Ogni salto d’epoca rimette in fibrillazione e in discussione quello che denominiamo welfare state. Si ragiona di secondo welfare e di welfare aziendale con implicazioni per imprese, relazioni industriali, parti sociali e questione sociale. Val la pena scavare nelle nostra storia di impresa e di capitalismo di territorio che rimanda a ben prima delle codificate esperienze nella letteratura aziendale internazionale, di responsabilità sociale d’impresa, di corporate benefit o di impact social bank.
Oggi, il secondo welfare, a fronte della crisi del primo, perde il carattere di sola supplenza all’azione statale per assumere un ruolo di complementarietà in espansione. Non a caso la Legge di stabilità 2016 ne fornisce ulteriore impulso con la detassazione dei premi di produzione corrisposti in servizi per i dipendenti.
Le ricerche più ottimiste dicono che il 50% delle imprese consultate dichiara di avere un piano di welfare, ma solo metà di queste ne ha già introdotta qualche pratica e, di questo 25%, tante sono le grandi, meno le medie, e poche le piccole. A macchia di leopardo sono in atto interessanti sperimentazioni tra imprese, soggetti pubblici e fornitori sociali e privati di prestazioni di welfare. Di fronte ai grandi cambiamenti nel modo di produrre si diceva un tempo “è il postfordismo bellezza”. Il welfare aziendale ci fa dire che la sharing economy che avanza pone il tema della condivisione e della cogestione.
Il nuovo modello di welfare affonda le radici negli esempi virtuosi del ’900
Aldo Bonomi, Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2017