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Dal momento in cui è iniziata l’emergenza sanitaria circa 8 milioni di persone nel nostro Paese hanno lavorato da casa in modalità “smart” (Cgil e Fondazione Di Vittorio 2020). Sebbene, come sottolineato anche in questo nostro contributo, le condizioni e i vincoli imposti dal particolare contesto non consentano di parlare di smart working vero e proprio, è interessante comprendere come i lavoratori e le lavoratrici abbiano vissuto questa peculiare esperienza.

A tale scopo Cgil Nazionale e Fondazione Di Vittorio hanno realizzato un’indagine con l’obiettivo di comprendere le percezioni di chi – per via del Covid-19 – si è ritrovato a svolgere la propria attività professionale all’interno delle mura domestiche. La survey, che come sottolinea il Report non ha carattere scientifico in quanto non presenta un campione rappresentativo, è stata condotta attraverso un questionario online diffuso a partire dal 20 aprile e chiuso il 9 maggio.

Smart working e home working: i limiti del lavoro agile ai tempi del Covid-19

Stando ai risultati dell’indagine, alla quale hanno partecipato 6.170 persone, l’82% dei rispondenti ha iniziato a lavorare da casa solo in conseguenza del lockdown mentre il restante 18% lo faceva già prima. La situazione emergenziale ha quindi colto alla sprovvista molte imprese e molti dipendenti, che – stando al report – non erano preparati e non avevano sviluppato le giuste competenze per una gestione più autonoma del lavoro.

Ciò sarebbe emerso in modo particolare per quattro aspetti:

  • Competenze: la quasi totalità di chi ha partecipato al questionario ritiene che per lavorare da casa occorrano conoscenze specifiche. Ciò riguarda soprattutto l’uso di strumenti, piattaforme e tecnologie informatiche (il 31% dichiara di non esserne in possesso) ma anche le capacità di organizzare in maniera più autonoma il proprio lavoro, di gestire lo stress e di relazionarsi con colleghi e responsabili.
  • Spazi: nella maggior parte dei casi (50%) gli spazi per lavorare all’interno della propria abitazione sono stati ricavati riorganizzando aree come la cucina o il salotto; il 31% dichiara invece di avere a disposizione una stanza per sé, mentre il restante 19% ha affermato di spostarsi all’interno del domicilio a seconda della situazione e degli impegni degli altri familiari. La difficoltà nell’avere uno spazio ben definito per lavorare è apparsa come un ostacolo concreto allo svolgimento delle proprie attività.
  • Consapevolezze: nel lavorare da casa si presta poca o nessuna attenzione al diritto alla disconnessione (56%) e al controllo a distanza (55%). Si presta invece abbastanza o molta attenzione al ricircolo d’aria (85%), alla tutela della privacy (73%,), alla correttezza della postazione di lavoro (66%), alle pause di lavoro (54%).
  • Tecnologie: infine, per quanto riguarda il possesso di device per lavorare, l’indagine sottolinea come per gli uomini sia più comune avere un computer personale e/o fornito dall’azienda; le donne sono invece più spesso costrette a ricorre alla condivisione del computer utilizzato per il lavoro.

Anche a causa di questi limiti, solo il 23% dei lavoratori che hanno risposto al questionario ha percepito un vero e proprio cambiamento nel loro lavoro e nella modalità di svolgerlo; per il 45% non vi sono state innovazioni e per il restante 32% il cambiamento è stato solo parziale. A incidere su tale aspetto giocano però un ruolo importante anche altri fattori, come il rapporto con il diretto responsabile o il capo, i carichi di lavoro, la diffusione dello smart working nell’azienda anche prima del lockdown e le condizioni logistiche, tecnologiche e organizzative del lavoro da casa.

Le opportunità e i rischi dello smart working

Per quanto concerne la valutazione di questa particolare modalità di lavoro agile svolta nel corso degli ultimi due mesi, oltre il 90% delle lavoratrici e dei lavoratori coinvolti nell’indagine concordano sul fatto che lo smart working faccia risparmiare tempi di pendolarismo casa-lavoro, consenta una maggiore flessibilità nel lavoro, renda efficace il lavoro per obiettivi, permetta un miglior bilanciamento dei tempi di lavoro, di cura e di vita.

Molti meno intervistati pensano che il lavoro agile sia utile per conoscere tecnologie e software necessari per svolgere al meglio la propria attività (58%) e riduca lo stress lavoro-correlato (55%). Le cose che più spaventano sono invece il fatto di avere meno occasioni di confronto e di scambio con i colleghi (70%) e l’aumento dei carichi di cura e di lavoro familiare (70%).

Perché quello che abbiamo sperimentato non è stato smart working

Prendendo spunto da questi interessanti dati pubblicati da Cgil e Fondazione Di Vittorio, ci sembra ora importante portare alla luce alcune ragioni che ci spingono a pensare che quello che abbiamo sperimentato (e stiamo vivendo tuttora) a causa dell’emergenza sanitaria non può essere definito "smart working".

In primo luogo, è mancata la libera scelta da parte di lavoratori di adottare tale pratica. Come definito anche dalla normativa di riferimento, il lavoro agile può essere fruito in maniera autonoma e (per quanto possibile) libera dal dipendente per alcuni giorni ogni mese. La diffusione della pandemia di Covid-19 ci ha invece obbligati ad adottare lo smart working senza soluzione di continuità. Questa necessità imposta dal contesto ha impedito – sia all’azienda sia ai dipendenti – di sviluppare una diversa cultura organizzativa, basata sulla strutturazione del lavoro per obiettivi. Questo "salto culturale" non può essere improvvisato in pochi giorni o settimane: come ci ha ricordato la Responsabile del Dipartimento per l’Efficienza Organizzativa di ActionAid Italia in una recente intervista, tutto questo richiede infatti la definizione di obiettivi chiari e indicatori variabili per la valutazione, l’elaborazione di piani annuali di lavoro e la previsione di processi di verifica e monitoraggio degli obiettivi raggiunti.

A ciò si collega il fatto che, come sottolineato anche da questo nostro contributo, l’implementazione “improvvisata” dello smart working ha visto molto spesso la mancanza di una governance chiara da parte dell’azienda; molte organizzazioni non erano quindi pronte a sperimentare tale pratica, anche a causa della completa assenza di prassi e procedure consolidate. Ciò è valso anche per i lavoratori, che sono stati spesso colti impreparati sia in tema di competenze tecniche che organizzative.

Dal punto di vista dei dipendenti, inoltre, il più grande scoglio ha riguardato l’aumento dei carichi di lavoro domestico e di cura, soprattutto per le donne. Se in una situazione normale lo smart working avrebbe potuto favorire la conciliazione vita-lavoro, tutti i fattori che abbiamo sperimentato nel corso del lockdown – ad iniziare dalla chiusura delle scuole e dalla didattica a distanza, fino ad arrivare dallo stress correlato ad una situazione precaria e incerta – hanno negativamente influito sulla gestione più autonoma dei tempi.

Tutte queste condizioni ci ricordano come la contrattazione e il dialogo tra l’impresa e il sindacato possa essere cruciale nella promozione del lavoro agile. Secondo la survey di Cgil e Fondazione Di Vittorio, solo il 27% degli intervistati ha stipulato un accordo per accedere allo smart working nel periodo dell’emergenza anche con il coinvolgimento del sindacato; per gli altri casi si è invece trattata di un’attivazione concordata con il datore di lavoro (37%) oppure di una decisione unilaterale dell’impresa (36%).

Dato che, con ogni probabilità, lo smart working sarà una modalità di lavoro molto diffusa per i prossimi mesi, è quindi auspicabile un coinvolgimento attivo delle rappresentanze dei lavoratori, allo scopo di definire e regolamentare dinamiche cruciali come il diritto alla disconnessione e di garantire processi formativi rivolti ai lavoratori.

Riferimenti

Cgil e Fondazione Di Vittorio (2020), Quando lavorare da casa è… smart?, 1° Indagine sullo Smart working