L’economia collaborativa continua a crescere e si stima che a livello globale salirà da 15 miliardi di dollari, nel 2013, a 235 nel 2025. Favorite dallo sviluppo della tecnologia, presuppongono relazioni basate sulla “fiducia”, che si esplicita nella creazione di profili per chi offre e riceve servizi al posto dell’incontro di persona, e nello scambio di pagamenti online anziché faccia a faccia.
Queste attività stanno suscitando un vivace dibattito sugli effetti ambientali, economici ma soprattutto sociali. Ad esempio, il carpooling, se vantaggioso per le brevi distanze e per chi non possiede un auto, sembra avere effetti inferiori sulla riduzione di emissioni rispetto a quanto ci si attenderebbe. Gli effetti sul mondo del lavoro sono differenti. Per quanto riguarda le imprese a scopo di lucro, l’economia collaborativa sembra spesso favorire solo i proprietari delle piattaforme, che detengono gran parte della ricchezza generata, talvolta evadono il fisco e spesso si appoggiano su una massa di micro-imprenditori non stipendiati e fuori dalle tutele generali, talvolta nascondendo forme di lavoro dipendente. Nel caso delle imprese non a scopo di lucro, esse possono diventare concorrenziali a quelle a scopo di lucro, rendendo sempre meno chiaro il confine tra amatoriale e professionale, e il concetto stesso di lavoro.
Qual è la posta in gioco? Sebbene l’economia collaborativa cresca così tanto, ad oggi, poche piattaforme emergono e sopravvivono: tra gli ostacoli vi può essere la mancanza di fondi, la normativa, la difficoltà a garantire il servizio.
Queste attività hanno effetti sulle forma di solidarietà che abbiamo costruito tramite il sistema del lavoro, la fiscalità e le professioni su cui la nostra società ancora si basa. Se questi cambiamenti si consolideranno, quali forme di solidarietà dovremo allora mettere in pratica? Di questo ed altri temi si parla in un approfondimento di France Stratégie, disponibile alla pagina L’économie collaborative, une utopie en marche?