Dare i voti ai Paesi (e alle aziende) non in base a criteri finanziari ed economici per sapere se meritano il nostro credito (cioè i nostri soldi), ma in base a criteri «etici»: come il «tasso» di democrazia, il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente e l’esistenza (e la qualità) dello stato sociale. Si chiama «giudizio di sostenibilità» e lo emette Standard Ethics Rating, una società indipendente, molto diversa dalle «big 3» (Standard & Poor’s, Ficth e Moody’s), perché valuta Paesi e aziende analizzandone la sostenibilità ambientale e sociale e la governance.
L’Italia è considerato dal punto di vista etico un Paese piuttosto volatile: si muove tra il rating EE+ attuale e il giudizio EE-, il livello più basso toccato nel 2010. Attualmente il nostro Paese si trova nella fascia più alta grazie alle riforme che hanno riguardato alcuni diritti fondamentali attesi da anni. Tra le più importanti le Unioni civili, il decreto sul «Dopo di noi», le leggi contro il caporalato e contro i reati ambientali, il fondo per la non autosufficienza, la norma contro le dimissioni in bianco a tutela delle donne, elementi di sicurezza collettiva come l’introduzione del reato di omicidio stradale. E poi il grande lavoro di cui i cittadini italiani devono essere orgogliosi e che riguarda l’impegno umanitario e politico in materia di immigrazione.
Dopodiché rimangono nervi scoperti: tra i problemi irrisolti ci sono la lentezza della giustizia, la condizione delle carceri.
Non solo Pil, la sfida tra Stati (e aziende): chi è più etico?
Fausta Chiesa, Il Corriere della Sera, 18 maggio 208