La legge di bilancio per il 2017 è intervenuta nuovamente sulla detassazione delle prestazioni erogate dai datori di lavoro nell’ambito dei piani di welfare aziendale. È il terzo intervento legislativo in meno di due anni. Già di per sé una prova della creazione di vero e proprio nuovo “mercato”, la cui esistenza è suffragata anche dalla moltiplicazione dei piani attivi (in un solo anno sono stati 4.100 gli accordi di produttività che hanno previsto l’erogazione del premio in welfare) e dalla recentissima nascita della prima associazione di categoria (AIWA, Associazione Italiana Welfare Aziendale, di cui abbiamo parlato qui).
Se è evidente la direzione politica e legislativa di sostegno al welfare aziendale intrapresa negli ultimi anni, è certamente fattore di confusione la scarsa chiarezza definitoria che accompagna questi interventi, tanto in ambito normativo quanto nella comunicazione massmediatica. Per quanto riguarda il welfare contrattuale, questo dovrebbe essere identificato con il welfare che trae origine da un contratto, sia esso individuale o collettivo (nazionale, territoriale o aziendale). Tuttavia, nella prassi, poiché l’azione sindacale riguarda principalmente la collettività dei lavoratori, con tale espressione si identifica primariamente l’insieme delle prestazioni la cui fonte è la contrattazione collettiva a diverso livello, piuttosto che il contratto individuale. Nell’ambito della definizione comune di welfare contrattuale rientra anche il welfare bilaterale, in quanto welfare sviluppato dalla contrattazione collettiva a qualsiasi livello. La sua specificità non si esaurisce nella fonte contrattuale, ma si caratterizza per la costruzione di un sistema strutturato di enti e fondi bilaterali che erogano i servizi e le prestazioni negoziati.
Tradizionalmente, si distingueva dal welfare contrattuale il welfare aziendale, considerato come un insieme di servizi e prestazioni erogati ai lavoratori per iniziativa unilaterale e volontaria del datore di lavoro, senza nessun tipo di negoziazione od accordo con le rappresentanze dei lavoratori. Precisato che non esiste una definizione legale di welfare aziendale, è importante osservare che la legge di stabilità 2016 ha superato l’identificazione del welfare aziendale con i caratteri dell’unilateralità e della volontarietà, ribaltando tecnicamente e culturalmente la precedente impostazione.
Infatti, la disciplina previgente escludeva dal reddito da lavoro dipendente opere e servizi di welfare soltanto se erogati su iniziativa volontaria e unilaterale dal datore di lavoro. Ora, invece, le disposizioni in materia fiscale non solo permettono l’esclusione dal reddito da lavoro anche del contenuto dei piani di welfare contrattati, ma ne prevedono la piena deducibilità dal reddito di imprese soltanto se non sono unilaterali e volontari (esattamente il contrario dello scenario previgente), mentre nel caso di “volontà unilaterale” la deducibilità è limitata, come in precedenza, al 5 per mille dell’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente.
Pertanto, richiamando tale normativa fiscale, è ora più corretto parlare di welfare aziendale volontario, unilateralmente concesso dal datore di lavoro senza alcuna costrizione di natura legale, contrattuale o regolamentare, e di welfare aziendale obbligatorio, ovvero obbligato da una pattuizione sindacale o da un regolamento unilaterale. Nel caso di welfare aziendale obbligatorio originato da un accordo sindacale, si può, allora, parlare di welfare aziendale contrattuale.
Cosa significa “welfare aziendale”? Un tentativo di mappatura concettuale
Emmanuele Massagli e Silvia Spattini, Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2017