite percorsi attivi che partano dalla prima infanzia. Il progetto VelA (oggi alla sua terza annualità) vede collaborare ricercatori, esperti, aziende sanitarie, consorzi gestori dei servizi, cooperative sociali, scuole, associazioni di volontariato e associazioni di genitori, in un grande sforzo collettivo di innovazione delle modalità di stimolo, trattamento e autonomizzazione di bambini, ragazzi e giovani adulti con disabilità intellettiva: un percorso comune complesso, non privo di asperità, ma entusiasmante per la generazione di cambiamenti che sta suscitando.
Percorsi come questi possono anche aiutare gli enti pubblici ad “allungare” la propria visione temporale, assumendosi quei rischi di maggiori costi nel breve, per perseguire maggiore efficienza ed efficacia nel lungo periodo.
La seconda sfida: il capacity building del Terzo Settore e gli investimenti a impatto
Vi è però un secondo ambito di azione che deve coinvolgere in misura crescente le fondazioni di origine bancaria, e che porta direttamente in primo piano il tema del capacity building degli Enti del Terzo Settore. E’ quello dell’utilizzo di strumenti di investimento per la generazione di impatto sociale positivo, e in particolare dell’investimento patrimoniale in imprese sociali, strategicamente “aperto” dalla recente riforma del Terzo Settore.
Il report “Social Impact Outlook 2018”, presentato proprio in questi giorni da Tiresia, il centro di ricerca del Politecnico di Milano guidato da Mario Calderini, descrive con chiarezza lo stato di questo nuovo spazio di lavoro: numeri ancora limitati di imprese sociali pienamente “investment ready”, appena 600 a livello nazionale, seguite però da alcune migliaia di altre che stanno “scaldando i motori”, e che devono essere aiutate a crescere come organizzazioni, come competenze, come capacità di affrontare i mercati in modo sostenibile. Ecco, allora, che i percorsi di sostegno, formazione, rafforzamento delle organizzazioni, auspicati nell’articolo di Carola, assumono una doppia valenza: quella di aiutare gli Enti del Terzo Settore a compiere sempre meglio il loro ruolo cruciale, e quella di porre le basi per una significativa immissione di investimenti negli stessi enti, leva fondamentale di crescita e consolidamento del settore.
Con una raccomandazione, opportunamente richiamata nelle conclusioni dell’incontro dal professor Giovanni Fosti: le fondazioni e gli altri enti finanziatori pubblici e privati si interroghino sul modello di sviluppo che “propongono” agli Enti del Terzo Settore, attraverso questi percorsi di capacity building: le nostre comunità hanno bisogno di più risposte sociali, di più coesione, di meno disuguaglianze: aiutiamo gli Enti del Terzo Settore a sviluppare modelli che, anziché creare nuove competizioni e nuove selezioni, favoriscano la collaborazione e l’integrazione, per il raggiungimento di questi obiettivi strategici.
Questo articolo è stato pubblicato il 15 aprile 2018 su Il Giornale delle Fondazioni, e qui riprodotto previo consenso dell’autore.