Il 17 maggio 2019 sono stati celebrati i vent’anni dalla promulgazione della cosiddetta “Legge Ciampi”, che regolamenta l’attività delle Fondazioni di origine bancaria. Per celebrare la ricorrenza, Acri ha organizzato un convegno in cui sono intervenuti i rappresentanti delle istituzioni che hanno accompagnato alcuni dei passaggi più significativi della vita delle Fondazioni in questo arco temporale. In occasione della pubblicazione degli atti del convegno pubblichiamo – dopo il primo contributo di Alberto Quadrio Curzio – l’intervento integrale di Franco Bassanini, Presidente della Fondazione Astrid.
Anche a me è capitato di scrivere, alcuni anni fa, che la storia delle Fondazioni di origine bancaria può essere considerata una delle non molte storie di successo (success stories) che abbiamo conosciuto nel nostro Paese [1]. Nonostante qualche… incidente di percorso, non ho cambiato idea. Credo che lo si possa affermare ancora, con buone ragioni.
Quanto di questa esperienza di successo si possa far risalire a un consapevole e illuminato disegno di chi ha (prima) istituito le Fondazioni di origine bancaria, o le ha (poi) riformate e regolate, è sempre stato dubbio. Tra i padri della riforma, il primo, Giuliano Amato, è parso dapprima sorpreso dall’evoluzione della sua creatura, tanto che si auto-paragonò a Frankenstein generatore di mostri; in seguito, con il senno di poi, si è riconvertito a un giudizio alquanto più positivo [2]. Il secondo, Ciampi, ha seguito attentamente l’evoluzione delle Fondazioni, ma, forse anche per il suo carattere, ha evitato di esprimere valutazioni impegnative. Il terzo, parlo di Roberto Pinza, è stato fin dall’inizio vicino al mondo delle Fondazioni e ne ha condiviso il progetto, ed è dunque stato meno di altri sorpreso dalle vicende successive [3].
Quanto a me, io non ebbi nessuna parte nella fase genetica (legge Amato), ma la ebbi in seguito, nel corso della redazione di quella che poi divenne la legge Ciampi 461 del 1998 e il successivo decreto 153 del 1999 (che sono il punto di partenza del nostro incontro di oggi). In quanto Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ebbi infatti dal presidente D’Alema l’incarico di costruire un punto di mediazione fra i contrastanti orientamenti che dividevano sul punto i Ministri interessati (tra i quali c’era innanzitutto, ma non solo, Carlo Azeglio Ciampi). Anche nel mio caso, come in quello di Pinza, la diretta conoscenza dell’esperienza reale delle Fondazioni come si era fino ad allora sviluppata mi consentì di scommettere sulle potenzialità di queste allora ancor giovani creature. Ma, per l’appunto, era ormai già passato quasi un decennio dalla legge Amato.
L’eterogenesi dei fini ha dunque giocato un ruolo rilevante nella vicenda delle Fondazioni. Ma questo è vero, soprattutto, e forse soltanto, per il primo decennio. Ma poi la storia cambia: in tutto il successivo ventennio, dalla legge Ciampi ad oggi, è evidente che c’è stata l’influenza, se non la guida, di una persona che con visione lungimirante e sapiente, con tenacia e con abilità ha indirizzato l’evoluzione del sistema delle Fondazioni di origine bancaria verso approdi coerenti. Parlo, ovviamente, di Giuseppe Guzzetti. Se questa è stata una storia di successo, lo si deve in buona parte a lui. Ma ne parlerà tra poco lui stesso.
Perché la vicenda delle Fondazioni di origine bancaria può essere definita nel suo insieme, pur tra alti e bassi, una storia di successo? Se dovessi esporre molto rapidamente (e certo meno bene di quanto non abbia fatto poco fa Alberto Quadrio Curzio) le ragioni per cui io do questo giudizio, queste ragioni potrebbero essere in sintesi riassunte così.
Innanzitutto (prima ragione): perché il sistema delle Fondazioni di origine bancaria ha contribuito moltissimo a dotare il nostro Paese di un tessuto di istituzioni di promozione e di finanziamento di progetti e iniziative di solidarietà sociale e di utilità generale, perché ha rappresentato il robusto polmone dell’economia sociale, del non profit, delle iniziative della società civile. Questo polmone in Italia mancava del tutto. Oggi lo abbiamo: e così siamo divenuti ora un po’ più simili a quei grandi Paesi, prima di tutto gli Stati Uniti d’America, nei quali la Fondazioni svolgono da tempo un ruolo fondamentale nello sviluppo non solo delle attività filantropiche e del non profit, ma più in generale dell’economia della solidarietà.
Le Fondazioni hanno così avuto, come già ha ricordato Quadrio Curzio, un ruolo rilevante in settori strategici come la ricerca, l’innovazione, la formazione, la cultura, il welfare, la coesione sociale, le infrastrutture. Nel giro di venticinque anni, qualcuna più qualcuna meno, sono divenute fondamentali come promotrici di innovazione sociale e anche come catalizzatrici dello sviluppo locale in uno scenario – quello della competizione globale – che sempre più esalta il ruolo dei sistemi territoriali e ne fonda la crescita sull’azione sinergica di attori pubblici e privati, amministrazioni statali e locali, imprese e associazioni d’impresa, università ed enti di ricerca, terzo settore e non profit. Della società civile che opera autonomamente sul territorio per l’interesse generale, le Fondazioni sono diventate il principale volano, il più importante incubatore, il polmone finanziario, il motore insostituibile.
Un secondo motivo sta nella capacità dimostrata dalle Fondazioni (forse non da tutte, ma sicuramente da una buona parte tra esse e certamente dalle più importanti) di proporre e sperimentare forme innovative di filantropia, di welfare, di promozione della cultura: basti pensare all’importazione dell’esperienza, anche qui americana, delle community foundation, o ai progetti di welfare di prossimità e di comunità, o alla sperimentazione e poi alla promozione del social housing (capace, quest’ultimo, di soddisfare in termini nuovi e moderni un bisogno qualitativamente diverso da quello a cui dava tradizionalmente risposta l’edilizia popolare, ma insieme capace anche di recuperare nuovi spazi alla stessa edilizia popolare, nella misura in cui offre uno strumento per spostare in strutture di migliore qualità abitativa famiglie che occupavano da anni, sovente obtorto collo, le case popolari).
Il terzo motivo è forse meno strutturale e più transeunte: ma è comunque certo che, nelle more della crescita e del consolidamento dei fondi pensione e dello sviluppo di altre forme di sostegno all’economia attraverso l’equity, le Fondazioni di origine bancaria hanno rappresentato un primo rimedio a quella cronica carenza di investitori istituzionali che tutt’ora rappresenta un handicap italiano rispetto a sistemi economico-finanziari più avanzati con i quali dobbiamo competere.
Vi è poi una quarta ragione che è stata più delle altre sotto i riflettori dei media e all’attenzione della politica, anche se non è a ben vedere la più importante (e perciò bene ha fatto Alberto Quadrio Curzio a trascurarla quasi completamente): il ruolo delle Fondazioni nella modernizzazione del sistema bancario italiano. La riforma Amato, istituendo le Fondazioni di origine bancaria, ha perseguito e in sostanza conseguito anche una serie di altri obiettivi, di per sé estranei al perimetro delle attività di utilità generale di cui ci siamo fin qui occupati: ha privatizzato le banche pubbliche, sottraendole alla brutale lottizzazione e spartizione fra i partiti che dominava negli anni Settanta e Ottanta, ha contribuito a restituire alla concorrenza e al mercato il settore del credito, e ha così consentito di avviare un processo di riorganizzazione e aggregazione volto ad attrezzare il sistema bancario italiano ad affrontare la competizione internazionale.
Se guardiamo indietro, il sistema bancario italiano ha attraversato un processo di liberalizzazione e privatizzazione, a partire dalla legge Amato, non diverso da quello che ha investito in quegli anni altri settore chiave dell’economia italiana, come le telecomunicazioni, la siderurgia, la chimica e l’elettronica: ma in tutti questi settori, pur strategici, l’Italia è però ormai oggi periferia dell’impero, e i campioni nazionali, che pure avevamo venti o trenta anni fa, sono stati travolti o colonizzati o caricati di pesanti indebitamenti. Se il settore del credito non è finito nelle mani di finanzieri d’assalto e di immobiliaristi spregiudicati, se non è stato tutto colonizzato da grandi banche straniere, se si è ristrutturato e consolidato, se ha espresso due banche di livello europeo, lo si deve in buona misura alle Fondazioni bancarie; lo si deve alla loro capacità di promuoverne e sostenerne i processi di ristrutturazione e aggregazione con la logica di azionisti aperti e lungimiranti, attenti ai risultati di lungo periodo più che ai profitti immediati. Sia pure, anche in tal caso, con qualche eccezione, la presenza nell’azionariato di molte banche di questo nocciolo duro di investitori di lungo termine – disposti a sostenere manager capaci nella costruzione e realizzazione di piani industriali di grande respiro – si è rivelata preziosa per il sistema creditizio italiano: gli ha consentito di evitare la ricerca esasperata di profitti speculativi e capital gain a breve mediante operazioni arrischiate di finanza creativa; gli ha permesso di sfuggire all’ossessione short-termistica, facendo leva su un azionariato interessato alla crescita e al consolidamento della banca; gli ha consentito – grazie al radicamento delle Fondazioni sul territorio – di conservare un rapporto vitale con i sistemi economici locali [4].
Non varrebbe obiettare che questo processo di consolidamento e ammodernamento ha subito negli anni più recenti qualche battuta d’arresto e più di un incidente di percorso. Si è trattato infatti, per lo più, dell’effetto di vicende non dipendenti dalla volontà o dai comportamenti delle Fondazioni. In primis una crisi economico-finanziaria mondiale di dimensioni impreviste e nuove regolazioni finanziarie internazionali non sempre ben calibrate nel merito e nei tempi.
Ma anche, e soprattutto per l’Italia: a) una recessione economica che ha colpito più duramente di altre un sistema bancario rimasto fedele al business model tradizionale (raccogliere risparmio e finanziare l’economia reale); b) procedure di recupero crediti ancora troppo lunghe, macchinose e defatiganti; c) una forte esposizione delle banche al rischio sovrano, accentuato dall’evidente difficoltà della politica di procedere in modo convincente su un percorso di fiscal consolidation. Tutti fattori che hanno duramente penalizzato il nostro sistema creditizio, colpendolo in un momento nel quale non aveva ancora potuto completare il processo di aggregazione e di rafforzamento dei propri capital ratio e nel quale restava esposto alla crisi di un’economia reale ancora dominata dal nanismo e dalla sottocapitalizzazione, che caratterizzano la maggioranza delle piccole e medie imprese italiane.
Si tratta, come è evidente, di fattori che non possono essere imputati alle Fondazioni di origine bancaria. Vale l’argomento a contrario: se le Fondazioni avessero invece lasciato libero il passo, negli scorsi vent’anni, agli hedge funds, agli immobiliaristi d’assalto, ai “furbetti del quartierino”, l’esito non sarebbe stato migliore, anzi sarebbe stato probabilmente molto peggiore, dato che l’investimento di lungo periodo non è certo nel DNA di chi mira ai capital gain mordi e fuggi.
Del resto, nessuno può ignorare che, nel pieno della crisi, molti autorevoli interventi di moral suasion furono effettuati nei confronti delle Fondazioni di origine bancaria perché non facessero mancare il loro appoggio alle operazioni di ricapitalizzazione delle banche italiane, necessarie per evitare gli effetti devastanti della crisi su un sistema creditizio, come quello italiano, che molto meno di altri aveva fatto (o potuto fare) ricorso, in quegli anni, a capitali pubblici.
Allora, con senso di responsabilità e quasi senza eccezione, le Fondazioni risposero positivamente a queste sollecitazioni, nonostante questo le costringesse a interrompere i processi di diversificazione dei loro asset patrimoniali avviati negli anni precedenti e le condannasse a subire le conseguenze, per un certo periodo, della ridotta redditività delle loro partecipazioni nelle banche conferitarie.
Tutte le storie di successo generano invidie, critiche, allarmi e tentativi di svalutazione. Si è scritto per anni che le Fondazioni bancarie erano la longa manus della politica nell’economia, o almeno della politica locale nell’economia locale [5]. Si è poi scritto che le Fondazioni, un tempo longa manus della politica, sarebbero invece diventate a un certo punto, grazie alla debolezza della politica, qualcosa di ancora più intollerabile in un Paese democratico: un potere autonomo e autoreferenziale [6], superiorem non recognoscens. Opinioni rispettabili, come tutte. Ma del tutto errata a me pare la convinzione che le ispira: che in una democrazia non debbano esistere istituzioni autonome dalla politica e dai partiti, espressione della società civile. Chi sostiene queste tesi è quasi sempre prigioniero di un pregiudizio culturale più o meno consapevolmente statalista, che nasce da un’idea dello Stato e della società estranea al nostro modello costituzionale.
Consentitemi di soffermarmi brevemente su questo punto. Come sapete le Fondazioni solo formalmente nascono con la legge Amato. La loro origine è molto più antica, sovente pluricentenaria, nascono come Casse di Risparmio, Monti di Pietà e quant’altro, espressione della società civile, delle comunità locali, della generosità di filantropi o mecenati, di iniziative di solidarietà, religiose o laiche. Sulla rigogliosa foresta di queste istituzioni della società civile si abbatté, nel 1888, una legge Crispi che le statalizzò, espressione – al pari della legge Crispi del 1890 che pubblicizzò le Opere Pie – di un’avversione o almeno di una diffidenza ideologica nei confronti della libera organizzazione della società civile: un’avversione o una diffidenza proprie dell’individualismo liberale ottocentesco, ma condivise poi dallo statalismo di derivazione marxista. La Costituzione Italiana del ’48, invece, rivalutò il ruolo delle comunità intermedie: l’articolo 2, l’articolo 5 e l’articolo 118 (più chiaramente nel nuovo testo del 2001, ma anche nella formulazione originaria) muovono tutti dall’idea di una società che non può essere né solo Stato, né solo mercato, ma è anche comunità intermedie, pluralismo sociale, terzo settore.
La Costituzione sceglie dunque un diverso modello: un modello di democrazia liberale, pluralista, personalista e comunitaria; nella quale, tra lo Stato e l’individuo, c’è una fitta trama di formazioni sociali “ove si svolge la sua personalità”, titolari, anch’esse, di diritti inviolabili preesistenti alla volontà dello Stato, allo stesso titolo dei diritti riconosciuti alle singole persone umane (sussidiarietà orizzontale). E nella quale la stessa sovranità dello Stato si articola e si distribuisce fra più livelli istituzionali, ciascuno espressione dell’autonomia e dell’autogoverno delle diverse comunità territoriali (comunale, regionale, statale e, ora, europea), tutte componenti essenziali della Repubblica (sussidiarietà verticale).
Non mi soffermo su questo punto, rinviando a quanto ho scritto in altre sedi [7] (e ancor più a quanto hanno scritto al riguardo autorevoli maestri del diritto pubblico come Tosato, Mortati, Esposito e Benvenuti [8]). Ma vorrei sottolineare che questo modello è molto più ricco e più articolato del modello individualistico-statalistico, proprio del vecchio Stato liberale, nel quale avevano diritto di cittadinanza solo lo Stato, visto come unico tutore e garante degli interessi generali e collettivi, e i singoli individui (che possono bensì associarsi tra loro nell’impresa capitalistica ma essenzialmente per la ricerca del profitto); ed è molto più ricco ed articolato anche del modello marxista, ugualmente diffidente verso le comunità intermedie, ad eccezione del partito di massa e del sindacato dei lavoratori intesi come organismi collettivi di tutela degli interessi dei lavoratori (la parte più debole della società). Si trattava in realtà di due varianti, la liberale e la marxista, di un modello oscillante tra uno Stato invadente e burocratico e un mercato senza responsabilità sociale. La scelta costituzionale per il modello della democrazia pluralista e comunitaria – pur limpida e coerente – stentò molto a passare nella legislazione e nel funzionamento delle istituzioni pubbliche, ancora per lungo tempo dominate dalla cultura liberal-statalista o statalista-collettivistica (a partire dai corpi tecnico-giuridici che scrivono le leggi e poi le interpretano – penso al Consiglio di Stato, alla Corte dei Conti, alla Magistratura).
Negli ultimi due decenni del secolo scorso, molte cose sono tuttavia cambiate, e sono cambiati anche l’ordinamento e le istituzioni italiane. La riforma dell’amministrazione varata nel ’97 assume testualmente a base di una generale riorganizzazione degli apparati pubblici – ancorché attuata poi solo parzialmente – i principi di sussidiarietà orizzontale e di sussidiarietà verticale [9]; e anche la connessione tra i due principi, tra le due dimensioni della sussidiarietà (Quadrio Curzio ne ha sottolineato poco fa l’importanza), viene in quella riforma correttamente declinata [10]. Molte di queste innovazioni non sono sopravvissute alle resistenze burocratiche, all’alternarsi delle maggioranze politiche e alle oscillazioni programmatiche che hanno caratterizzato le disomogenee coalizioni politiche della c.d. Seconda Repubblica [11].
Ma quel che resta basta a segnare una svolta, rafforzata da altre riforme convergenti nella stessa direzione. La riforma delle Camere di Commercio (1997), trasformate in enti dotati di autonomia funzionale, organizzati sulla base del principio di autogoverno democratico delle imprese del territorio è una di queste. Perfino le due riforme crispine sopra ricordate, emblema dello statalismo liberale, vengono smantellate, l’una per via giurisprudenziale, con la sentenza della Corte costituzionale che restituisce alle Opere Pie la loro originaria natura privatistica [12], l’altra per via legislativa, con la trasformazione delle Casse di Risparmio e dei Monti di Pietà in Fondazioni di origine bancaria, anch’esse di natura privatistica, in quanto “soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali” [13].
Ponendo le une e le altre (così come le Casse di previdenza dei professionisti [14]) sotto l’usbergo delle garanzie costituzionali che tutelano l’autonomia dei privati, si restituisce così autonomia a soggetti “intermedi” della società civile capaci di alimentarne iniziative “sussidiarie” di interesse generale con risorse non governate direttamente dal circuito partitico-istituzionale [15].
Nel 2001, con la riforma del Titolo V, il principio di sussidiarietà viene testualmente menzionato nel testo della Costituzione. Esso non ridefinisce solo l’architettura del sistema amministrativo (sussidiarietà verticale), ma impone anche di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati per lo svolgimento di attività di interesse generale. Si registrano molti altri segnali convergenti: come i processi di liberalizzazione e privatizzazione, che restituiscono alla libera iniziativa dei privati molti settori dell’economia; come l’istituzione delle autorità indipendenti, organismi di regolazione e garanzia del mercato autonomi dal potere politico; come il riconoscimento e la valorizzazione delle autonomie funzionali (le già citate Camere di Commercio, strumenti di autogoverno delle categorie produttive, le Casse di previdenza, autogestite dai professionisti, l’autonomia universitaria, espressione della libertà della scienza e della ricerca, l’autonomia scolastica, espressione dell’autonomia della comunità dei docenti, dei discenti e delle loro famiglie); come il 5 per mille introdotto da Tremonti.
Non mancano, certo, anche segnali contrastanti, ambiguità e contraddizioni. Ricordo, solo per citare qualche esempio: i reiterati tentativi di mettere le mani dei partiti e della politica sulle Fondazioni bancarie, respinti con fermezza e sagacia dall’Acri guidata da Guzzetti; gli analoghi tentativi di limitare l’autonomia delle Autorità indipendenti; la battaglia di retroguardia della burocrazia di viale Trastevere contro l’autonomia scolastica; il tentativo di sopprimere le Camere di Commercio (poi opportunamente sostituito da una riforma che ne ha ridotto il numero, ridefinito le funzioni e ridotto le entrate); i reiterati tentativi di sottoporre le Casse di previdenza dei professionisti a stringenti interventi di direzione e di controllo pubblico e la pretesa di sottoporle alla disciplina dei contratti pubblici o ai vincoli e obiettivi della cosiddetta spending review; il ricorso diffuso (a destra come a sinistra) a pratiche di spoil system in violazione dei principi di imparzialità e buon andamento delle amministrazioni pubbliche e di distinzione fra politica e amministrazione; le incerte applicazioni della nuova disposizione costituzionale (art. 118 u.c.) sul favor per il terzo settore in applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale; e, ancora per ciò che concerne le Fondazioni, la modifica in peius di un regime fiscale che, lungi dal rappresentare un privilegio, era la conseguenza naturale del riconoscimento della loro natura di enti non profit e della destinazione a finalità di interesse generale dei proventi della gestione del loro patrimonio.
Le accennate resistenze della vecchia cultura statalistica appaiono ancor più anacronistiche e indifendibili, se le guardiamo alla luce dei mutamenti profondi intervenuti negli ultimi anni nello scenario globale, nel quale le Fondazioni operano; mutamenti che, peraltro, rendono sempre più importante, ma anche più difficile e complesso, il ruolo che le Fondazioni sono chiamate a svolgere.
Come tutti sappiamo, le democrazie europee devono oggi affrontare grandi sfide, che non erano ancora percepibili all’epoca della legge Amato, e che appena cominciavano a delinearsi all’epoca della legge Ciampi: parlo, ovviamente, della globalizzazione, della rivoluzione digitale, dell’innovazione tecnologica (Intelligenza Artificiale, robotica, biotecnologie), del terrorismo globale, del cambiamento climatico, dell’invecchiamento della popolazione; e, ancora, dell’emergere sui mercati mondiali di nuove formidabili potenze economiche, dei grandi flussi migratori, dei problemi della convivenza multietnica e multiculturale, della domanda di nuovi diritti e di nuove libertà, della crescente richiesta di sicurezza, della segmentazione della società e della diversificazione dei bisogni e delle domande sociali.
La globalizzazione e la rivoluzione tecnologica offrono grandi opportunità di crescita e progresso, ma producono anche, specie nelle economie mature, nuove povertà e nuove emarginazioni, crescenti disuguaglianze, impoverimento delle classi medie. Le logiche della competizione globale sottopongono i bilanci pubblici a stress drammaticamente crescenti. In Europa l’appartenenza all’unione monetaria e i vincoli del patto di stabilità, ma anche le regole dei mercati internazionali, impediscono il ricorso a svalutazioni competitive. È così sempre più difficile conciliare l’alto livello di protezione sociale, di tutela dei diritti e di qualità della vita, che è propria dei paesi dell’Europa occidentale, con l’esigenza della competizione globale, con la domanda di nuovi diritti e di nuove sicurezze, con i vincoli del patto di stabilità europeo. Lo Stato non ce la fa e non ce la può fare senza un ampio ricorso alla mobilitazione delle risorse della società civile, del territorio e delle comunità intermedie e senza una forte partnership con il privato e con il non profit: non ce la può fare senza la sussidiarietà orizzontale. Le comunità intermedie, le autonomie funzionali e il terzo settore possono arrivare dove lo Stato non arriva, integrare e diversificare i beni e servizi prodotti dalla mano pubblica, o anche produrli per loro conto in diversi ambiti, assicurando non di rado un miglior rapporto tra benefici e costi, un migliore adattamento alla varietà e complessità delle domande sociali.
Le Fondazioni bancarie hanno in questo scenario un ruolo strategico. Beninteso, il terzo settore deve essere visto come una decisiva marcia in più, non deve diventare un alibi o una protesi dell’inefficienza degli altri due [16]. Se Stato e mercato da soli non ce la fanno senza l’apporto del terzo settore, va detto che anche il terzo settore ha bisogno di uno Stato moderno ed efficiente e di un settore privato dinamico e competitivo. Il riconoscimento e la valorizzazione del ruolo del terzo settore non possono certo esimere dall’affrontare i problemi dell’efficienza e della competitività del settore privato, dunque della apertura dei mercati alla concorrenza, di una loro efficace regolazione, della creazione di condizioni favorevoli alla crescita economica e agli investimenti, del miglioramento del sistema formativo e della ricerca scientifica, della dotazione di infrastrutture materiali e immateriali. Per altro verso, riconoscere il ruolo determinante del terzo settore, non significa rinunciare ad organizzare in modo efficace lo Stato e i servizi pubblici, ad affrontare dunque i problemi della efficienza e della produttività delle pubbliche amministrazioni e i problemi dell’ammodernamento del sistema istituzionale. Ma altro è affrontarli partendo dal modello della Repubblica della sussidiarietà, altro è farlo secondo una logica statalista e burocratica. Nel solco della sussidiarietà, lo Stato e le istituzioni debbono innanzitutto stabilire le regole, garantire la loro imparziale e corretta applicazione; e poi offrire servizi e liberare energie; promuovere le iniziative dei singoli e delle comunità intermedie; e dunque riconoscere al terzo settore e all’economia sociale una dignità e un ruolo non inferiori a quelli degli altri due settori. E così, per esempio, il welfare di prossimità o di comunità, su cui ha sempre posto l’accetto Guzzetti, non è un sistema nel quale le istituzioni pubbliche rinunciano alla loro responsabilità sul terreno delle politiche sociali, ma nel quale alla tutela dei diritti sociali concorrono in un rapporto di sussidiarietà tanto le istituzioni pubbliche quanto le comunità intermedie o le libere espressione delle libertà sociali, le Fondazioni in primis. La funzione sussidiaria di queste ultime diventa tanto più preziosa quanto più la crisi fiscale dello Stato, riducendo le risorse pubbliche disponibili, rende essenziali l’azione, l’intervento in sussidiarietà, il sostegno delle Fondazioni, anche quando è giocoforza ridurre le erogazioni come è avvenuto negli anni della crisi. Contrasto alla povertà educativa dei bambini e dei ragazzi e assistenza agli anziani diventano per le Fondazioni una priorità, sottolineata negli ultimi anni da Guzzetti con accenti di grande passione etica e civile. Ma aumenta conseguentemente la difficoltà e la delicatezza delle scelte che le Fondazioni sono chiamate a fare, in una situazione in cui cresce il divario fra le risorse disponibili e i bisogni sociali ai quali occorre dare una risposta.
Prima di concludere occorre accennare a un ultimo elemento del nuovo scenario. In questi ultimi anni, il vero ostacolo all’attuazione del modello costituzionale di una democrazia liberale, pluralista, personalista e comunitaria è un ostacolo cultural-politico-istituzionale. E’ l’affermarsi – dietro il paravento di una rivendicazione della sovranità del popolo e del primato della politica – della cultura e della pratica della disintermediazione politica [17]; è la deriva verso un modello giacobino di democrazia immediata, centralizzata e plebiscitaria, vagamente ispirato al pensiero di Rousseau, e basato sul rapporto diretto tra il leader e i suoi seguaci, sulla concezione del popolo sovrano come un insieme atomistico di individui, sulla delegittimazione dei corpi intermedi e sul ridimensionamento del loro ruolo, sul rifiuto dei limiti costituzionali, sulla rivendicazione della prevalenza della politica sulla libertà del mercato e sulla stessa autonomia delle autorità preposte alla sua regolazione. È il vero nemico, se non l’antitesi del principio di sussidiarietà. Nasce, in Occidente, e con aspetti peculiari in Italia, come risposta alla crisi di legittimazione e di consenso delle istituzioni rappresentative e dei partiti ideologici tradizionali, dopo il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda. Sfrutta in molti paesi – in primis l’Italia – la protesta nei confronti di un ceto politico permeato da pratiche corruttive e scarsamente attento alla qualità dei servizi e delle prestazioni pubbliche. Trova un ideale terreno di coltura nelle nuove forme di comunicazione politica, prima veicolate dai media televisivi e poi dai social network.
Si alimenta delle disuguaglianze, dei timori, del disagio sociale e conseguentemente della protesta, generata dalla crisi finanziaria e dalla recessione economica e poi esasperata dalla globalizzazione, dalla rivoluzione tecnologica e dalle immigrazioni continentali. Si diffonde tra i loosers, tra i perdenti della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica, fra i più esposti all’impoverimento delle classi medie e alle reazioni identitarie di fronte alle migrazioni di massa.
Nell’ottica della disintermediazione politica, la sovranità popolare si esprime e di fatto si esaurisce nella scelta del leader, al quale l’elettorato trasferisce una delega incondizionata a esercitare i poteri pubblici al di fuori di qualsivoglia vincolo o limite. In nome della volontà popolare espressa nell’investitura del leader, i contrappesi previsti dalle Costituzioni liberali sono travolti fino ad affrancare gli eletti dal limite della stessa legalità costituzionale. Divisione dei poteri, checks and balances costituzionali, istituzioni di garanzia, autorità indipendenti di regolazione o di vigilanza sono viste come un intralcio all’attuazione delle scelte politiche volute dal popolo sovrano (e sono non di rado contestate e delegittimate in quanto “non elette”).
La complessità delle forme e degli strumenti di partecipazione propria delle democrazie moderne si riduce alla adesione atomistica alle scelte del leader, a loro volta attentamente calibrate e sapientemente comunicate in modo da favorire l’”effetto gregge”. Le autonomie territoriali, le autonomie funzionali, le organizzazioni sindacali e di categoria, le organizzazioni di volontariato, le associazioni culturali, i comitati di quartiere, i gruppi di interesse sono riconosciuti e accettati solo in quanto rinuncino a partecipare da protagonisti al processo di formazione delle scelte democratiche e si chiudano nell’autogestione di interessi settoriali. La crescita della cultura e della pratica di disintermediazione politica deve ritenersi inarrestabile? Io non lo credo, penso al contrario che la partita sia del tutto aperta. Ma penso anche che il terreno sul quale la partita sarà vinta e perduta è proprio quello della valorizzazione e del rilancio del ruolo delle comunità intermedie, oltre che delle autonomie territoriali, dunque sia quello dell’attuazione in concreto del principio di sussidiarietà. Non solo perché il pluralismo sociale e istituzionale è l’antitesi del centralismo plebiscitario; ma anche perché la valorizzazione e il rafforzamento del ruolo delle comunità intermedie sembra essere l’unico strumento subito disponibile per contrastare la principale motivazione profonda della deriva plebiscitaria e populista: che è la sensazione largamente diffusa che la globalizzazione, la rivoluzione tecnologica, le grandi migrazioni e l’affermarsi di poteri sovranazionali – i mercati, la finanza globale, le agenzie di rating – abbiano sottratto ai cittadini il controllo sulle scelte dalle quali dipende il loro futuro; e che dunque l’unica possibilità to take back the control sia quella di delegare i poteri a un capo che possa in qualche modo decidere per noi. Riattivare l’autonomia delle comunità intermedie (e anche l’autogoverno di prossimità) può aiutare a comprendere che è viceversa possibile riprendere il controllo di quelle scelte.
È possibile riprenderlo attraverso la gestione dal basso, secondo il principio di sussidiarietà, di molti servizi e interventi di interesse generale; è possibile riprenderlo mediante la partecipazione democratica ai livelli decisionali di comunità attraverso i quali alcune di quelle scelte possono essere direttamente compiute; o attraverso i quali sulle altre scelte si può comunque influire, se si riattiva la cultura della mediazione e del dialogo sociale e istituzionale.
Ma questo ruolo le Fondazioni lo possono svolgere solo se sono esse stesse un modello di gestione partecipata, democratica e trasparente. Di qui la scelta di Guzzetti – ancora una volta rigorosa e lungimirante – di promuovere il protocollo d’intesa fra l’ACRI e il Ministero dell’Economia e delle Finanze sulla governance delle Fondazioni e sulla loro gestione patrimoniale e finanziaria e poi di guidarne con determinazione la attuazione. Non si è trattato – a me pare – di una scelta meramente difensiva, volta a evitare interventi non concordati e non ben calibrati dal potere politico sull’autonomia delle Fondazioni; ma di una scelta intesa innanzitutto ad auto-vincolare le Fondazioni di origine bancaria a seguire regole di trasparenza, di democraticità, di buona e corretta gestione, e dunque a rappresentare un modello positivo per l’intera società civile di cui promuovono l’iniziativa, il protagonismo sociale e democratico.
Il miglior modo per ringraziare e onorare come merita Beppe Guzzetti a me pare proprio questo. Proseguire con determinazione sulla strada da lui indicata e da lui per vent’anni coerentemente percorsa, nonostante mille difficoltà e resistenze. Seguire il suo insegnamento e il suo esempio: sul versante della rigorosa, trasparente, efficiente e democratica governance e gestione delle Fondazioni; come anche sul versante del proseguimento e del potenziamento della loro missione: di motore e polmone del mondo della solidarietà; di contrasto alle disuguaglianze, all’emarginazione, alla povertà; di diffusione e arricchimento delle esperienze positive di comunità; di promotrici e tessitrici di esercizi di partecipazione e di democrazia.
Note
[1] L’autoreferenzialità delle Fondazioni bancarie, tra politica, mercato e comunità intermedie, intervento svolto al Convegno su Le Fondazioni bancarie, quale spazio fra mercato e politica? organizzato a Torino dalla Associazione delle Fondazioni delle Casse di risparmio piemontesi il 29 ottobre 2007, in Astrid Rassegna.
[2] Cfr. per es. G. AMATO, Il modello delle Fondazioni bancarie, in Europa, 12 maggio 2007.
[3] V. per es.: R. PINZA, Le Fondazioni: sono elementi di modernità, in Corriere Economia, 22 ottobre 2007.
[4] Per maggiori elementi rinvio a F. BASSANINI, Le Fondazioni bancarie nell’economia sociale di mercato, Relazione tenuta al XXII Congresso nazionale dell’ACRI , Palermo, 7-8 giugno 2012, ora in Astrid Rassegna, n.5/2013.
[5] Tra i molti F. DE BENEDETTI, Sul problema delle fondazioni bancarie, , in Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2002; F. GIAVAZZI, La politica e le fondazioni, in Corriere della sera, 12 maggio 2007.
[6] Ancora, tra i molti: D. MASCIANDARO, Occasione mancata per modernizzare le regole societarie, in Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2006; F. DE BENEDETTI, Troppi favori alla politica , in Corriere Economia, 22 ottobre 2007.
[7] V. per es.: La Repubblica della sussidiarietà. Riflessioni sugli Artt. 114 e 118 della Costituzione, in Astrid Rassegna, n.12/2007; e anche Il quadro costituzionale: l’equiordinazione fra Stato e istituzioni territoriali e il principio di sussidiarietà, in VV.AA., I controlli sulle autonomie nel nuovo quadro istituzionale, Milano, Giuffré, 2008; e da ultimo La democrazia di fronte alla sfida della dsintermediazione: il ruolo delle comunità intermedie e delle autonomie territoriali, in Astrid Rassegna, n. 6/2019.
[8] E. TOSATO, Sul principio di sussidiarietà dell’intervento statale, in Nuova Antologia, 1959 ripubblicato in Persona, società intermedie e Stato, Milano, 1989, pp.83 ss.; F. BENVENUTI, L’ordinamento repubblicano, Padova 1996, p. 49; C. ESPOSITO, Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’art. 5 della Costituzione, in La Costituzione italiana, Padova 1954, p. 69 e 83; U. DE SIERVO, Scelte e confronti costituzionali nel periodo costituente. Il progetto democratico cristiano e le altre proposte, in Jus, 1979, pagg.16 ss.; C. MORTATI, Istituzioni di Diritto pubblico, Padova, IX ed., vol.I, pagg. 157 segg.
[9] A. D’ATENA, Costituzione e principio di sussidiarietà, in Quaderni costituzionali, 2001.
[10] Cfr. F. BASSANINI, Twenty years of Administrative Reform in Italy, in Review of Economic Conditions in Italy, 2009, n. 3.
[11] Per maggiori elementi rinvio a F. BASSANINI, L’amministrazione pubblica in Italia: riforma fallita, riforma fallita, riforma incompiuta? in Astrid Rassegna, n. 17/2018.
[12] Corte Costituzionale, sentenza n. 396 del 1988, rel. Caianiello.
[13] Corte Costituzionale, sentenza n. 300 del 2003, rel. Zagrebelsky.
[14] Per maggiori elementi rinvio a F. BASSANINI, Le casse di previdenza nel contesto della evoluzione della forma dello Stato, in Astrid Rassegna, n. 15/2017.
[15] Per maggiori approfondimenti sul punto, rinvio a F. BASSANINI, Le Fondazioni di origine bancaria, il sistema creditizio e la Repubblica della sussidiarietà, in Astrid Rassegna, n. 15/2006.
[16] Per più ampie riflessioni sul punto rinvio alla mia Postfazione, in ASTRID, Dove lo Stato non arriva. Pubblica amministrazione e Terzo settore, a cura di C. Cittadino, Firenze 2008, pagg. 353-376.
[17] Vedi per es. C. CROUCH, Postdemocrazia, Laterza 2003; M. CALISE, La democrazia dei leader, Laterza 2016, e da ultimo, F. BASSANINI, La democrazia di fronte alla sfida della disintermediazione: il ruolo delle comunità intermedie e delle autonomie territoriali, in ASTRID-CRANEC, Il mostro effimero. Democrazia, economia e corpi intermedi, a cura di F. Bassanini, F. Cerniglia, F. Pizzolato, A. Quadrio Curzio e L. Vandelli, il Mulino, 2019.