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V.E.R.A. Consulting società di consulenza e formazione con sede a Milano, ha recentemente messo a punto il metodo S.M.E.C.A. – Stress Mode and Effects Criticality Analysis. Si tratta di un programma in cinque step che – grazie all’utilizzo integrato di psicologia del lavoro, ingegneria gestionale e organizzazione d’impresa – fornisce alle aziende un “pannello di controllo” per il rischio di stress. Un metodo che non solo individua il problema e ne quantifica il danno per l’azienda, ma indica anche possibili soluzioni.

Il brevetto S.M.E.C.A. non si limita ad assolvere alle prescrizioni contenute nella cosiddetta “legge anti-stress” – il Decreto legislativo 81/2008 che, recependo una normativa europea, obbliga le imprese a valutare il proprio indice di rischio stress lavoro-correlato – mira piuttosto a fornire al management aziendale gli strumenti per ottenere risultati positivi, sia per i dipendenti che in termini di produttività aziendale.

Abbiamo intervistato Matteo Gritti, socio di Vera Consulting ed esperto di formazione e di programmazione neuro linguistica, e Franco Busacca, socio fondatore e co-creatore di S.M.E.C.A, per approfondire il metodo utilizzato per individuare, valutare e correggere lo stress sul luogo di lavoro.


L’azienda e il progetto

Quando e perché nasce Vera Consulting?
M.G.: Vera Consulting nasce nel 2004 dall’idea dei due partner fondatori, Barbara Baudissard e Franco Busacca. Io arrivo nel 2005, dopo una breve esperienza in Azienda come HR manager e un passato da Consulente, seguendo da sempre i temi della selezione, della formazione e della valutazione.

Noi tre ci siamo conosciuti lavorando come consulenti nella società di Consulenza e Formazione RSO, fondata da Federico Butera. Lì ci occupavamo prevalentemente di formazione, finché abbiamo deciso di creare una sorta di spin-off che ricalcasse a grandi linee i servizi offerti ma con un diverso modello di gestione. Mentre RSO era una società con circa 150 dipendenti e quattro sedi in Italia, ormai votata alla “industrializzazione del processo di consulenza”, Vera Consulting è nata proprio dalla volontà di essere una realtà più piccola, che si distanzi dal modello “industriale” per fornire servizi personalizzati con grande attenzione alla storia e alla mission ma anche alle contingenze e ai bisogni del cliente. Prima di formulare qualsiasi proposta, sempre studiata ad hoc, è fondamentale per noi studiare nel dettaglio le specificità della realtà aziendale. Non nascondo qualche difficoltà sul mercato, perché spesso – soprattutto nell’ultimo periodo –sembra più facile scegliere un “menu alla carte” con prezzi contenuti.

Quali servizi offre alle aziende?
M.G.: Le nostre attività si basano ancora sulla formazione, in aula e outdoor, e sul coaching. Ma abbiamo sviluppato anche progetti di studio e analisi sui tema del total reward in relazione ai bisogni dei dipendenti. Svolgiamo approfondimenti tecnici ma anche analisi di clima. Proprio da queste ultime siamo partiti per sviluppare il progetto S.M.E.C.A.

Quando e come è nata invece l’idea del brevetto S.M.E.C.A?
M.G.: Dall’esperienza delle indagini di clima, e approfittando delle scadenze derivanti dall’attuazione del Decreto legislativo 81/2008 relativo proprio alla valutazione dello stress lavoro-correlato, abbiamo deciso di dedicarci allo sviluppo di un metodo per la diagnosi dello stress nel contesto aziendale. Abbiamo utilizzato lo stimolo offerto dalla legge con l’obiettivo dichiarato di superarla. Come le dicevo, abbiamo tutti un background di consulenti aziendali di lungo corso, e abbiamo individuato nella legge una opportunità che però rischiava di “implodere”. Le aziende infatti tendono spesso a soddisfare gli obblighi di legge in modo meno costoso e più veloce possibile, archiviando però la tematica una volta che questi sono stati assolti. Esistono strumenti agili e snelli di mera autocertificazione, che però non hanno la minima incidenza in termini di riorganizzazione aziendale e quindi di benessere dei lavoratori.

Come è stata sviluppata?
M.G.: Abbiamo messo insieme le diverse competenze che abbiamo al nostro interno: io sono uno psicologo del lavoro, Franco Busacca – che è insieme a me il creatore della metodologia – è ingegnere, mentre Barbara Baudissard è laureata in lettere con un master in comunicazione d’impresa. Tre competenze diverse per cercare di convincere le aziende dell’importanza del tema, a partire da dove sono più sensibili, e cioè i risultati economici. A questo si aggiunga che il sistema è stato elaborato insieme ad Airis Consulting, società di consulenza fondata dagli psicologi del lavoro Alberto Garavaglia e Diana Lolli.

Come collegare lo stress al denaro dunque?
M.G.: Dal punto di vista concettuale il legame è diretto: lo stress impatta sulla qualità del lavoro e dunque sulla produttività di interi team e dipartimenti coinvolti. L’aspetto metodologico è stato certamente più complesso. La nostra volontà di lavorare in un’ottica di personalizzazione e attenzione alle specificità del cliente ci ha portato a costruire una metodologia che riuscisse ad adattarsi alla singola realtà, e allo specifico settore di riferimento, per individuare quanto valore viene distrutto dallo stress diffuso in azienda.

F.B.: Non dimentichiamo che il nostro approccio sottolinea il beneficio non solo per il dipendente ma anche per l’imprenditore, evidenziando come lo stress del dipendente possa sfociare anche in oneri per l’azienda. Non sposiamo una visione ideologica, ma al contrario molto “laica” ed equidistante rispetto al problema, ricordando che si tratta di un interesse comune.

Quali sono gli obiettivi della ricerca?
M.G.: Il primo è quello diagnostico di individuare quelli che sono in base alla legge i fattori oggettivi di rischio stress all’interno dell’azienda e dei singoli processi produttivi presenti. Lo facciamo attraverso l’utilizzo del questionario OSFA – Objective Stress Factors Analysis elaborato da Piergiorgio Argentero e già utilizzato da Airis Consulting, la società che ha sviluppato il brevetto insieme a noi. Le macro-categorie che racchiudono i diversi rischi sono: aspetti organizzativi, sociali e di relazioni, legati alla sicurezza e infine gestionali.
Una volta rilevata la presenza di fattori oggettivi di rischio, cerchiamo di capire se lo stress è effettivamente presente, con l’obiettivo ultimo di comprenderne l’impatto sulla performance lavorativa e arrivare a dare una dimensione economica alla perdita di valore causata dalla presenza di stress.

Come avviene la misurazione?
M.G.: Per l’individuazione dei fattori di rischio utilizziamo una scala, usata anche in psichiatria, per escludere dall’analisi le persone che indipendentemente dai fattori di rischio oggettivi sono interessati da eventi stressanti non legati all’ambiente lavorativo. Insieme alla direzione delle risorse umane pianifichiamo il campionamento così da evitare i casi di persone che affrontano momenti particolarmente stressanti o traumatici, come può essere un lutto, ma anche un trasloco. Questo perché vogliamo individuare e analizzare lo stress che è generato all’interno dell’ambiente di lavoro e causato dalle modalità di lavoro.

La prima fase di individuazione dei rischi oggettivi da stress avviene attraverso l’utilizzo del metodo OSFA, effettuando tre interviste per ciascuno dei “ruoli omologhi” – posizioni cioè accomunate da una serie di fattori comuni, che in un’azienda sono generalmente non più di una decina – individuati all’interno dell’organico. Questa parte è finalizzata a rilevare solo la presenza di fattori oggettivi di stress, e non dell’effettivo impatto sul lavoro dei dipendenti.

In seguito costruiamo dei gruppi di lavoratori per il campionamento, che in alcuni casi includono anche l’intera popolazione aziendale, ma comunque sempre di modo che ci sia una rappresentatività alta. Utilizziamo un mix di metodologie qualitative e quantitative, iniziando con dibattiti aperti su temi proposti dal facilitatore per arrivare poi a interviste semi-strutturate di gruppo, e per concludere con l’utilizzo esteso di un vero e proprio questionario. Il questionario non ha però un’unica versione “standard” ma viene costruito a seguito delle interviste semi-strutturate per il contesto aziendale specifico e somministrato all’intera popolazione aziendale.

Il questionario rileva inoltre le modalità dell’impatto dello stress sulla performance attraverso la valutazione di elementi che non hanno ancora una dimensione economica ma permettono di iniziare a “tradurre” i risultati in perdita di valore, come il numero di errori in una determinata procedura, le tempistiche dei diversi passaggi, ma anche l’interruzione della relazione con un cliente. Abbiamo un repertorio in continua crescita di dimensioni che selezioniamo di volta in volta in base al tipo di azienda, ai processi organizzativi e al settore in cui opera.

Perché è importante prediligere un’analisi ad hoc anziché cercare un metodo universalmente applicabile?
M.G.: Gli stessi fattori possono impattare in misura molto diversa sullo stress a seconda del tipo di attività e delle caratteristiche del personale. Abbiamo svolto un’indagine all’interno di un gruppo editoriale, per scoprire che i giornalisti, benché sottoposti a orari particolari e ritmi discontinui, hanno livelli di stress meno elevati dei collaboratori esterni e del personale tipografico e di staff. Al contrario, le cause di insoddisfazione dei professionisti non erano legate a ritmi e orari ma ad esempio alla scarsa influenza sulla linea editoriale. Da questo punto di vista conta molto anche la capacità di selezionare il personale in base alle propensioni, alle capacità e alla qualità delle relazioni che si instaurano all’interno del gruppo di lavoro.

Come si conclude il vostro lavoro?
M.G.: Utilizziamo i nostri risultati, combinandoli con lo studio dei dati che l’azienda ha a disposizione, per dare un valore economico alla perdita in termini di performance aziendale. In questo stadio l’analisi va a concentrarsi sulle funzioni aziendali in cui lo stress è stato individuato: torniamo dai responsabili di ogni settore per quantificare “la dimensione della perdita” insieme alle figure che in azienda “sono padrone” di quella dimensione, con metodologie proprie del controllo di gestione.

Come riuscite a calcolare la perdita economica?
M.G.: Utilizziamo un indice sintetico, il VDI – Value Destruction Index. L’indice di distruttività del valore racchiude numerosi aspetti, tra cui il numero delle persone realmente interessate dallo stress e quelle che lo hanno manifestato e la dimensione della conseguenza sulla performance, applicando un vero e proprio valore economico. Il dato ottenuto viene poi aggregato per le diverse funzioni aziendali così da dare una dimensione a tutto il valore distrutto a causa dello stress.

Come si arriva dall’analisi alla ricerca delle soluzioni?
M.G.: Si tratta di una “ricerca-intervento”. Non si tratta cioè di una indagine fine a se stessa ma è chiaramente l’inizio di un intervento più ampio. Le imprese che si rivolgono a noi hanno già implicitamente un interesse verso la risoluzione del problema, e anche per questo noi chiediamo il coinvolgimento attivo delle più alte sfere aziendali. Il nostro intervento “smuove le acque” per una presa di consapevolezza del problema – nei casi in cui esso viene effettivamente individuato – e per la ricerca di una strategia risolutiva.

Come convincete il management aziendale della necessità della rilevazione?
M.G.: Si tratta di un lavoro di sensibilizzazione verso il problema dello stress in azienda, che passa necessariamente anche attraverso il mostrare la rilevanza della perdita economica. Partiamo da un discorso di benessere individuale e collettivo, ma facciamo anche leva sulla correlazione tra stress dei lavoratori e calo di performance aziendale. Un secondo aspetto che evidenziamo riguarda la proporzionalità dell’intervento: i costi per una media azienda sono facilmente sostenibili, con una perdita di valore rilevata che può assumere dimensioni ben più importanti.

F.B.: E’ importante ricordare però che chi si rivolge a noi non lo fa certo nel solo tentativo di assolvere velocemente e facilmente all’obbligo di legge. Si tratta di realtà che credono nell’importanza del tema e vogliono dimostrare attenzione verso i dipendenti.
Ci è anche successo che l’analisi abbia rivelato una realtà aziendale meno rosea di quanto il management non pensasse, creando uno shock rispetto all’immaginario iniziale. Di fronte a un feedback estraneo, in alcuni casi la reazione è stata positiva, mentre in altri ha creato un vero e proprio stallo.

Come si differenzia la vostra analisi da un’indagine di clima?
M.G.: La metodologia che utilizziamo è molto più complessa e articolata. Non ci limitiamo alla somministrazione di un questionario, standardizzato e generalmente a risposta chiusa, ma combiniamo diverse misure quantitative e qualitative che riescano anche ad “aprirsi” e cogliere tutte le voci in maniera più fedele possibile.

Operate più spesso in realtà aziendali medio-grandi o riuscite a coinvolgere anche le PMI?
M.G.: Lavoriamo soprattutto con medie imprese. Nonostante i nostri costi siano proporzionati alle dimensioni dell’azienda, credo che nelle PMI – dove c’è un rapporto diretto e quotidiano tra dipendente e datore di lavoro – ci sia meno necessità di apparati e strumenti per la rilevazione. Certo, questi potrebbero essere utili per dare maggiore organicità alle percezioni e più sistematicità alle soluzioni in campo, però ritengo che il titolare di una PMI sia aiutato nella rilevazione del malessere dei dipendenti da canali di informazione informali e diretti.

Al contrario, credo che le grandi imprese a oggi si limitino soprattutto ad assolvere all’obbligo di legge. Nella mia esperienza, anche le indagini di clima sono più richieste dalle medie che dalle grandi imprese. Secondo me perché queste ultime sono meno sensibili rispetto alla soggettività e alla dimensione individuale, e tendono a prediligere a priori analisi quantitative applicabili ai grandi numeri del loro organico ad approcci più qualitativi. Lo dimostra il fatto che le grandi aziende sono invece molto orientate verso indagini sulla soddisfazione dei dipendenti, meno onerose a livello economico e di gestione delle modalità e dei risultati, ripetute spesso su base annuale.

In quali settori l’indagine è più utile?
M.G.: Credo lo possa essere in tutti. Però è certo che è tanto più utile quanto più il settore è labour intensive. In base cioè a quanto la qualità del bene prodotto o servizio erogato dipende dal lavoro delle persone e dalle relazioni interpersonali, come può essere un ospedale o un call-center. Nel mondo produttivo in senso stretto prevale il tema della sicurezza sul luogo di lavoro, mentre nelle società di servizi potrebbe esserci più margine per un’analisi qualitativa.

Le soluzioni offerte

Una volta concluso l’assessment, quali soluzioni proponete all’azienda?
M.G.: In base al budget dell’intervento, definito dall’azienda anche grazie alla valutazione di proporzionalità che abbiamo precedentemente elaborato, facciamo diverse proposte. Abbiamo un repertorio di strumenti, ma si tratta comunque di soluzioni ad hoc proposte in seguito all’indagine. Diamo quindi diversi orientamenti in base alle cause rilevate. L’utilizzo del VDI serve proprio a rendere trasparente il processo di valutazione e individuabili i singoli elementi. Forniamo delle simulazioni di combinazioni che aiuterebbero ad abbassare significativamente il VDI, fornendo anche delle ipotesi di risultato.

F.B.: L’utilizzo dell’indicatore ci consente di mantenere il nostro approccio “laico” e distaccato, partendo dagli aspetti più rilevanti per arrivare alle cose più meno gravi, con l’idea di un miglioramento continuo.

M.G.: Faccio un esempio particolare. Se riscontriamo che le cause di stress sono riconducibili a modalità di lavoro che non possono essere modificate per quella specifica produzione, possiamo studiare dei sistemi di prevenzione e individuazione dello stress, da attuare all’interno dei gruppi di lavoro, che aiutino a riconoscere precocemente i casi critici in cui il livello di stress sta superando una determinata soglia così da supportare individualmente ogni caso. In assenza cioè della possibilità di attuare interventi strutturali, ci sono misure preventive che consentono di identificare il problema nelle primissime fasi di insorgenza.
Un altro modo è la formazione al personale, per la gestione dello stress a livello individuale ma anche per l’individuazione e la ricerca di soluzioni nel caso dei responsabili delle funzioni.

F.B.: Il ruolo della consulenza oggi non consiste in un lavoro continuativo svolto all’interno dell’azienda. Le imprese non vogliono un consulente a tempo indeterminato, ma si aspettano uno specialista che le aiuti a crescere. Innanzitutto contribuendo all’individuazione del problema, e poi proponendo soluzioni qualora l’azienda ritenga di non poterlo fare internamente. E’ necessario che siano loro a fare “il passaggio psicologico” verso una visione d’insieme rispetto ai diversi interventi possibili.
Noi puntiamo innanzitutto sul contributo di analisi, senza esautorare a priori il management della capacità di elaborare una soluzione con le proprie forze. Nello stesso modo, finito il nostro lavoro lasciamo all’azienda la responsabilità di monitorare i risultati delle soluzioni implementate.

Il tema della “proporzionalità” è molto delicato, non credete?
M.G.: Certo. Infatti credo che la nostra forza sia anche la schiettezza che utilizziamo rispetto a questo. Sappiamo che ai rappresentanti dei lavoratori può non piacere l’idea di stanziare il budget in base al valore perso in termini di performance, ma noi cerchiamo di essere sempre equidistanti e proporre soluzioni di buon senso. Anche perché la nostra valutazione porta in prima analisi alla consapevolezza circa la necessità di un intervento, che non è poca cosa.
E credo che le relazioni sindacali ultimamente si stiano evolvendo nel senso del “bene dell’azienda”, nel suo complesso. E’ chiaro però che parlo in base alla nostra esperienza. Le realtà in cui ci sono radicalizzazioni molto accentuate difficilmente si sottoporranno al nostro iter di valutazione condiviso.

Chi sono i vostri interlocutori all’interno dell’azienda? Chi prende le decisioni rispetto alle misure da attuare?
M.G.: Ci siamo resi conto che, se anche la promozione dell’iniziativa arriva dalla direzione delle risorse umane, è sempre meglio coinvolgere nel progetto fin dall’inizio la più alta sponsorship possibile, come l’amministratore delegato e il comitato direttivo. E’ importante perché i risultati dell’indagine coinvolgono l’azienda nel suo insieme, e le decisioni che devono essere eventualmente prese come conseguenza degli esiti riguarderanno l’intera organizzazione aziendale. In questi casi non è infatti sufficiente l’impegno della gestione del personale perché molto spesso fattori causali sono anche gli stessi processi e modalità di lavoro.

Avete occasione di interagire anche con le rappresentanze sindacali? Se sì, in che modo e con quali risultati?
M.G.: Così come non possiamo fare a meno dei vertici aziendali, abbiamo bisogno delle rappresentanze sindacali. Abbiamo sempre avuto esperienze positive: i sindacati spesso chiedono solamente di poter partecipare all’iter, con gradi di coinvolgimento variabile. Alcuni vogliono essere a conoscenza delle modalità, mentre altri hanno chiesto di poter partecipare ai gruppi. Dal canto suo, il management aziendale che abbiamo incontrato si è dimostrato disponibile nei confronti di queste richieste.

Tra le cause principali ci sono gli orari di lavoro, non come turnistica ma più spesso come frammentazione e organizzazione dell’orario. Ad esempio le pause che possono diventare “vuoto non riempito”.

F.B.: Un’altra è invece la richiesta di svolgere attività senza istruzioni adeguate, scarsa informazione circa le mansioni e richieste pressanti o formulate in maniera aggressiva. In questi casi proponiamo formazione e coaching.

Quali sono le misure che ritenete più utile introdurre?
M.G.: Dipende dalle cause. Quando si tratta di questioni legate all’organizzazione del lavoro, proponiamo anche interventi trasformativi, che devono però in ultima analisi essere attuati all’interno dell’azienda. Talvolta indichiamo l’opportunità di interventi architettonici, anche se chiaramente in quel caso non ne curiamo direttamente l’attuazione. Ci occupiamo invece di tutte le attività interne di formazione e sensibilizzazione, così come proponiamo soluzioni organizzative. Queste ultime sono poi soggette alle decisioni nell’ambito delle relazioni industriali.

F.B.: Ci capita anche di proporre miglioramenti dei servizi informativi e delle procedure di controllo. Uno dei fattori che analizziamo all’interno del VDI è la rintracciabilità, cioè la capacità e il costo delle attività di controllo.

Valutazioni e prospettive

Le aziende sembrano sufficientemente sensibili al tema? Quante hanno introdotto misure nuove per contrastare lo stress in azienda?
M.G.: Purtroppo siamo ancora all’inizio – abbiamo concluso l’analisi su tre aziende – e la nostra casistica non è abbastanza numerosa per fare valutazioni di questo tipo.

Che prospettive vedete?
F.B.: Se è vero che la normativa è stata la spinta iniziale, ci siamo presto accorti che non aiutava lo sviluppo del progetto perché esso lavora su un livello diverso. Le aziende oggi non sono ancora mature per un intervento così articolato, ma siamo convinti si tratti di un investimento di lungo periodo. Il progetto non risponde a una moda, si poggia su una metodologia solida che continueremo ad affinare. Combina l’analisi dei rischi a discipline diverse come la psicologia e l’analisi economica, assicurando una spendibilità di lungo periodo. Anche la crisi non ci ha aiutati. Ironicamente, perché si tratta di un metodo per aiutare a spendere meglio. Ma ci vuole la lungimiranza di comprenderne l’investimento.

Come state sviluppando il progetto S.M.E.C.A?
M.G.: Stiamo continuando a lavorare per rendere sempre più snella ed efficiente la fase diagnostica e di individuazione dello stress in azienda introducendo sistemi informatizzati per la compilazione di questionari online, ad esempio attraverso la intranet aziendale.

F.B.: L’informatizzazione del servizio lo renderà tra l’altro sempre più economico, e agilmente replicabile.

Che nesso c’è tra welfare aziendale e interventi volti a contenere/risolvere problemi di stress aziendale?
M.G.: C’è una stretta correlazione. Occuparsi del rischio stress attraverso S.M.E.C.A. è solo una delle possibili opzioni, ma rimane essenziale parlare di stress in azienda se si vuole affrontare il tema del welfare dei dipendenti. Non dimentichiamo che lo stress è la maggiore causa di assenteismo, e c’è indubbiamente una relazione con gli infortuni sul lavoro. Lo stress mina la salute e il benessere delle persone.

Ci rendiamo però conto che il nostro intervento rispetto all’ampiezza del welfare aziendale è assolutamente parziale. Si tratta di un inizio, un tentativo di sensibilizzare rispetto alle responsabilità dirette dell’azienda. Intorno a questo si può però costruire un discorso economico e sociale che evidenzia il contributo del datore di lavoro come soggetto del welfare.

F.B.: Diciamo da sempre che se un dipendente ha problemi personali, di carattere economico o meno, è normale che non riesca a “lasciarli fuori” dal luogo di lavoro. Ci sono casi in cui anche l’azienda può fare qualche cosa, ma qui entriamo nel dibattito sul ruolo sociale dell’impresa all’interno della società civile.
 

Riferimenti

Il sito di Vera Consulting

Il sito di Airis Consulting

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