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AIWA sta per "Associazione Italiana di Welfare Aziendale", ed è il nome che alcuni tra i maggiori operatori attivi nel mercato di welfare aziendale si sono dati nel 2016 quando, a seguito delle novità introdotte dalla Legge di Stabilità al Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), hanno deciso di organizzarsi per interloquire in modo unitario ed efficace con i policy maker, oltreché per promuovere – in una fase di crescita rapidissima (e a tratti disordinata) del settore – una cultura più consapevole del welfare aziendale. AIWA fornisce inoltre ai propri associati supporto tecnico e partecipa a quelle che il Presidente di AIWA, Emmanuele Massagli, definisce iniziative di “corretta informazione sul tema”. La visione di welfare aziendale fatta propria e veicolata dall’Associazione e dai 14 soggetti che vi aderiscono insiste sull’importanza della finalità sociale degli interventi, nella convinzione che – come spiega Massagli – “qualsiasi piano di welfare che perda la finalità sociale non ha neanche una tenuta giuridica, perché decade il motivo del vantaggio fiscale e contributivo”.

A margine del terzo incontro del Laboratorio su welfare aziendale e reti (Wa.Lab.), organizzato lo scorso 24 ottobre a Cuneo da Percorsi di secondo welfare insieme a Fondazione CRC, abbiamo raccolto la testimonianza del Presidente di AIWA, che in questa intervista non solo ripercorre la nascita dell’Associazione, ricostruendone gli obiettivi di fondo, ma restituisce anche il punto di vista privilegiato di AIWA su un mercato nuovo, in forte espansione e ancora poco conosciuto, di fonte al quale si pongono sia grandi occasioni di crescita sia una serie di questioni potenzialmente problematiche.

Presidente Massagli, partiamo dall’inizio: può raccontarci la genesi di AIWA? Com’è nata l’idea di dar vita a un’associazione di provider di welfare aziendale?

Nasciamo come AIWA a fine 2016, il 22 dicembre, e diventiamo operativi dal primo gennaio 2017. Tutto a partire da una provocazione nata un po’ per caso.

Soprattutto dopo il 2012-2013, diverse grandi imprese interessate al mondo del welfare – a partire dal grandissimo successo mediatico che ebbe una prima forma di intervento aziendale, quello di Luxottica – incominciarono a porsi il problema del welfare nel tentativo di emulazione di quella esperienza. E alcune di queste, essendo in rete con ADAPT, di cui sono Presidente, ci convolsero nell’approfondire che cosa potesse voler dire erogare beni e servizi di welfare in azienda. L’interesse maturò anche in alcune associazioni datoriali. ADAPT realizzò un primo studio nel 2013-2014 con Confindustria Vicenza, che sarebbe poi diventata una delle Confindustrie più attive sul tema. E dopo quel progetto, che ebbe una discreta eco tra gli addetti ai lavori, alcune realtà, soprattutto del mondo del buono pasto, iniziarono a porci delle domande su quello che avevamo scritto in quella pubblicazione, in particolare sui beni e servizi di welfare.

Abbiamo cominciato quindi nel 2014-2015 come ADAPT a rispondere a domande che diventavano sempre più frequenti e tutto sommato simili. Con alcuni di questi operatori, che intanto andavano aumentando, abbiamo poi seguito la riforma del 2016. In quella occasione ci siamo accorti che i soggetti attivi nel mercato del welfare si presentavano individualmente ai decisori, suggerendo soluzioni spesso diverse, perché ovviamente generate dall’organizzazione e dagli interessi commerciali di ognuno. Cosa assolutamente legittima, ma che li rendeva piuttosto deboli nell’interlocuzione legislativa.

Da qui è nata la provocazione che io ho lanciato ad inizio 2016 ad alcune di queste realtà, ovvero la proposta di mettere alla prova l’effettiva esistenza di un “mercato di welfare aziendale”, come loro sostenevano, creando un’associazione. Questo è già di per sé l’indizio della nascita effettiva di un mercato: quando parti che competono riescono a mettersi insieme per sostenere posizioni di interesse comune vuol dire che si è generato qualcosa che ha una indubbia rilevanza. Altrimenti, questa operazione non riuscirebbe. La Legge di Stabilità, quella del 2016, era già stata approvata, era l’epoca nella quale ci si domandava come strutturarla e il periodo delle prime, spesso caotiche, interpretazioni. Poco prima dell’estate ci fu una prima adesione da parte di alcuni operatori, mentre un’altra parte si dimostrò più scettica. Io chiarii da subito che non sarei stato disponibile a coltivare un progetto di questo genere senza che vi fossero rappresentate tutte le diverse modalità di approcciare questo mercato: un’associazione sul welfare aziendale che avesse avuto al suo interno solo i “voucheristi” o solo i broker assicurativi non avrebbe avuto ragion d’essere, dal momento che entrambi (così come altri operatori del settore) avevano già la propria associazione di riferimento.

Dopo un periodo di stallo, a seguito delle difficoltà politiche del governo di allora e quindi la perdita di facilità di interlocuzione che alcune di queste realtà avevano con i decisori, si riattivò l’interesse di alcuni soggetti verso la possibilità di parlare con una voce sola almeno sulla cornice regolatoria del mercato. Questo generò una rapida accelerazione attorno a novembre-dicembre del 2016, che portò alla creazione di un nucleo di fondatori fatto da 9 soggetti che velocemente diedero formalmente vita all’associazione, composero la prima assemblea e avviarono le attività dal primo gennaio 2017. Nei mesi immediatamente successivi, appena comunicata la nascita di AIWA, accogliemmo altre adesioni. Non abbiamo mai fatto operazioni di marketing associativo: ad oggi i soci sono 14, tutti attivi e partecipi. Rappresentano certamente la maggior parte del mercato.


Come funziona l’associazione e come riesce a tenere insieme soggetti diversi per origini e dimensioni?

AIWA è nata attraverso una dinamica effettivamente molto genuina, poco paludata ed è tutt’ora un’organizzazione che si ispira a questi principi: non ha struttura, non dà compensi alle cariche interne, si appoggia quindi di volta in volta sugli associati. Tutto quello che raccoglie attraverso le quote associative è effettivamente investito in comunicazione, ricerca, cultura sul welfare. Per ora mi pare che l’esperimento funzioni.

Quanto ai soggetti associati ad AIWA, come anticipato sono 14. Sono tutti nomi abbastanza noti: Aon, Assiteca, Blue.Be, DayUp, DoubleYou, Easy Welfare, Edenred, Eudaimon, Mercer, Welfare Pellegrini, Welfarebit, Sodexo, WellWork e Willis Towers Watson. Le realtà più piccole sono WelfareBit, nata nel Biellese, e WellWork, avviata da alcuni consulenti del lavoro. Le altre sono tutte realtà più strutturate, alcune nate nell’ambito del welfare e della mobilità – come Easy Welfare o Eudaimon -, altre nel settore della ristorazione e del buono pasto o del brokeraggio. Sono realtà certamente di un certo spessore, per cui il welfare spesso non è il core business. Alcune sono “colossi mondiali” che però sul welfare aziendale fanno ancora numeri abbastanza contenuti, anche se certamente in grande crescita. Si tratta di soggetti che, arrivando da mondi totalmente diversi, hanno in effetti anche strategie commerciali e linguaggi molto diversi. Per ora, però, la linea che ci siamo dati, benché lo Statuto non obblighi a questo, è che le decisioni siano sempre assembleari e sempre all’unanimità.

Aggiungo infine che ci siamo detti che si possono iscrivere ad AIWA coloro che sono in grado non solo di fare consulenza su questa materia, ma anche di strutturare l’erogazione di questi beni e questi servizi. In altre parole, non basta conoscere il tema e assistere un’impresa, ma bisogna anche essere in grado di gestire complessivamente il piano di welfare, solitamente tramite piattaforma informatica. Abbiamo quindi detto “no” ad alcune società, anche molto note, che non possedevano a queste specificità; nessun problema, invece, come è successo, a dire “sì” a realtà molto piccole, con pochi clienti, ma in possesso delle caratteristiche richieste.


Quali sono gli scopi che i soci perseguono attraverso la loro partecipazione ad AIWA?

Cultura, informazione, interlocuzione istituzionale, assistenza tecnica. In questo ordine gerarchico. Perché? Perché, per quanto fosse già previsto nel TUIR, il welfare aziendale è ancora oggi un fenomeno poco conosciuto e spesso equivocato: senza la pretesa di fornire la verità assoluta, vogliamo comunicare quello che secondo noi è il modo migliore di fare welfare e promuoverne una diffusione corretta, ossia fare cultura.

Le attività di informazione consistono nella partecipazione a iniziative di divulgazione sul welfare aziendale, promosse insieme ad altri soggetti, dalle associazioni datoriali ai media. Ci è capitato varie volte di declinare inviti ad eventi, mal organizzati o costruiti attorno a visioni parziali del welfare aziendale: per fortuna, questa conformazione ci assicura la libertà di decidere senza alcun condizionamento o opportunismo.

La modalità attraverso la quale realizziamo l’interlocuzione istituzionale è un elemento di originalità di AIWA. Alcuni degli associati, i più strutturati, già si avvalgono di società di lobbing o hanno dei fondi a questo dedicati: AIWA non ha intenzione di bloccare le iniziative che ognuno di loro porta avanti, né di sostituirsi, ma coordinarle sì, quantomeno sui temi più rilevanti, per evitare quel disordine che è quasi sempre ingrediente di legislazioni mal fatte o nocive. È stato significativo essere auditi già due volte alla Camera come unica associazione di rappresentanza del welfare aziendale, pur essendo AIWA estranea alle grandi associazioni datoriali.

Anche questa è stata una scelta degna di nota: i fondatori (e io con loro) hanno deciso di non aderire ad alcuna associazione datoriale, nonostante qualche corteggiamento. Tutti gli associati di AIWA sono già parte di quei sistemi, legati ai loro mondi di provenienza. Al tavolo della Associazione abbiamo però bisogno che tutti si parlino, senza ostacoli di natura politica o condizionamenti. Per ora ha funzionato: siamo comunque riusciti a diventare interlocutore autorevole su numerosi temi, sia per l’Agenzia delle Entrate, con cui abbiamo discusso già due Circolari, sia per i Ministeri e le Commissioni competenti di Camera e Senato.

Infine, come dicevo, AIWA fornisce una sorta di assistenza tecnica. A tal fine, qualche mese fa abbiamo inaugurato uno strumento che si chiama “circolari AIWA”: documenti di tipo giuridico su materie specifiche, che ci permettono di comunicare all’esterno (amministrazioni pubbliche, addetti ai lavori e aziende clienti degli associati) il parere condiviso tra gli associati sui nodi interpretativi più discussi. È evidente che la posizione dei primi 14 operatori di mercato è in grado di orientare gli atteggiamenti anche degli altri.

Tornando alla questione della promozione di una “cultura sul welfare aziendale”, che cosa intende per “modo corretto di fare welfare”?

Quando abbiamo creato l’Associazione e abbiamo dovuto scrivere lo Statuto, ci siamo obbligati a definire il termine perché, se diciamo di rappresentare il mondo del welfare aziendale, non possiamo non chiarirci su che cosa sia il welfare aziendale, tanto più che il tema è mediaticamente confuso. Abbiamo scelto una definizione che riformula una frase presente nella Circolare 28/E del 15 giugno 2016 dell’Agenzia delle Entrate. Noi con welfare aziendale intendiamo: “beni, prestazioni, opere e servizi corrisposti al dipendente in natura o sotto forma di rimborso spesa aventi finalità di rilevanza sociale ed esclusi, in tutto o in parte, dal reddito di lavoro dipendente”.

Non è scontato che provider attivi nel mercato del welfare aziendale richiamino esplicitamente la finalità sociale nella definizione della propria attività. E il riferimento alla finalità sociale è stato inserito volutamente: siamo consci che i vantaggi fiscali e contributivi del welfare aziendale si devono alla finalità sociale. Quindi qualsiasi piano di welfare che perda la finalità sociale non ha neanche una tenuta giuridica, poichè decade il motivo del vantaggio fiscale e contributivo. Nei documenti AIWA di questi anni questo è sempre stato un punto fermo, è addirittura “protetto” nello Statuto: se si vuole sostenere un welfare slegato dalla finalità sociale, deve essere cambiato lo Statuto.

Dietro questa definizione c’è la nostra convinzione che il welfare aziendale non sia l’esito automatico dell’arretramento del welfare pubblico e non sia neanche giustificato dalla crisi economica, ma sia un sintomo del più generale cambiamento in atto nella natura del rapporto di lavoro. Non è l’unico, ci sono tanti segnali della cosiddetta grande trasformazione del lavoro, segnali che ci stanno dicendo che stanno cambiando oggetto e svolgimento del rapporto di lavoro. Le riforme degli ultimi anni hanno accelerato l’affermarsi del welfare aziendale, ma il fatto che nel rapporto di lavoro sempre di più entrino, accanto alla tradizionale retribuzione, anche beni e servizi, non dipende dalla riforma del 2016. Sarebbe avvenuto comunque. La riforma ha velocizzato questo fenomeno, la crisi l’ha reso più urgente, ma era già in atto in Italia e ancor più in altri paesi occidentali.

Non ritiene che sia però indiscutibile che la riforma del 2016 abbia impresso un’accelerazione considerevole a questo fenomeno?

Noi, rappresentando i provider, sappiamo che, dalla riforma del TUIR ad oggi, i piani di welfare sono decuplicati. Non nascondiamo il fattore accelerativo indotto dalla Legge di Stabilità del 2016. La vera novità, sul piano culturale, quasi pre-normativo, è la concezione di welfare aziendale fatta propria da quella riforma: pur non perdendo la finalità sociale, che resta necessaria per giustificare il vantaggio fiscale e contributivo, il welfare aziendale può svolgere anche una funzione economica.

In altre parole, è indubbio che il Legislatore – superando il requisito della volontarietà, cioè rendendo il welfare anche oggetto di scambio, e addirittura rendendo “welfarizzabile” il premio di produttività – abbia rimosso il divieto sulla funzione economica del welfare. Questo ha determinato una forte crescita del welfare aziendale, che non è più materia relegata alle sole realtà che possono permettersi (per solidità economica o convinzione ideale) erogazioni concessive più o meno paternalistiche, ma diventa anche fattore di scambio, all’interno di un accordo, di un contratto o di un regolamento.

Anche alla luce di queste dinamiche, come si è sviluppato questo mercato?

Oggi quello dei provider è un mercato caratterizzato dalla compresenza di operatori che provengono da una dozzina di mondi diversi. Noi conteggiamo una novantina di operatori. Tutte le grandi società hanno un’offerta di welfare distinta su tre canali – tra loro non necessariamente alternativi – abbastanza ben delineati, anche in termini di complessità gestionale e di categoria di prezzo.

Il primo è quello del welfare aziendale “tradizionale”, quindi slegato da ogni obbligo, che solitamente ha bisogno di qualche assistenza in più in termini di consulenza ed è anche il più complesso in termini gestionali. Il secondo canale è quello del welfare previsto dai Contratti Collettivi Nazionali: dal CCNL dei metalmeccanici in poi i flexible benefits sono entrati anche nella contrattazione nazionale, per quanto poi erogati a livello aziendale. È una forma di welfare molto semplice, un po’ “primordiale” e quindi meno costosa. E poi c’è il terzo canale, quello del welfare legato al contratto di produttività e quindi la “welfarizzazione” del premio, che però può concretizzarsi solo mediante una scelta volontaria del dipendente. I settori con più welfare sono il bancario e il chimico-farmaceutico, ma sia l’industria sia i servizi sono in rapida crescita. Vedremo che cosa prevedrà il rinnovo del contratto del commercio l’anno prossimo. Il valore medio dei piani, stando ai dati ad oggi a nostra disposizione, ci sembra realisticamente stimabile tra i 900 e i 1.000 euro, quindi non stiamo ancora parlando di importi altissimi.


Quello del welfare aziendale è un mercato giovane, non stabilizzato. Quali sono, secondo AIWA, gli aspetti più problematici da tenere sotto controllo nei prossimi anni?

Non abbiamo mai nascosto l’esistenza di elementi di criticità. In questo momento il primo nodo del mercato del welfare è il rischio che il welfare venga visto come un qualsiasi bene di consumo, il che svilirebbe in primis il welfare stesso, che non è certo un gelato o un piano telefonico. Secondo aspetto critico: molte realtà hanno capito che c’è un mercato che si sta sviluppando, in prospettiva molto interessante. L’ansia di occuparlo però può condurre a strategie commerciali troppo aggressive, tutte incentrate sul (basso) prezzo. E’ una strategia che rischia di azzoppare il mercato: la contesa sulle quote alla lunga consuma i margini e, di conseguenza, la qualità del prodotto.

Andrebbero quindi valutati con grande attenzione – terzo nodo – gli effetti sulle dinamiche di questo mercato di un’eventuale entrata del pubblico come committente: sarebbe una controparte molto rilevante, ma tutta orientata ai risparmi “senza se e senza ma”. Quarto elemento, oggetto di grande discussione al nostro interno: i rischi di un’eccessiva sottolineatura della funzione economica nell’offerta sul mercato. Non è opportuno alimentare il fraintendimento delle tante aziende che approcciano il welfare come mera occasione di risparmio. L’ultimo aspetto di riflessione è l’incertezza interpretativa. Le norme ci sono. Quello che serve è maggiore certezza di alcuni aspetti, in assenza della quale il rischio è che gli operatori più spavaldi offrano soluzioni che prima o poi potrebbero non avere una tenuta.