Quello della filantropia trust-based è un approccio sempre più diffuso a livello internazionale di cui si è parlato durante l’evento Philanthropy Experience 2024. Di seguito ospitiamo alcune riflessioni a partire dalla sessione iniziale, in cui è stato discusso anche il nostro rapporto di ricerca “Filantropia basata sulla fiducia: promuovere l’innovazione e il cambiamento sociale investendo sulle relazioni“. |
L’epoca che viviamo viene definita antropocene.
Antropos, l’uomo; l’essere che è riuscito a caratterizzare un’intera era, dato che la sua azione ha impattato in modo significativo sul pianeta, trasformandolo. L’uomo ha estratto risorse dalla terra, ne ha predato i beni, sfruttandoli, controllandoli, avvantaggiandosene e piegandoli ai propri scopi.
Un atteggiamento tipico della specie umana, l’unica a definirsi sapiente, nonostante sia anche l’unica che, dopo una breve permanenza sulla terra (“solo” 300.000 anni), è in grado di minacciare la propria sopravvivenza. Questa tipicità di comportamento è facilmente riscontrabile anche in altri ambiti. La diabolica triangolazione controllo – estrattività – ego è infatti possibile trasporla a vari settori dell’agire umano, tra i quali anche, tristemente, alla filantropia. In tale ambito è possibile, infatti, individuare degli schemi comportamentali fondati sulla gerarchia di potere, sull’esercizio del controllo, sulla protezione del proprio status e sull’utilizzo della società civile.
La fase storica attuale è caratterizzata inoltre dalla multidimensionalità delle disuguaglianze (a differenza del secolo scorso non è più il reddito l’indicatore centrale ma la capacità di accedere a opportunità formative, a tecnologie o spazi) e dall’intersezione fra diversi processi trasformativi. Transizione demografica, ecologica e digitale si intrecciano causando un aumento della complessità che spinge i decision makers politici a scegliere fra ipersemplificazione demagogica e approcci sistemici che agiscono più profondamente sui fenomeni sociali ma che richiedono tempi più lunghi per essere rodati e mostrare i propri effetti. Seguendo il ragionamento di Gérard Schmit e Miguel Benasayag, l’epoca delle passioni tristi è allo stesso tempo l’epoca dell’irresponsabilità nell’esercizio della funzione pubblica.
Perché serve un nuovo approccio alla filantropia?
Di fronte a questa tensione anche la filantropia a livello internazionale è chiamata a modificare i propri approcci. Una filantropia basata sulla fiducia orienta le proprie scelte a partire da quattro elementi basilari, come sintetizzano Rossero e Maino nel rapporto “Filantropia basata sulla fiducia”:
- autonomia ed empowerment, con la convinzione che le organizzazioni beneficiarie siano i soggetti più esperti nel rispondere ai bisogni delle comunità che servono;
- relazioni di lungo periodo, favorendo la sostenibilità e la capacità di pianificazione delle organizzazioni;
- riduzione della burocrazia, semplificando i processi di candidatura per ricevere un contributo e di rendicontazione delle spese sostenute a valere sui contributi ottenuti, con lo scopo di concentrare le risorse sulle attività principali;
- trasparenza e responsabilità, in una relazione bidirezionale la fiducia si basa su una reciprocità che incentiva le organizzazioni a condividere apertamente i loro successi e le sfide incontrate, trasformando le reti in comunità di apprendimento e miglioramento continuo.
La filantropia basata sulla fiducia ha un forte carattere relazionale ed è segnata da alcuni importanti elementi di innovazione approfonditi nella citata ricerca di Secondo Welfare.
In primo luogo, implica il “passaggio dal razionalismo tipico dell’approccio neoliberista (incentrato sul rapporto costo-efficacia e sulla verifica delle spese per il raggiungimento di risultati prestabiliti)” (Rossero e Maino 2024, 9) all’interpretivismo, che prevede finanziamenti non vincolati, ossia che non derivano da un’idea predefinita su come intervenire per supportare le comunità, ma possono adattarsi ai bisogni specifici dei beneficiari per determinare insieme a loro quali siano i risultati auspicabili. A cambiare sono soprattutto le dinamiche di potere attraverso processi decisionali, riguardanti la destinazione delle risorse, co-creati tra fondazioni e beneficiari, superando la gerarchia e il controllo, il paternalismo, le asimmetrie relazionali. Grantors e grantees sono legati gli uni agli altri attraverso un vincolo di reciprocità: impegnati in un contratto sociale per generare risultati di qualità che soddisfino entrambe le parti. Solo in questo modo la filantropia può diventare parte integrante della società civile, in grado di relazionarsi e ibridarsi anziché proteggere e cementare il proprio gruppo di appartenenza.
Perché servono momenti di incontro e riflessione sulla filantropia?
Queste riflessioni sono state al centro del confronto durante la due giorni di Philanthropy Experience 2024 che si è tenuta a Salerno il 18 e 19 novembre scorsi e ha visto partecipare oltre un centinaio di esponenti di Fondazioni di origine bancaria, comunitarie, familiari e di impresa provenienti da tutta Italia. La filantropia italiana ha necessità di spazi protetti di riflessione critica nei quali – indipendentemente dall’appartenenza a reti, genus o dimensione – potersi confrontare ed apprendere. Un’intelligenza collettiva che ha beneficiato di analogie potenti provenienti da altri mondi (arte, sport, economia) e di similitudini generative.
Ad aprire l’evento, la sessione plenaria che ha visto protagonisti Daniele Messina (Responsabile dell’Attività Istituzionale di Fondazione Monte dei Paschi di Siena, ente co-promotore dell’iniziativa), Federico Mento (Direttore di Ashoka Italia) e Giancarlo Sciascia (Business Developer di Mezzo Forte soc. coop.)1.
Il primo aspetto discusso è stato il paradosso della fiducia (così fondamentale e allo stesso tempo fragile), che si registra a partire dalla differenza tra il termine fiducia in italiano (da fidere, confidarsi, avere fede) rispetto a quelli inglesi: trust e reliability. Se quest’ultimo è l’affidabilità, nella quale la fiducia è strumentale in quanto risultato di un rapporto basato sulla competenza, trust invece è la fiducia come presupposto di un rapporto che implica il rischio di essere traditi e di fallire. Accettare il rischio vuol dire avere fiducia in sé stessi, avere consapevolezza del proprio valore, perché è il riconoscimento di quello che siamo che ci porta ad avere fiducia negli altri.
Il tempo dell’emulazione dello Stato e dell’appiattimento sul Mercato è finito. C’è bisogno di creare fiducia partendo dalla sconfitta e dal fallimento. La filantropia ha bisogno di entrare in contatto con quella parte genetica di sé che consente la trasformazione. Aprendosi. Creando un vuoto – anche oltre una cornice di senso – per accogliere e diventare terreno fertile in grado di generare innovazione sociale. Superare le crisi per inaugurare il filantropocene, creativa crasi, che implica complessità e collaborazione orientata all’individuazione di nuove soluzioni.
Policrisi e relazioni filantropiche
Il concetto di filantropocene prende le mosse da una definizione inclusiva della società civile, capace di comprendere genera diversi al suo interno e di livellare la gerarchia tra di essi. Nel filantropocene si trasformano le dinamiche di potere tra gli attori dell’economia sociale, trasfigurando gli attuali modelli in uso che riecheggiano, emulandoli, approcci pubblicistici (l’appalto) o privatistici di Mercato (la prestazione di servizi).
Le relazioni filantropiche non parlano più a beneficiari ma a partner, non coltivano più un ego-sistema ma operano a beneficio di un eco-sistema, creano ponti e non cementano potere, si imperniano sulla fiducia e non sull’affidabilità. Questo implica rischi e fallimenti, nei quali la dimensione della responsabilità è collettiva e non individuale di un solo soggetto plutocratico. Siffatta nuova postura della filantropia, infine, è in grado di sostenere gli enti di Terzo Settore nel dare nuova centralità alla dimensione valoriale e motivazionale, sacrificata negli ultimi decenni sull’altare di quella tecnico-organizzativa ed economica assecondando processi esecutivi di efficienza e non di cura.
Il nostro presente è anche un tempo di policrisi, in cui la pressione sull’opinione pubblica di fake news, misinformation e polarizzazione determinano la fine del dibattito pubblico e un astensionismo elettorale tanto elevato da mettere a repentaglio la tenuta democratica delle nostre società. Senza partecipazione non c’è libertà.
Emergenza sociale, culturale e ambientale si intrecciano. La violenza sulle donne e l’atteggiamento predatorio nei confronti delle risorse naturali sono, a ben guardare, due facce della stessa medaglia. Mentre la nostra casa comune va in fiamme, gli sforzi che possiamo fare per mitigare gli effetti catastrofici degli eventi estremi sempre più frequenti, lo abbiamo visto a Valencia come in Emilia-Romagna, diventano proibitivi (secondo le stime aggiornate oggetto di confronto alla COP29, l’immobilità climatica può costare fino al 15% del PIL globale entro il 2100) spingendoci in una spirale perversa, tra la disperazione e il cinismo, che alimenta guerre e fughe dalla realtà (consumismo, metaverso, progetti di colonizzazione galattica, ecc.).
Lo osserviamo ogni giorno, con i poderosi effetti di spiazzamento dovuti all’avanzata di soluzioni tecnologie estrattive, sempre più sofisticate e marcatamente proprietarie. Del resto, recenti stime ritengono che l’impatto di digitalizzazione, IA e robotica interesserà circa 800 milioni di lavoratori da qui al 2030. Non si tratta solo di individui che usciranno dal mercato del lavoro, con l’inevitabile aumento dell’indigenza, ma di squilibri sempre più profondi nella capacità dello Stato di raccogliere risorse, pensiamo, ad esempio, all’impatto sul sistema previdenziale. Come sottolineato dai recenti premi nobel per l’economia – Acemoglu e Johnson – non c’è niente negli ultimi 1000 anni di storia che dimostri che la presenza di meccanismi di automazione garantiscano un vantaggio di reddito per le classi lavoratrici, ma, al contrario sono numerosi gli esempi nei quali le innovazioni tecnologiche non hanno portato miglioramenti bensì peggioramenti nelle condizioni di vita e lavoro dei lavoratori. Ciò non vuol dire rifuggire aprioristicamente il progresso promosso dalle nuove tecnologie – intelligenza artificiale in primis – bensì il bisogno di coniugarlo con nuove competenze umane e compensi equi.
Verso il filantropocene?
Nel 2005 è stato stabilito che il tasso di estinzione delle specie è stimato essere tra 100 e 1.000 volte più alto rispetto al tasso naturale di estinzione. Le proiezioni immediate per il futuro indicano che questo tasso potrebbe raggiungere una ratio di 12.000 entro la nostra vita. In questo scenario apocalittico, in cui le tecnologie giocano un ruolo fondamentale, perché possono contribuire alla soluzione delle più grandi sfide oppure essere impiegate per accelerare le distorsioni e l’accumulazione di potere e controllo su scala globale, una speranza di ricostruzione di senso è data proprio dall’approccio relazionale.
Non solo, come in altre epoche “rivoluzionarie”, l’opportunità di cambiare la rotta può dipendere da uno spostamento del punto di vista. È così che con il termine antropocene si allude all’opportunità di adottare un approccio ecologico anziché una prospettiva antropocentrica. Le piante ci dimostrano come vivere secondo consapevolezza e buon senso. Non dobbiamo fare altro che prestare attenzione. Cambiare prospettiva è possibile, mettendo al centro l’ambiente per ascoltarsi e scegliere la risonanza, nel senso indicato dal sociologo tedesco Harmurt Rosa; alla ricerca della vita buona, rifiutando la logica della crescita senza limiti, il mito del progresso che facciamo fatica a mettere seriamente in discussione perché ci siamo immersi e non riusciamo a riconoscerlo, imprigionati in una narrazione elettrizzante ma dal finale scontato: la bancarotta. Per Rosa l’essere umano è per natura risonante. La risonanza è la “relazione primaria col mondo” e questo è confermato da svariate evidenze neurologiche ed etnologiche, antropologiche e fenomenologiche.
Per questo la crasi tra filantropia (basata sulla fiducia, sulle relazioni di reciprocità) e antropocene (inteso non tanto come era geologica ma come sguardo filosofico sul mondo, più attento a essere che ad avere, con meno ego e più eco) produce un neologismo, un involucro di senso nuovo attraverso il quale interrogarsi: il filantropocene implica così un’assunzione di responsabilità personale, comunitaria, territoriale condivisa, per prendersi cura insieme – enti filantropici, istituzioni, società civile – delle sfide sociali, ambientali ed esistenziali a cui andiamo incontro.
La complessità e dimensione dei fenomeni non consente più risposte di tipo top down ma richiede tutta l’intelligenza collettiva, la singolarità e l’umanità, creativa e irriducibile, che possono fare la differenza. Il momento è adesso: abbiamo di nuovo “bisogno di tutta la nostra intelligenza, il nostro entusiasmo e la nostra forza”, come scriveva Gramsci oltre un secolo fa. Il terreno della relazione filantropica di nuova generazione è particolarmente fertile perché dotato delle competenze, dell’ambizione e dei mezzi per poter fare fronte alle emergenze e orientare le risorse verso dinamiche costruttive, agendo in maniera sistemica e lungimirante.
In questa direzione vanno anche gli schemi di adozione di strategie ESG che aziende e istituzioni sono chiamate a impostare, monitorare e perfezionare. Il richiamo del filantropocene invita a interpretare le tre sfide, quella ambientale, quella sociale e quella della governance, non solo come adempimenti irrinunciabili o certificazioni strumentali per attrarre capitali e talenti, ma anche come una necessaria assunzione di responsabilità, verso il pianeta e le nuove generazioni, in una logica di mercato meno estrattiva ma più sostenibile che tenga insieme pace, prosperità e inclusione.