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La costruzione di partnership appare allo stato attuale come una delle strade privilegiate per introdurre elementi di innovazione nel settore sociale. Tuttavia, la realizzazione di partnership “virtuose” rappresenta un obiettivo non sempre facile da perseguire. Perché? Quali fattori ne ostacolano la completa realizzazione? Come possono essere superati? 


Perché costruire partnership

Costruire partnership tra pubblico, privato e non profit. Di questi tempi appare come una delle vie ideali per continuare ad assicurare politiche e diritti sociali. Perché? Quali fattori ci impongono di intraprendere questa strada? Come in molti altri Paesi europei, anche in Italia il welfare state si trova oggi soggetto a due forti pressioni che condizionano l’efficacia delle sue azioni. La prima proviene dai vincoli di bilancio che, oltre a impedire incrementi di spesa, impongono misure di contenimento dei costi che molto spesso vanno a colpire il campo degli interventi sociali. La seconda è invece connessa alle rapide trasformazioni dei bisogni sociali, in particolare per quel che riguarda i cosiddetti “nuovi rischi” – come ad esempio non-autosufficienza, precarietà lavorativa, esclusione sociale e difficoltà di conciliazione fra responsabilità lavorative e familiari, soprattutto per le donne – a cui il sistema di welfare esistente pare oggi incapace di fornire risposte adeguate. In questo contesto lo sviluppo di esperienze di secondo welfare – mix di protezioni e investimenti sociali a finanziamento non pubblico, forniti da una vasta gamma di attori economici e sociali collegati in reti caratterizzate dal forte ancoraggio territoriale, che vanno progressivamente affiancandosi e integrando il primo welfare, di natura pubblica ed obbligatoria – rappresenta una dinamica da tenere in particolare considerazione. E poiché numerose esperienze di secondo welfare si configurano e strutturano attraverso partnership, attività di co-progettazione e iniziative co-produzione di servizi, comprendere meglio queste forme di collaborazione tra soggetti diventa cruciale per capire se, come e quanto possano contribuire all’innovazione degli interventi sociali.


Come costruire partnership: il tentativo dei Piani di zona

Nonostante la rilevanza della costruzione di partnership, permangono al momento diversi fattori che ne possono ostacolare la realizzazione.

Innanzitutto, il cambiamento attuato attraverso le partnership si va spesso ad inserire in contesti preesistenti che pongono delle resistenze. A causa di fenomeni riconducibili ai concetti di policy legacy e path dependence, infatti, il percorso e le scelte perseguite fino ad un dato momento tendono ad influenzare le scelte future: più determinate strutture sono strutturate e radicate in un dato contesto, tanto più il costo del cambiamento risulterà maggiore. Ciò è particolarmente evidente in un contesto come quello italiano, caratterizzato da un’alta separazione tra soggetti (in primis profit e non profit) e tra settori (si pensi ad esempio alla suddivisione tra sociale e sanitario) che si traduce in una non-abitudine a cooperare, difficoltà di comunicazione e, talvolta, diffidenze preconcette.

L’utilità del lavoro in rete e di un cambiamento di governance in senso inclusivo è stata riconosciuta da tempo, essendo uno dei principi che hanno ispirato la legge 328/2000 e, in particolare, l’istituzione dei Piani di zona. Dalla loro introduzione, i Piani hanno in effetti introdotto prospettive nuove nella definizione delle politiche sociali dei territori: grazie all’impatto simbolico e culturale che hanno avuto su amministratori, operatori e associazioni hanno avviato quel percorso di valorizzazione e messa a sistema di tutti gli attori su cui si reggono il welfare locale e il principio di sussidiarietà, incentivando l’istituzione di organismi plurali di governo (assemblee dei sindaci, tavoli politici, tavoli tecnici) e di partecipazione (tavoli tematici, tavoli di rappresentanza, consulte, eccetera).

Tuttavia, sono emersi diversi limiti, omissioni e resistenze a una loro completa attuazione e l’introduzione dei Piani si è spesso limitata a un semplice assemblaggio di ciò che già esisteva sul territorio, impedendo di sfruttare appieno le potenzialità innovative dello strumento. L’integrazione tra attori sociali certamente si è andata rafforzando e raffinando a livello programmatorio, ma è ancora lacunosa sul lato dell’attuazione operativa e organizzativa, dove non sempre quanto disegnato riesce a tradursi a livello pratico, in modalità e procedure comuni di regolazione e gestione dei servizi.


Le sfide per gli stakeholders

Per perseguire quel livello di integrazione propedeutico alla costruzione di partnership costruttive, occorre quindi che tutti gli attori coinvolti cambino il proprio paradigma di riferimento e ripensino le logiche secondo le quali si sono mossi ad oggi. Da qui l’importanza di figure professionali che accompagnino gli attori in questo processo di riforma e che operino come mediatori, traducendo linguaggi appartenenti a soggetti diversi, evidenziando punti di contatto e appianando divergenze. Occorre poi investire nella formazione per gli operatori del sociale – i quali talvolta riportano ad esempio di non sapere neppure quale linguaggio o quali canali usare per relazionarsi con il profit. Al tempo stesso, il profit va sensibilizzato circa l’utilità di queste esperienze – nell’ottica della responsabilità sociale di impresa – , informato e orientato circa gli strumenti operativi disponibili – pensiamo ad esempio ai vantaggi fiscali ed economici.

Una riflessione speciale va fatta per il settore pubblico che, per via delle proprie competenze legislative e finanziarie, mantiene le redini del sistema di welfare. Il ruolo dell’attore pubblico – a tutti i livelli, da quello centrale a quello locale – resta infatti centrale in quanto disponendo di una visione “globale” e di un alto grado di legittimazione (sia dal lato simbolico che da quello normativo), è il solo capace di garantire il coordinamento e la mobilitazione degli stakeholders, di orientarne l’azione verso un obiettivo comune e di assicurare l’accessibilità, equità e qualità dei servizi erogati – a differenza della mera privatizzazione. Da erogatore unico – o quasi – esso è chiamato a diventare co-erogatore, regista e garante. Allo stadio attuale, tuttavia, nonostante si comincino ad avviare significativi percorsi di riforma – soprattutto a livello locale – la complessità del settore esercita ancora forti resistenze al cambiamento e limita l’efficacia delle partnership (pensiamo solo a procedure burocratiche, vincoli finanziari, complessità della legislazione, conflitti di competenze, ecc.).

Infine, il terzo settore manifesta difficoltà nel gestire il proprio duplice ruolo: da un lato di portatore di interessi e bisogni dei cittadini, dall’altro di produttore di welfare. Un aspetto che si auspica verrà migliorato con la riforma del terzo settore, ma che ad oggi rappresenta un ostacolo da non sottovalutare.


Lavorare su progetto: pregi e difetti

Uno degli strumenti attraverso cui si esplicitano le partnership è quello del progetto. Lavorare su un progetto presenta diversi vantaggi: favorisce la focalizzazione di un obiettivo condiviso; aiuta a individuare in modo più preciso fasi e processi di lavoro (e relativi compiti); inoltre, in tempi di risorse scarse, aiuta gli amministratori a pianificare gli interventi e assegnare le risorse in modo più efficiente rispetto all’erogazione di finanziamenti “a pioggia”. Le attività di rendicontazione e valutazione, infatti, suggeriscono a policy maker, amministratori e finanziatori di che cosa abbiamo davvero bisogno, quali progetti risultano più utili ed efficaci, e, di conseguenza, come incanalare le risorse disponibili.

Ciononostante, permangono limiti evidenti, soprattutto per quanto riguarda il lavoro “su bando”. Molto spesso il bando è l’occasione, il punto di partenza da cui si costruiscono partnership, non il punto di arrivo. Questo comporta due rischi: non individuare correttamente il problema o individuare un problema che non c’è (l’obiettivo primo degli attori è ricevere finanziamenti, non l’oggetto del bando); creare partnership ad hoc tra soggetti che “si uniscono” per quest’occasione ma che non hanno vissuto un precedente percorso di costruzione di quella rete necessaria per garantire la solidità del progetto in fase di implementazione. Inoltre, lavorare per bando è vissuto come un fattore di incertezza e instabilità che potrebbe minare le attività di enti e associazioni, soprattutto quelle più piccole, che dispongono di risorse umane limitate e per le quali un eventuale fallimento ha costi maggiori.


Ricercare nella “crisi” un’opportunità

I periodi di crisi – economica ma anche sociale – rappresentano un punto di rottura causato dal fatto che gli strumenti, le pratiche o i punti di riferimento validi fino a quel momento non sono più adatti al contesto creatosi. In questo momento gli attori sociali si trovano quindi di fronte alla necessità di cambiare paradigma di azione e adeguarsi alla nuova realtà. Un cambiamento che non è semplice da perseguire, richiede impegno e ha costi molto alti, ma che se ben guidato potrebbe generare benefici, innestando processi di rinnovamento fino a qualche anno fa impensabili.

 

*L’articolo riassume alcuni dei contenuti emersi durante il percorso ‘Partnership Pubblico, Privato e Non Profit. Costruire collaborazioni e valorizzare apporti’, realizzato presso il Settore Welfare, terzo settore e sostegno disabilità e fragilità – Città metropolitana di Milano.