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Nell’autunno del 2021 presenteremo il Quinto Rapporto sul secondo welfare in Italia (5R2W). Vista l’importanza di questo traguardo per il nostro Laboratorio e considerate le grandi sfide che la pandemia pone al nostro sistema di welfare, per rendere più ricche e approfondite le ricerche e le analisi che confluiranno nel volume abbiamo scelto di organizzare una serie di iniziative partecipate. Abbiamo quindi immaginato e costruito un percorso condiviso lungo un anno che ci metta nelle condizioni di realizzare un Rapporto all’altezza delle sfide del presente: tre Focus Group in ottobre e novembre, ‘evento pubblico "Più bisogni, quali risorse?" del 15 dicembre prossimo, e alcune survey – che lanceremo in primavera – rivolte ai protagonisti del secondo welfare.

Dopo i focus sul welfare filantropico e sul welfare aziendale, il terzo incontro – tenutosi a porte chiuse il 17 novembre scorso – è stato dedicato alle prospettive del welfare di prossimità nell’epoca del Covid-19. Vi hanno preso parte autorevoli esponenti del Terzo Settore, dell’Associazionismo, degli Enti locali, dei Sindacati e della Pubblica Amministrazione che hanno alimentato un dibattito ricco ed estremamente utile per sviluppare riflessioni e ipotesi sul presente e sul futuro del welfare di prossimità. Di seguito vi proponiamo alcuni degli spunti più interessanti emersi durante l’incontro, che ha rappresentato un’occasione di confronto sul ruolo dell’attore pubblico, del Terzo Settore e della società civile nella ricostruzione di un welfare locale messo a dura prova dagli effetti della pandemia.


Oltre la crisi del welfare familistico, rilanciare il welfare locale

Diversi partecipanti al Focus hanno sottolineato come a livello locale la pandemia abbia dimostrato in modo ancora più drammatico la fragilità di un modello di welfare “familistico” che tradizionalmente ha attribuito alla famiglia (e in particolare alle donne) un ruolo chiave nell’erogazione dei servizi di cura. In un quadro caratterizzato dall’indebolimento del welfare pubblico e dalla sua mancata ricalibratura a favore di alcune fasce di popolazione (in primis bambini e giovani), le famiglie sono spesso sole nel gestire i bisogni di cura dei bambini e degli anziani. 

La pandemia ha reso ancora più evidente l’insostenibilità di un modello di welfare di questo tipo. Il Covid-19 infatti ha colpito duramente i più anziani, quella generazione di nonni che spesso supplisce alla mancanza di servizi per l’infanzia e che costituisce quindi il pilastro di soluzioni di welfare “fai-da-te”. Le misure di distanziamento e le iniziali difficoltà degli operatori socio-sanitari a reperire i dispositivi di protezione hanno inoltre limitato l’accesso ai servizi di assistenza domiciliare, in particolare per le famiglie più  fragili in cui sono presenti disabili.  

Inoltre in questo quadro i servizi sociali sono stati spesso chiamati, anche prima della pandemia, a supplire alle mancanze dal Sistema Sanitario Nazionale e al suo progressivo sottofinanziamento. Ed è così che il welfare locale, con i suoi attori pubblici e privati, si è venuto a trovare in una situazione particolarmente critica.

Di fronte a queste criticità, i territori si sono mobilitati dando vita ad  alleanze inedite di cui fare tesoro per il futuro. Pur dovendo gestire in tempi brevissimi le misure introdotte a livello nazionale – tra cui ad esempio  la distribuzione delle risorse previste dai “buoni spesa” –  in molti casi i servizi sociali sono riusciti a rispondere tempestivamente all’emergenza grazie alla collaborazione con il Terzo Settore e la società civile.

In altri casi alcune realtà del volontariato e dell’associazionismo hanno consolidato i loro rapporti con il mondo della Scuola, aiutando in particolare i ragazzi più fragili che  rischiavano di perdersi nella lunga fase di sospensione della didattica in presenza. Ma perché la collaborazione tra pubblico e privato sia proficua, i partecipanti hanno evidenziato che occorre che entrambi i mondi siano messi nelle condizioni di operare adeguatamente. Ad esempio, servizi pubblici troppo carenti e definanziati finiscono, secondo alcuni, per incidere negativamente sul contributo offerto dal privato sociale che si trova costretto a supplire alle mancanze piuttosto che a integrare in modo virtuoso l’intervento pubblico.


A vent’anni dalla 328/2000, ribadire la centralità della co-progettazione

Perché Pubblico e Terzo Settore riescano a costruire un welfare in grado di superare il familismo tipico del modello italiano è necessario realizzare un cambio di paradigma che riparta dai contenuti (mai pienamente recepiti nei territori) della Legge quadro 328/2000 e dalla più recente Riforma del Terzo Settore

Proprio il Terzo Settore, che comprende anime diverse come il mondo della cooperazione, dell’associazionismo e del volontariato, rappresenta infatti l’anello di congiunzione tra il servizio pubblico e la società civile. Perché la sua missione si realizzi a pieno si rende sempre più necessario, secondo gli interlocutori del Focus, abbandonare una logica di mercato che riduce il Terzo Settore a erogatore di servizi a basso costo.

Superare la logica degli appalti sarebbe possibile applicando le possibilità offerte dal Codice del Terzo Settore, che prevede la co-progettazione degli interventi come modalità di interazione tra Pubblico e privato. Questa logica dovrebbe oggi diventare la regola, e non l’eccezione, per realizzare quel cambio di paradigma capace di valorizzare il Terzo Settore nella costruzione di un nuovo welfare locale. Alcuni interlocutori sottolineano però che questa evoluzione comporta anche altri cambiamenti come la valorizzazione del ruolo politico e di advocacy del Terzo Settore da parte delle stesse organizzazioni non profit. 

Accanto al Terzo Settore, sottolineano i protagonisti del Focus, è importante infine che la società civile affermi il suo protagonismo, perché la voce dei destinatari delle politiche possa trovare una sua rappresentanza sempre più articolata e plurale.


Le 50 parole più pronunciate durante il Focus Group


Conciliare il necessario protagonismo del territorio con l’universalismo dei diritti è possibile

La vicinanza ai bisogni dei cittadini, che caratterizza gli enti locali e le organizzazioni del Terzo Settore radicate nel territorio, fa di questi attori i protagonisti del welfare locale, dalla fase di progettazione delle politiche a quella di implementazione. Ma come ribadire la centralità della dimensione locale senza acuire quelle disparità territoriali che sono emerse in modo ancora più drammatico durante la pandemia? 

Anche in questo caso, i problemi non nascono dalla mancanza di riferimenti normativi e giuridici,  quanto piuttosto dalla loro applicazione. In particolare dalla definizione di quei LEP, i Livelli Essenziali di Prestazione, previsti dalla 328/2000, che dovrebbero essere garantiti in ogni regione e comune del nostro paese, dal Nord al Mezzogiorno e che, invece, per molti anni sono “rimasti sulla carta”. Solo di recente infatti sono stati definiti dei LEP nel campo del contrasto alla povertà ed è auspicabile una loro estensione anche in altri settori. 

La traduzione in termini operativi dei LEP costituisce la cornice dentro la quale collocare una governance capace di attribuire a ogni livello  la sua specifica funzione: allo Stato il ruolo di indirizzo, alle Regioni il ruolo di programmazione e ai Comuni la capacità di declinare gli interventi sul territorio. Anche a livello regionale il Terzo Settore deve essere coinvolto nell’ambito di azioni di  programmazione partecipata e inclusiva delle politiche sociali. Perché tutto questo si realizzi in modo adeguato è necessario anche ripensare le modalità di finanziamento delle politiche locali, ad esempio operando un bilanciamento dei trasferimenti dal livello centrale sulla base di una rilevazione dei bisogni sociali effettivamente presenti sul territorio.