Milioni di euro, se non miliardi. Siamo ormai abituati agli annunci, quasi a cadenza quotidiana, sugli stanziamenti di risorse sia finanziarie che a fondo perduto a favore delle imprese per far fronte alla crisi economica scatenata dalla pandemia. Anzi, forse, meglio dire amplificata da questo evento, visto che in molti casi si tratta di problematiche di medio periodo legate alle trasformazioni della domanda e degli assetti di mercato rispetto alle quali permane una resistenza, soprattutto nel nostro Paese, a intervenire sui modelli organizzativi e di business e sulle competenze e motivazioni delle compagini imprenditoriali.

L’impresa sociale, da questo punto di vista, non rappresenta un’eccezione alla regola. Non c’è, in altri termini, nessun andamento anticiclico rispetto al resto dell’economia come si osservava nel corso della crisi del 2008, ma anzi è duramente investita da questo shock più di altri comparti, evidenziando, anche in questo caso, difficoltà di ordine strutturale e non solo contingenti. A puro titolo di esempio: la rigidità e scarsa performatività dei mercati pubblici, il posizionamento ancora fragile nei mercati privati, oltre al permanere di blocchi al cambiamento organizzativo che riguardano il pluricitato ma scarsamente agito ricambio generazionale e gli investimenti troppo timidi in innovazione tecnologica rispetto a quelli prevalenti ma poco trasformativi di natura immobiliare.

A fronte di questa situazione l’obiettivo è di fare presto, oltre che bene, non solo a stanziare ma anche a far giungere a destinazione le risorse, soprattutto se si tratta non di contributi una tantum (il famoso helicopter money), ma di finanziamenti. Questi ultimi richiedono infatti una maggiore e più veloce capacità valutativa per essere allocati a migliaia di organizzazioni di terzo settore e imprese sociali al fine di metterle in sicurezza e, a maggior ragione, farle ripartire.

A essere sollecitata in questa fase è quindi la rete distributiva, in particolare i vari intermediari – consorzi finanziari, consorzi fidi, reti imprenditoriali, società di consulenza, ecc. – che intendono facilitare l’incontro tra offerta (banche, fondi, investitori) e domanda (imprese sociali e altri enti di terzo settore). Si verificherà così, in questa fase di forte sollecitazione, se esiste o meno un ecosistema capace di veicolare le risorse e insieme accompagnare organizzazioni sociali che si trovano nel bel mezzo della loro prima crisi di sistema. Questa necessità di coordinamento è necessaria anche per far fronte a una politica pubblica che si è fin qui rivelata frammentaria su molteplici fronti non solo a livello di strategia – che non si è mai palesata nei fatti – ma anche a livello di scelte operative che hanno tradito una scarsa conoscenza tecnica del settore.

Basti pensare a come i provvedimenti governativi in materia finanziaria abbiano impattato negativamente sulle tipologie giuridiche frazionando l’impresa sociale dagli altri enti di terzo settore, lasciando così senza tutela importanti soggetti associativi e volontaristici che oltre a generare la gran parte delle entrate (54 dei 70 miliardi di tutto il comparto nonprofit) rappresentano in molti territori vere e proprie infrastrutture sociali (basti pensare alle fondazioni che gestiscono residenze, alle attività educative e scolastiche promosse dal variegato mondo degli enti religiosi).

Ma oltre ai necessari correttivi rispetto a questi errori di impostazione è necessario individuare le segmentazioni interne reali – ad esempio tra le Pmi e le grandi imprese sociali – il cui dimensionamento non può essere però solo valutato sulla base del numero dei dipendenti ma anche delle capacità operative, della struttura organizzativa, della propensione all’investimento e soprattutto dall’impatto generato su beneficiari e comunità.

Un bel banco di prova per le metriche di merito di credito e, in senso più ampio, di rendicontazione economica e sociale intorno alle quali ci si è confrontati negli ultimi anni. È probabile infatti che il riorientamento sulla missione e sulla qualità della strategia (intesa come produttoria fra le competenze e il valore del proprio ecosistema) dei soggetti che popolano la terra di mezzo fra stato e mercato produrrà una spinta al cambiamento dei modelli organizzativi con l’intento di renderli più densi di digitale e di funzioni capaci di abilitare una pluralità di risorse (in primis il co-investimento della comunità).

La responsabilità d’investimenti sistemici e a prova di futuro

Un’ulteriore attenzione sulla destinazione delle risorse riguarda non solo il fatto che raggiungano le organizzazioni ma vengano investite su attività in grado di produrre ricchezza economica e sociale in uno scenario che in molti ambiti appare totalmente mutato. Basta solo evocare i nomi di alcuni servizi tipici di queste organizzazioni per far capire la portata della trasformazione necessaria: case di riposo per anziani, servizi estivi e altri luoghi educativi, centri di produzione culturale. L’elenco potrebbe continuare ma quel che conta in questa fase è mobilitare risorse destinate a una ristrutturazione profonda dei modelli di produzione e distribuzione.

In questo scenario sarà decisiva un’azione sistemica e normativa che attraverso interventi di “seed moneye sconti fiscali per ricerca e sviluppo, possa favorire un’innovazione aperta non più derogabile, pena il rischio che molte organizzazioni magari messe in sicurezza nella prima fase con strumenti passivi come cassa integrazione e sospensione dei crediti, non riescano a “rimbalzare” nel nuovo assetto per incapacità e impossibilità di ridefinire la propria produzione, magari scovando asset che fino ad oggi erano solo parzialmente valorizzati. Senza questo ulteriore sforzo molte misure finanziarie rischiano l’effetto “ponte di Avignone”, con un troncone che si interrompe in mezzo al Rodano perché le altre campate, più volte distrutte, non sono state più ricostruite risultando così inservibile.


La necessità di nuove soluzioni e di ridurre la frammentazione degli interventi

In sintesi, la sfida è di consolidare e allineare tre stream di finanza.

Il primo consiste nelle diverse opportunità di finanziamento esistenti contenute nel “decreto liquidità” che ha potenziato l’accesso delle imprese al Fondo Centrale di Garanzia che potrà rilasciare alle banche garanzie fino al 100% dell’importo finanziato sia per piccoli prestiti fino a 25mila euro che la ristrutturazione dei finanziamenti in essere con garanzia fino all’80% alle banche e al 90% di riassicurazione di confidi, purché la banca eroghi una liquidità aggiuntiva non inferiore al 10% del finanziamento ristrutturato. Inoltre è prevista, sempre nello stesso decreto, la possibilità di accedere a nuovi finanziamenti per imprese con un fatturato fino a 3,2 milioni di euro e con meno di 500 dipendenti con garanzia del Fondo Centrale fino al 90% dell’importo finanziato, elevabile al 100% con garanzia aggiuntiva di un confidi. Tutti questi interventi sono però riservati, come si ricordava in precedenza, alle imprese iscritte al Registro delle imprese (come le imprese sociali) e a lavoratori autonomi e sono quindi esclusi gli enti del terzo settore e le associazioni del volontariato. Queste misure pubbliche si accompagnano anche a iniziative attivate grazie a protocolli dell’Associazione bancaria italiana (Abi), a proposte delle singole banche e agli strumenti di garanzia del movimento cooperativo (confidi).

Il secondo ambito riguarda la ristrutturazione di un’offerta finanziaria a debito dedicata e agevolata che riconosca meglio le peculiarità delle organizzazioni di terzo settore in questa particolare fase, magari rimettendo mano, come è già stato suggerito, al fondo pubblico per l’economia e l’impresa sociale pari a oltre 200 milioni di euro gestito da Invitalia e che, fino ad ora, è stato impiegato parzialmente.

Il terzo ambito nella finanza d’investimento dove l’apporto di capitale di rischio potrebbe essere arricchito di risorse contributive (il cosiddetto grant for equity) in modo da accelerare i processi di rilancio. Negli ultimi mesi sono nati, e nel prossimo futuro nasceranno, diversi veicoli di impact investing nel campo dell’imprenditoria sociale per cui sarà interessante verificare come si comporteranno: andranno ancora in ricerca di startup ad alta scalabilità e replicabilità o magari diversificheranno qualche loro investimento in imprese sociali che possono superare il post emergenza? E quali saranno le metriche e le aspettative sul rendimento che guideranno le scelte d’investimento?

In questo stesso ambito saranno anche da osservare con attenzione le strategie dei vettori di equity del movimento cooperativo come Cooperazione Finanza Impresa (Cfi) che storicamente svolge un ruolo importante in operazioni di salvataggio di imprese attraverso il meccanismo del worker buyout ma che ora si troverà probabilmente ad allargare il suo raggio d’azione anche a favore di imprese cooperative e sociali. Potrebbe essere l’occasione per fare un upgrade di un modello di successo dotando questa struttura di risorse aggiuntive e mettendo a valore le preziose competenze maturate in questi anni nel recuperare imprese in difficoltà puntando sulla cooperazione tra i lavoratori, ma anche con altri stakeholder (finanziatori, fornitori, ecc.) e le comunità territoriali. È infatti innegabile la necessità di istituzioni di nuove generazione capaci di “orchestrare” una quantità sempre maggiore di risorse verso mercati, filiere e progettualità che la stessa programmazione europea (2021-27) considera strategiche, come “infrastrutture sociali”.

Le questioni quindi non mancano e la risposta risiederà, vale la pena di ribadirlo, in una maggiore coesione dell’ecosistema, sia per capacità interna sia per rispondere alle sollecitazioni di attori esterni come ad esempio le istituzioni europee che, non da oggi, sostengono, grazie al Fondo europeo investimenti (Fei), gli strumenti di garanzia e cofinanziano i fondi equity. L’obiettivo è che questa massa di risorse finanziarie rinforzate da strumenti di garanzia a favore degli enti creditizi serva non solo a tutelare un comparto cruciale della società e dell’economia italiana, ma anche, con un’operazione tutt’altro che semplice ma inderogabile, a farlo “rimbalzare” in un nuovo assetto che consenta di sbloccare ulteriormente il suo potenziale di innovazione sociale.