Un recente articolo dello psicologo americano Jonathan HaidtEnd the phone-based childhood now” ha ravvivato il dibattito, negli Stati Uniti e non solo, sul rapporto fra salute mentale degli adolescenti e tecnologia. In breve, Haidt sostiene che l’utilizzo degli smartphone e dei social network sia correlato all’aumento di depressione, ansia e autolesionismo tra i giovani della Generazione Z (i nati tra il 1995 e il 2010), il cui tempo trascorso offline si è ridotto, condizionandone negativamente la quotidianità.

Il rapporto tra giovani e nuove tecnologie è un tema centrale anche nell’ottica delle politiche sociali, che non a caso abbiamo più volte affrontato sul nostro sito e su cui si è concentrato il progetto Nova Schol@. Questa ricerca, i cui esiti sono raccolti in un volume edito da Giappichelli, ha evidenziato l’importanza di investire nell’alfabetizzazione digitale per mettere i giovani in condizione di fare “buon uso” delle opportunità che provengono dalle nuove tecnologie. Pur evidenziando la presenza di alcuni rischi, ne emerge un quadro in cui il digitale è un’opportunità di crescita per le nuove generazioni

Si tratta di un tema parzialmente diverso rispetto a quello proposto da Haidt che, nel panorama delle nuove tecnologie, si concentra principalmente sui social media delineando un quadro in cui i rischi prevalgono nettamente rispetto alle opportunità. Tuttavia ci è parso interessante riflettere su questa divergenza di percezione, guardando anche ai nessi con la salute mentale. Un altro tema su cui stiamo lavorando molto.

Per farlo ci siamo confrontate con Cecilia Iannaco, psicologa, psicoterapeuta e Vice presidente del Network europeo per la psichiatria psicodinamica Netforpp, che da tempo si occupa di adolescenti, co-autrice peraltro di un capitolo di “Welfare per le nuove generazioni. Scuola, salute mentale e promozione del benessere” volume a cui hanno contribuito diverse ricercatrici del nostro laboratorio.

Dottoressa Iannaco, partiamo dal macro tema. Adolescenti e tecnologie: da dove si parte per affrontare un binomio tanto complesso?

Partirei dall’osservazione che rapportarsi con la rete e le nuove tecnologie significa rapportarsi con la storia e il progresso, che non possono essere fermati. È quindi necessario approfondire e studiare cosa è la rete per gli adolescenti, senza polemizzare o condannare.

La storia dell’umanità è spesso caratterizzata da grandi sconvolgimenti. La rivoluzione digitale può far paura, perché è velocissima ed è un fenomeno di massa, ma la storia insegna che i grandi mutamenti possono portare a nuove conoscenze e scoperte.

Un po’ come con la scoperta dell’America da parte degli europei alla fine del Quattrocento. Lo psichiatra Massimo Fagioli vede nelle esplorazioni del Cinquecento e nella crescita dello spazio esterno disponibile un ampliamento dello spazio interiore dell’uomo, che ha determinato grandi svolte culturali. Si pensi al Rinascimento. Magari la diffusione di internet e di un pensiero globalizzato può essere punto di partenza per costruire un’idea di umanità più uguale, diversa, migliore.

Quali sono, dunque, i cambiamenti concreti che osserva nella società e in particolare negli adolescenti a seguito di questa grande rivoluzione?

A cambiare è sicuramente la socialità. Un tempo le amicizie si facevano a scuola, in situazioni collettive e i ragazzi si ritrovavano in posti fisici. Ora le amicizie spesso si fanno in rete e ci si incontra anche offline. Uso il termine “offline” e non il termine “virtuale”, perché penso che questa dimensione, soprattutto per i ragazzi, non sia opposta al concetto di realtà come lo è, invece, la virtualità… La vita online, per gli adolescenti, è vita reale. Non a caso il filosofo Luciano Floridi parla di vita onlife (neologismo usato per descrivere l’esperienza di un mondo iperconnesso privo di distinzione fra online e offline, nda).

Come cambia la socialità in questo contesto “onlife”?

La socialità dei ragazzi si è ampliata in modo inverosimile: la digitalizzazione ha portato ad una globalizzazione anche dei rapporti interpersonali. Premesso che l’essere umano cerca per sua natura di stabilire un’armonia fra mondo esterno e realtà interiore, di fronte al fenomeno dirompente della rete bisogna distinguere chi, forte di un benessere psichico, riesce a trovare un equilibrio da chi, invece, soffrendo di una difficoltà psichica pregressa, non riesce a modulare la propria interiorità con questa complessa esteriorità.

Quindi non è d’accordo con Haidt quando afferma che le tecnologie e i social sono la causa del peggioramento della salute mentale degli adolescenti?

Non penso che la tecnologia faccia di per sé ammalare. Gli adolescenti, secondo le statistiche, passano in media cinque ore al giorno online. Sono tante, è vero. Tuttavia, non è un aspetto necessariamente negativo perché parte della loro vita si sviluppa in rete. Hanno una modalità espressiva differente, ma questo non significa per forza che la vita offline sia in secondo piano: quando è possibile i ragazzi la preferiscono. Direi piuttosto che hanno un ritmo diverso. Sia a livello spaziale, visto che la loro rete di contatti è spesso molto estesa, sia a livello temporale dato che il tempo dell’adolescenza, già velocissimo di per sé, con la rete è diventato esasperatamente rapido e ci si approccia in modo multitasking, intervallando messaggi e relazioni online e offline, in una realtà che accresce le possibilità di relazione in modo estremamente positivo per loro.

Quindi la rete è un’opportunità per gli adolescenti?

In genere sì. Il discorso cambia per i ragazzi che non stanno bene, che hanno un vissuto pregresso di solitudine o depressione. In questo caso, i social e le tecnologie possono peggiorare la loro situazione psichica, diventando strumento di isolamento, di allontanamento dalla realtà o di evitamento delle situazioni di difficoltà. Annullare il mondo esterno dove ci si percepisce inadeguati e preferire videogiochi, serie tv e un mondo online in cui trovare rifugio sono elementi critici per i ragazzi che non stanno bene a livello psichico, che riescono così a costruirsi una vita alternativa di esclusione sociale fino ai casi più gravi dell’hikikomori1.

Ma che cos’è, allora, che fa ammalare?

Fondamentale è la qualità dei rapporti umani. Fin dalla nascita. Se un essere umano si ammala, sappiamo che è a causa di reiterati rapporti interumani non validi, se non addirittura violenti. Il bambino ha una fiducia incondizionata nell’adulto: se questa viene ‘tradita’, se l’adulto, cioè, non è in grado di rispondere in modo adeguato alle esigenze di sviluppo, il bambino viene deluso con relativo impoverimento della sua realtà interiore. Per resistere alla delusione bisognerebbe avere un’identità già solida ma nel bambino e nel ragazzo l’assenza psichica da parte di figure significative può ledere l’immagine interiore. Qui si genera la malattia.

Ma allora neanche se pensiamo al caso dei disturbi del comportamento alimentare, e al ruolo dei social nella creazione e diffusione di un immaginario di bellezza e perfezione, possiamo intravedere una relazione negativa tra tecnologie e malattia?

Non penso che i social in sé facciano cadere nella malattia. C’è una fragilità pregressa. I social possono magari intensificare i problemi tipici dell’adolescenza relativi a un corpo che, nel pieno del suo sviluppo, non sembra fiorire come dovrebbe. La pubertà prevede che, attraverso l’adolescenza, si riesca a comporre lo sviluppo fisico con un cambiamento del pensiero e una trasformazione dei suoi contenuti. La rete può in questo senso acuire difficoltà con il corpo, momenti di tristezza e abbattimento rispetto a ciò che la società propone come modello e che un giovane crede di non poter avere. Ma la stragrande maggioranza dei ragazzi, mantenendo un contatto fatto di calore e interesse nei confronti dei compagni, si confronta con i coetanei e la loro vita online non è foriera di malessere. Cadere in un disturbo alimentare o altro significa avere già un problema con la propria immagine interiore, significa avere una difficoltà ad affrontare la propria crescita fisica e psichica.

E cosa succede, invece, nel caso delle patologie che sembrano nascere proprio a causa dei social? Pensiamo ad esempio alla nomofobia (“no mobile fobia”) o la FOMO (“fear of missing out”)

Vale lo stesso discorso fatto prima. Appunto, come dite ‘sembrano nascere dai social’. Queste che avete nominate sono forme di dipendenza, come la dipendenza dal gioco d’azzardo online, o quella dai siti pornografici… Nei casi menzionati c’è una forma di dipendenza per cui i ragazzi sviluppano l’idea che senza la rete non abbiano più una identità oppure sviluppano una reale paura di essere esclusi. Anche in questi casi le difficoltà sono a monte. Quel senso di esclusione o di smarrimento che può affliggere un adolescente è tutt’altra cosa che può essere superato nel corso dello sviluppo.

Cosa ne pensa dunque delle conclusioni cui giunge Haidt?

Haidt sostiene che i bambini crescono in un “ambiente ostile allo sviluppo umano”, usando un’espressione piuttosto forte e associando il prolungato uso della rete allo sviluppo di una malattia mentale in modo, a mio parere, sensazionalistico e allarmistico. Non ci sono in realtà studi scientifici che mostrino una correlazione causale tra l’uso di internet e la malattia mentale. Anche per quanto riguarda lo sviluppo neurologico non c’è un consenso scientifico: per alcuni l’uso prolungato dei social ha effetti negativi sulle capacità decisionali, sull’attenzione e la memoria; per altri la rete può invece sviluppare nuove connessioni neuronali.

Per chiudere, che messaggio ritiene utile lanciare su questo tema così complesso?

Penso sia essenziale adottare un approccio di ricerca continua e approfondire al meglio le differenti implicazioni di questa tematica, senza pregiudizi o opinioni precostituite. Non ci sono ancora posizioni certe, è tutto in continua evoluzione. Siamo protagonisti di un mutamento epocale e occorre essere attenti nell’osservare cosa accade attorno a noi, cosa può promuovere o inibire il benessere psichico dei più giovani e cosa è opportuno fare per intervenire se serve.

 

Note

  1. termine giapponese per dire ‘rimanere in disparte’, indica le persone che si ritirano dalla vita sociale per lunghi o lunghissimi periodi, rinchiudendosi in casa ed evitando ogni  contatto diretto con il mondo esterno e, a volta, anche con i loro familiari.
Foto di copertina: Pixabay, pexels.com