A partire da alcune progettualità sviluppate insieme in Sicilia da Fondazione Èbbene e Fondazione Milan, di seguito proponiamo alcune riflessioni sul ruolo educativo dello sport per contrastare fenomeni di esclusione legati all’aumento della povertà, che si è fatto particolarmente sostenuto nell’anno della pandemia.

La questione della povertà educativa e dell’equità

Ci sono terreni più complessi di altri e quello della povertà educativa è tra i più insidiosi. Questo perché ha a che fare con il futuro del Paese, con quella necessità di cambiamento avvertita e necessaria. È il campo dove troppi dati ci spingono a pensare che oltre ai progetti (tanti) serve attivare processi (ancora pochi).

Un minimo comun denominatore attraversa le tante ricerche che ci sono state proposte nel primo semestre 2021: cresce la povertà minorile; si evidenzia la difficoltà di tanti bambini nell’accesso a percorsi di istruzione; ancor più limitata è la possibilità per molti bambini di impegnarsi in percorsi integrativi, extrascolastici; si allarga la forbice tra Nord e Sud dell’Italia, ma anche nelle stesse città tra “quartieri di periferia” e zone residenziali.

Siamo quindi davanti a una delle principali emergenze del nostro Paese. Questa è fonte di squilibri sempre più forti e disuguaglianze sempre più ampie tra cittadini. È un muro che troppo spesso appare invalicabile, che nega un accesso qualificato al mondo del lavoro a tanti giovani che, di fatto, non hanno la possibilità di costruire il loro futuro alla pari di molti loro coetanei.

Nessuna battaglia solitaria

Le emergenze, soprattutto quelle di questa portata necessitano di intese, coordinazione, alleanze culturali, sociali e territoriali che mettano insieme le migliori energie per il miglior risultato.

Così è nata la collaborazione prima, e l’alleanza poi, tra Fondazione Èbbene e Fondazione Milan: dalla consapevolezza che un percorso di equità per i bambini avesse prima di tutto bisogno di visioni e strumenti complementari racchiusi in processi sinergici.

Un’alleanza che racconta un modo di agire diverso, certamente contemporaneo, della filantropia istituzionale, che bypassa la logica del contributo al progetto approdando alla costruzione condivisa di infrastrutture sociali che sostengano lo sviluppo delle comunità. È un terreno in cui la scelta è quella di condividere la missione oltre che lo scopo ma soprattutto di dar vita a sviluppi che nelle comunità generino cambiamenti, anche alla fine dei progetti finanziati.

Un’azione corale basata però sulle competenze. Da un lato Fondazione Èbbene con i suoi centri di prossimità e il suo approccio consolidato per contrastare la povertà, dall’altro Fondazione Milan con la sua competenza nell’utilizzo dello sport come strumento di azzeramento delle disuguaglianze. Due esperienze che si sono trasformate in un intervento coeso che ha portato in Sicilia, nel ragusano prima e nel cuore di Catania poi, ad accompagnare “squadre” di ragazzini a riscoprire il valore del loro talento, delle regole, del rispetto dell’altro. Ma soprattutto a sentirsi uguali.

I quartieri e il bisogno di biosocialità

Anche nel terreno del contrasto alle povertà occorre partire dai bisogni, andando a individuarli dove la richiesta è più forte, dove l’intervento può essere determinante. Così nasce la scelta di agire in un quartiere difficile della Città di Catania, San Cristoforo. Un microcosmo sociale ed economico dove criminalità e povertà si respirano tra i vicoli, dove la segregazione sociale e il mancato riconoscimento delle istituzioni sono fatti scontato. Un contesto simile a molte periferie delle grandi città italiane, dove, non a caso, si concentra il più alto tasso di abbandono scolastico.

Abbiamo deciso di partire da qui, dove le relazioni sono perlopiù conflittuali, dove il tema della mancanza di spazi di aggregazione e di proposte sociali è particolarmente forte e accanto all’assenza di infrastrutture fisiche dedicate alla socialità è evidente l’assenza di relazioni comunitarie.

Scegliere di lavorare nei quartieri, questo come tanti altri, significa per le nostre Fondazioni intervenire dove si respira l’assenza di regole sociali, di relazioni positive. È nei quartieri periferici, quelli della marginalità, che serve costruire occasioni di relazionalità generativa, che consentano lo scambio tra persone.

In questi spazi non basta costruire opportunità tradizionali di socialità, di semplice aggregazione, serve costruire occasioni di biosocialità, di interrelazione viva, che non si limitino a metter insieme un determinato numero di bambini o ragazzi, ma che creino tra quei ragazzi relazione costruendo qualcosa in più della socialità, quella che è utile definire prossimità.

Chiaro è che davanti a bisogni complessi, come quelli dei quartieri delle grandi periferie, ci sono risposte necessariamente articolate che mettono insieme attività con le persone e attività con il territorio, percorsi di accompagnamento ma anche di infrastrutturazione.

Lo sport come processo

Se quello di una socialità consapevole, fatta di regole e relazioni è l’obiettivo da raggiungere, lo sport si è adattato presto ad essere strumento.

Tradizionalmente all’attività sportiva è riconosciuta una formidabile forza di coesione e socialità, oltre alla capacità di sviluppo fisico e mentale da mantenere attiva in tutte le età della vita, ma oggi (ed è la buona notizia!)  si sta velocemente accreditando un piano di riconoscimento ulteriore, quello del ruolo educativo e inclusivo dello sport. Èun’evidenza tanto scientifica quanto esperienziale, tangibile soprattutto sui più giovani. Chi lavora a stretto contatto con i bambini e giovani e osserva la facilità con cui lo sport accelera dei processi che altrimenti necessitano di tempo e fatica per mostrare i loro frutti.

Un linguaggio universale, lo sport, che all’interno di una squadra crea sistemi di relazione positiva, mai immuni da derive conflittuali ma certamente orientati alla loro risoluzione e cioè la vittoria… il risultato comune. Un percorso per cui l’obiettivo non è la sconfitta dell’altro ma la propria vittoria, con un po’ di sano divertimento. Il tutto avviene tramite l’esercizio di quel diritto al gioco che in alcuni contesti non è scontato.

E il gioco sportivo nell’esperienza tra Fondazione Milan e Fondazione Èbbene ha costituto qualcosa di più di uno strumento all’interno di un progetto. Lo sport ha dato vita a un vero e proprio processo di avanzamento progressivo dei ragazzi nella loro educazione al rispetto dell’altro, dei luoghi, delle regole di gioco prima e di vita poi.

Up&Down

L’offerta di una proposta educativa e sportiva per i ragazzi del quartiere San Cristoforo, l’ultima delle esperienze realizzata insieme tra Fondazione Milan ed Èbbene si è costellata di risultati positivi, senza essere immune però da alcuni problemi.

Lo spazio

Al quartiere resterà in dote un campetto nuovo, all’interno di uno spazio aggregativo che gli operatori chiedono ai ragazzi coinvolti di “custodire”, di far proprio. La costruzione di occasioni di incontro che dessero vita a legami sociali vivi. Questo si è innestato quindi in uno spazio rinnovato e messo a disposizione di iniziative educative a favore dei bambini e dei giovani.

Le famiglie

In molti casi abbiamo visto ricostruirsi legami familiari attraverso attività come una partita che nel tempo sono state riconosciute dai genitori come utili e significative per i loro figli.

Le regole della diversità

I ragazzi coinvolti hanno avuto l’opportunità di crescere insieme imparando il rispetto delle regole e dell’altro, venendo a contato con la diversità e osservando come si possa costruire una relazione autentica e di reciprocità che diventa ricchezza. In campo i ragazzi, con alle spalle storie difficili, in condizioni di povertà educativa e materiale si sono misurati con il loro talento. Questo ha consentito loro di scoprire la possibilità di coltivare le loro capacità.

La fuga

Questi primi mesi sono stati l’inizio di un cammino, non privo di difficoltà. Mantenere agganciati i ragazzi in un rapporto di lungo periodo, che prevede anche il non abbandono del percorso è certamente una sfida. Uno dei fallimenti arriva proprio quando il ragazzo non torna o ritorna con spirito distruttivo, con l’obiettivo di bloccare quel percorso da cui fugge. Un’evasione che, forse prima, è stata succeduta dalla fuga scolastica.

La fatica

La difficoltà più grande è stata trovare e inserire capitale umano e professionale che risponda a tutte le vocazioni di queste progettualità. Competenze sportive, educative, pedagogiche. Capacità di misurarsi con la “legge del più forte” che spesso predomina nei quartieri conquistando autorevolezza e rispetto, capacità di dialogo con i ragazzi. Quando ciò non è accaduto nel corso dei mesi è servito misurarsi con un turnover forzato, che ha complicato l’assestamento delle attività.

La vocazione al cambiamento, alla trasformazione

Le storie dei ragazzi, gli sguardi dei familiari e le sfide degli operatori ci dicono che stiamo andando nella giusta direzione. Il talento di ciascun ragazzo è impaziente di esprimersi. La fatica del lavoro di ogni giorno sta proprio nel cercare di dare l’opportunità di scoprirlo e metterlo a frutto. È la vocazione al cambiamento, alla trasformazione il dato che va letto in questa come in altre esperienze similari.

È un’alleanza di senso quella vissuta insieme in Sicilia che ha lanciato semi per azioni nuove e comuni. La fotografia di un modo meno immediato ma certamente più produttivo di esercitare la filantropia. Tutto partendo da un linguaggio semplice come quello del gioco, ripensando al reale contributo che organizzazioni come Èbbene e Fondazione Milan possono offrire.

Qui la partita non è più – o non solo – quella di pensare buone attività e metterle bene in pratica ma si tratta di ripensare l’intero contesto che le accoglie, stimolando la riorganizzazione degli spazi pubblici o aperti al pubblico, di rivitalizzare la sinergia programmatoria con le Istituzioni, valorizzare il protagonismo del privato sociale che costruisce comunità dove c’è unicamente vicinanza.

È la riscoperta della semplicità, quella del gioco, nella complessità dell’accompagnamento di un ragazzo. Si tratta di una visione dello sport come bene comune. È ripetibile, replicabile, quindi durevole e, ad oggi, crediamo efficace.

Foto di copertina: Inaugurazione di "Sport for All" al quartiere San Cristoforo, progetto di Fondazione Ebbene e Fondazione Milan.