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Nel panorama dell’impact investing lo strumento finanziario che in Italia e nel mondo sembra aver attirato più di ogni altro l’attenzione è il c.d. social impact bond (SIB). In realtà ci siamo già ampiamente occupati di questa complessa partnership in precedenti articoli, basterà quindi dire che quando si parla di social impact bond si fa riferimento ad un contratto che prevede il finanziamento da parte di investitori privati ad una impresa sociale, la quale attraverso la propria attività è in grado di generare nelle casse del settore pubblico risparmi significativi che andranno in tutto o in parte a rimborsare e remunerare il capitale prestato. Ora anche per l’Italia, nonostante i limiti – reali o presunti – del nostro sistema, sembra essere arrivato il momento di sviluppare strumenti finanziari di questo genere. Il primo tentativo ha come cornice Napoli, dove verrà intrapresa una nuova strada per affrontare il grave problema dei rifiuti.  


L’antefatto: perché i SIB sono allergici all’Italia (e viceversa)

La prima esperienza di social impact bond che ormai è divenuta punto di riferimento a livello globale è quella realizzata nel carcere di Peterborough nel 2010. Questo modello pilota prevedeva la raccolta di prestiti da parte di privati a fronte di una remunerazione che sarebbe avvenuta con parte del risparmio di spesa pubblica realizzato attraverso l’iniziativa di imprese sociali. Nel noto modello del carcere di Peterborough, gli investitori scommettevano sul fatto che, grazie ad un programma di inserimento lavorativo, il tasso di recidiva sarebbe diminuito. Parte del risparmio generato dalla riduzione della recidiva avrebbe remunerato gli investitori in caso di successo delle attività poste in essere dalle imprese sociali. In caso contrario gli investitori avrebbero invece perso interessi e capitale.

Tale vicenda ha trovato un ampio entusiasmo non solo tra coloro che operano nel settore della filantropia e dell’innovazione sociale, ma anche tra alcune pubbliche amministrazioni particolarmente sensibili al problema della sostenibilità economica e della efficacia della propria azione. Così rapidamente l’esperienza di Peterborough ha trovato alcune repliche. Qualche decina nel Regno Unito e altrettante nelle altre parti del mondo, in particolare Stati Uniti e Australia. A questi paesi si sta aggiungendo anche il Canada.

Per quanto riguarda l’Italia si deve segnalare che l’entusiasmo di cui sopra è andato incontro ad un rapido affievolimento, peraltro non senza ragioni. Il contesto normativo italiano infatti sembrava porre alcune difficoltà: si pensi alla disciplina dei contratti pubblici che postula come regola generale l’affidamento di lavori, servizi e forniture secondo procedure ad evidenza pubblica e solo in una serie alquanto limitata la possibilità di scegliere liberamente il contraente privato. Anche alcune celebri inefficienze della burocrazia italiana giocavano poi a sfavore: qui basta richiamare i tempi di pagamento e la forte segmentazione, spesso equivoca e foriera di ricorsi, dei diversi livelli di competenza (locale e centrale). Al di là di tale aspetto inoltre si dovevano registrare alcuni limiti legati più direttamente ad aspetti tecnici: i principi contabili della finanza pubblica, insieme al vigente patto di stabilità, rendevano complesso registrare nei bilanci pubblici somme solo eventualmente destinate in futuro ad esser spese.

Tuttavia gli aspetti più critici che hanno dato l’impressione che un social impact bond italiano fosse impossibile sono da ricercare soprattutto nella cultura dell’investimento sottesa all’agire economico del nostro paese: i profili di rischio affrontati dagli investitori del social impact bond pilota, quello di Peterborough, erano ben superiori a quelli che investitori italiani erano disposti a correre (e questo è un profilo criticato anche nel Regno Unito, posto che in quel caso gli investitori non erano propriamente investitori-risparmiatori, ma piuttosto enti appartenenti al mondo della filantropia). Peraltro le esperienze di social impact bond realizzate all’estero non erano e non sono prive di profili critici, peraltro già segnalati anche in alcuni nostri contributi. Uno su tutti, quello delle metriche di misurazione dell’impatto sociale.


Il problema dei rifiuti di Napoli e lo sviluppo di TRIS

Offerto un quadro generale sulle prime nubi che sembravano affiorare all’orizzonte della finanza sociale italiana, è ora possibile passare a descrivere la soluzione offerta ad un grave problema sociale che ha spesso occupato le prime pagine dei giornali italiani e ha permesso che anche all’estero passasse una immagine non certo lusinghiera del nostro paese. Attualmente per smaltire una tonnellata di rifiuti, presso impianti situati nel Nord Italia, considerando anche il costo del trasporto, il Comune di Napoli spende all’incirca 140 euro. Per far fronte ad una simile spesa, che peraltro non si esaurisce in sé stessa proprio per via del danno di immagine che la città ricava da tale situazione (per tacere di altri danni “sociali” che una siffatta sistemazione comporta), il Comune aveva tentato negli ultimi due anni di affrontare il problema, aprendo alcune gare volte a selezionare soggetti che fossero in grado di smaltire in loco i rifiuti. Le gare sono andate deserte e l’attesa di veder risolto il problema si è così prolungata per anni.

Il Comune di Napoli ha così avviato un nuovo progetto che prevede la costruzione a Scampia di un impianto di compostaggio da 14,6 milioni di euro. L’idea è nata da un raggruppamento di imprese che ha presentato la proposta al Comune, il quale prontamente l’ha fatta propria. In poche parole, si costruirà un impianto di tipo modulare che, grazie a tecnologie innovative che non prevedono la combustione ma l’estrazione del biogas a freddo e senza emissione di sostanze e di odori, produrrà biogas, oltre a quantità importanti di compost di alta qualità. L’impianto avrà una capacità massima di circa 20 mila tonnellate l’anno di rifiuti differenziati. Secondo le stime lo stabilimento produrrà oltre 7 mila tonnellate l’anno di compost di qualità e 1,3 milioni di metri cubi l’anno di metano.
 Come riportato dai media locali e nazionali, la proposta verrà messa a gara con bando europeo da ASIA (la società del comune che gestisce i rifiuti a Napoli) non appena la Regione avrà reso disponibile l’area per lo stabilimento, che si spera possa essere inaugurato nella primavera del 2016.

Ciò per cui tuttavia prendiamo in esame il caso del progetto di gestione dei rifiuti a Scampia è il carattere estremamente innovativo della forma di finanziamento. Il Gruppo Intesa Sanpaolo, attraverso Banca Prossima, emetterà un bond, denominato TRIS (Titolo di Riduzione di Spesa Pubblica). TRIS è progettato come un bond a rischio zero (poiché Intesa Sanpaolo garantisce l’intero intervento per 14,6 milioni di Euro) che potrà fruttare ai risparmiatori interessi in linea con quelli dei titoli di Stato presumibilmente nell’arco di un quinquennio. Il TRIS soprattutto potrà dare risposte alle esigenze di quegli investitori che intendono ottenere un ritorno economico pur contribuendo a realizzare un’opera di utilità sociale che possa avere un impatto sulla riduzione della spesa pubblica, parametro a cui saranno ancorati gli interessi.

Infatti quel che è più importante è che ci si attende un risparmio significativo: al momento ASIA spende 140 euro a tonnellata per spedire fuori regione i rifiuti raccolti; in base all’accordo ora costruito, invece, ASIA spenderà 100 euro a tonnellata per conferire al nuovo impianto i rifiuti raccolti; sulla base di questi dati e considerati i volumi, rispetto gli anni precedenti ci sarà un risparmio di circa 800 mila euro. «In mancanza di fonti di finanziamento aggiuntive – spiega Marco Morganti, amministratore delegato di Banca Prossima – la grande fonte è la riduzione della spesa». L’impatto sociale peraltro non è semplicemente legato alla dimensione ecologicamente più sostenibile della gestione dei rifiuti, perché nel progetto è altresì previsto che diverse imprese sociali saranno coinvolte nelle varie fasi del ciclo di valorizzazione dei rifiuti, contribuendo pertanto a fronteggiare un ulteriore problema sociale, ossia quello della disoccupazione o inoccupazione e favorendo l’inserimento lavorativo dei soggetti più colpiti dalla attuale contrazione del mercato del lavoro.

Dunque, rispetto allo schema classico dei SIBs di derivazione britannica, l’iniziativa di Napoli si differenzia per varie ragioni: primo, il risparmio certo per le casse del Comune (40 euro a tonnellata di rifiuti umidi trattati); secondo, l’investitore privato o istituzionale si fa carico di un rischio nullo, grazie alla garanzia offerta da Banca Prossima attraverso Intesa Sanpaolo, (perciò in caso di successo, ossia se vengono raggiunti gli obiettivi di riduzione del costo di trattamento dei rifiuti, la remunerazione è in linea con quella dei titoli di Stato); infine, l’emittente dei titoli non sarà un soggetto pubblico, ma appunto, il Gruppo Intesa Sanpaolo.


Tra luoghi comuni e missioni impossibili, le prospettive del primo SIB italiano

A margine della descrizione ora sviluppata, sembra opportuno sottolineare alcuni aspetti che presentano la vicenda quantomeno come singolare: il problema dei rifiuti a Napoli è divenuto nel tempo il pretesto per sostenere quello che ormai è un luogo comune: la città di Napoli non è in grado di “badare a se stessa” e pertanto è destinata a scivolare sempre di più nelle classifiche delle città ideali in cui abitare. Non che l’operazione fosse lecita, tuttavia l’identificazione della città di Napoli con i propri rifiuti è stato il refrain degli ultimi anni, dopo i vari tentativi che anche a livello governativo si è cercato di fare per ovviare al problema. In altri termini, l’idea di una città capace di misurarsi con le proprie vecchie inefficienze e i nuovi problemi (in realtà, emergenze), appariva sempre più una forma di utopia. Il compito di trovare soluzione all’annosa questione della gestione, del trattamento e dello smaltimento dei rifiuti napoletani è quella che – con buona pace dei napoletani – veniva utilizzata come esempio per spiegare il concetto di “missione impossibile”.

Uno degli aspetti più interessanti del progetto TRIS è che sembra portare in Italia, secondo una forma adattata e per certi versi “evoluta”, l’esperienza dei SIB inglesi. L’aggiustamento però non è dei più banali, anzi riguarda un elemento centrale della questione: si passa infatti dalla creazione di valore sociale (con il correlato problema della sua misurazione) a un obiettivo diverso e più facilmente apprezzabile. Si tratta della riduzione (misurabile) della spesa pubblica attraverso un mezzo che è eminentemente sociale: la creazione di posti di lavoro nelle imprese sociali che saranno coinvolte nelle varie fasi del ciclo di valorizzazione dei rifiuti.

Questo SIB all’italiana ha delle potenzialità significative nel nostro paese, in virtù dell’ampio spazio di riduzione della spesa pubblica, dei i vincoli imposti dal patto di stabilità che impediscono di aumentare il debito pubblico e – soprattutto – dell’esistenza di un terzo settore produttivo straordinariamente sviluppato. In altri termini, il punto forte del nuovo modello finanziario proposto, come ha sottolineato lo stesso Morganti, consiste nell’unire a un risultato economico brillante nuovi posti di lavoro e servizi per la collettività ad elevato impatto sociale: «la partecipazione dei cittadini allo schema, attraverso l’acquisto di un titolo sociale di nuova generazione, allarga ancora il senso comunitario di questa finanza».

Dunque e più in generale si può dire che il TRIS in primo luogo mostra come quello che da tempo sottolineiamo come decisivo sul piano teorico, ossia inquadrare i SIB nell’ambito della finanza di progetto, ha un riscontro diretto nella pratica e pertanto è una opzione interpretativa da perseguire approfondendo la riflessione. In secondo luogo il TRIS documenta come – proprio perché afferente al fenomeno della finanza di progetto – il tema vero di un SIB risiede nella corretta individuazione del cash flow che una certa attività è in grado di realizzare. In terzo luogo, ancora con le lenti della finanza di progetto, osservando il progetto di Scampia si capisce che non è possibile immaginare un modello unico e universale, ma piuttosto si tratta di costruire di volta in volta la partnership sulla base dei rischi, del cash flow e dello specifico modello di business nel quale si intende operare. In quarto ed ultimo luogo, occorre registrare che l’esperienza del TRIS getta una nuova luce sul tema della misurazione dell’impatto sociale e del meccanismo pay-for-success: questi sono alcuni degli elementi che caratterizzano molte delle esperienze di impact investing in corso, tuttavia non sono gli unici e nemmeno i più qualificanti, dunque non possono essere utilizzati per stabilire cosa appartenga e cosa invece debba rimanere fuori dal concetto stesso di impact investing.


Il realismo dell’innovatore

Per concludere si può osservare che se l’innovatore è spesso rappresentato nelle vesti di un sognatore, nel caso italiano in realtà esso sembra piuttosto un accanito realista che con ostinazione cerca l’impossibile. Un po’ come il Caligola quando afferma: «Semplicemente mi sono sentito all’improvviso un bisogno di impossibile. Le cose così come sono non mi sembrano soddisfacenti». Chissà se l’amministratore delegato di Banca Prossima, guardando il problema dei rifiuti a Napoli e le affascinanti seppur complesse esperienze d’oltremanica, non abbia sentito risuonare le parole del personaggio di Camus. È tuttavia certo che il SIB di Napoli, o TRIS se si preferisce, non è solo il primo SIB italiano, ma racconta di una vicenda che mostra (se non insegna) quale sia il punto di partenza di una effettiva innovazione sociale. Almeno per il momento.

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