Il Ddl Concorrenza contiene un emendamento che, se approvato, cambierà radicalmente il mercato italiano dei buoni pasto, che nel solo 2023 è valso circa 4,5 miliardi di euro. La norma introduce infatti un tetto massimo del 5% sulle commissioni che le società emettitrici dei buoni pasto potranno richiedere agli esercenti che li accettano, come ristoratori e supermercati, quando questi sono acquistati da imprese private. Una scelta che va ad allinearsi a quanto già previsto per le imprese pubbliche, in cui il tetto del 5% è già in vigore dal 2022.
Dopo aver analizzato le possibili conseguenze dell’emendamento sugli attori del mercato dei buoni pasto e segnalato alcune posizioni opposte – c’è chi parla di norma sovietica e chi di un’opportunità per allagare il mercato – abbiamo voluto dare voce agli attori coinvolti in questo cambiamento per provare a capire meglio cosa potrebbe succedere.
A questo scopo abbiamo intervistato Silvio Giovine, deputato che ha proposto l’emendamento, i rappresentanti di tre aziende emettitrici, diverse per dimensioni, storia e strategie – Up Day, 360 Welfare e Satispay – e chiesto a Valentino Santoni, ricercatore di Secondo Welfare e grande esperto di welfare aziendale, di darci il suo punto di vista.
Per Up Day, una delle principali società attive in Italia sul mercato dei buoni pasto, abbiamo parlato con Mariacristina Bertolini, Vice Presidente e Direttore Generale Up Day e Direttrice zona Euromed per il gruppo Up.
Quali conseguenze vedete per il mercato dei buoni pasto in questo cambiamento normativo?
L’emendamento è irresponsabile, rappresenta una insostenibile limitazione dei principi del libero mercato. Secondo le nostre stime, questo provvedimento potrebbe causare un peggioramento di circa 200 milioni di euro in minor sconti a carico delle aziende private e para-pubbliche.
Il mercato dei buoni pasto si regge su un delicato equilibrio che vede quattro protagonisti: utilizzatori, clienti, emettitori e esercizi convenzionati. Intervenire su un solo attore, come sta facendo questa proposta di emendamento, è rischioso perché può far crollare l’intero sistema.
Stiamo vivendo un momento storico dove, tra inflazione e instabilità geopolitica inevitabilmente i prezzi lievitano, questo cambiamento normativo mette a rischio un fondamentale strumento di welfare proteggendo solo un attore: la grande distribuzione. Mi chiedo se lo Stato, che ha già accettato questo maggior onere per il mercato pubblico, vuole davvero farlo anche per quello privato.
Quale credete sarà il comportamento delle aziende? Se ci dovesse essere un aumento dei costi ci sarà un riduzione nella spesa per i buoni pasto?
Il welfare aziendale potrebbe essere a rischio. Molto probabilmente ci saranno alcune aziende che, per i dipendenti, lo ridurranno in senso lato. Potremmo essere di fronte a scenari diversi: le realtà che non hanno un obbligo, dato da contrattazione sindacale, potranno decidere di non erogare più i buoni pasto, di ridurre il loro valore facciale o anche di non erogare buoni pasto durante lo smart working.
Quelle che hanno un vincolo sindacale invece potrebbero risparmiare su altre voci di welfare come quelle on top, ovvero che si aggiungono alla retribuzione dei dipendenti dando loro un po’ di respiro, potrebbero limitare le erogazioni liberali o ancora abbassare in generale altre voci di spesa per il personale.
Come pensate che cambierà il mercato dell’intermediazione dei buoni pasto?
Dietro i proclami di facciata, si rischia l’effetto contrario. La concorrenza si restringerà con i player più piccoli che avranno maggior difficoltà a entrare nel mercato, schiacciati dall’impossibilità di reggere le economie di scala con conseguente un preoccupante accentramento. In generale si avrà un ecosistema imprenditoriale con una minor capacità di investimenti e quindi di innovazione.
Come si potrebbe migliorare la norma, dato che sembra ormai probabile la sua approvazione? Quali “ritocchi” si potrebbero fare alla normativa sui buoni pasto?
La norma in questione è un vicolo cieco: non vedo al momento possibili “ritocchi”, semplicemente non dovrebbe esistere. Il mercato liberale pretende autodeterminazione, non una legiferazione forzata nelle relazioni tra privati.
Sarebbe stato molto più utile aprire dei tavoli di confronto con tutti i portatori di interessi per ragionare su azioni migliorative, soluzioni eque, per tutta la catena di valore. Un tavolo in cui tutti sarebbero stati disponibili a trovare una soluzione, probabilmente anche a rinunciare a qualcosa per garantire, ed allargare, un sistema di welfare sempre più utile a tutti. Serve un approccio olistico, con un’analisi approfondita dei costi che ricadrebbero ingiustamente su aziende, emettitori e lavoratori e non semplicemente guardare al settore pubblico, dove le gare hanno già imposto limiti rigidi.
Il buono pasto è un meccanismo virtuoso che sostiene dipendenti, imprese, ristoratori e distribuzione: garantisce un sostegno economico agli utilizzatori, permette alle imprese di sostenere concretamente i dipendenti senza oneri e tasse aggiuntive ma sostiene anche la rete dei ristoratori e della grande distribuzione che genera circa 4 miliardi in buoni pasto più almeno un ulteriore indotto del 30% per la differenza versata in contanti. Infine, ci sono le aziende emettitrici che permettono e che gestiscono tutto ciò grazie ai loro investimenti, alla loro tecnologia e alla loro innovazione.
Ecco perché bisognava fare un confronto con tutti i portatori di interesse. Questa imposizione è, per usare un eufemismo, miope.
Buoni pasto: diamo voce ai protagonistiCosì si va a “correggere una stortura che dura da troppo tempo” Un emendamento “rischioso” che “può far crollare l’intero sistema” Riportare il buono pasto “alla sua funzione originaria” L’occasione per aprire “un mercato notoriamente chiuso e concentrato” Come disinnescare i rischi delle commissioni al 5% |