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A partire da una ricostruzione dello sviluppo dello stato sociale novecentesco, il libro “Welfare e trasformazioni del lavoro” (Ediesse, Roma, 2019) analizza i mutamenti intervenuti nell’ambito del lavoro e dei modelli di produzione dalla fine degli anni ’70 a oggi. La crisi del welfare è andata di pari passo con la crisi del fordismo e di quella straordinaria stagione di crescita su cui si sono retti, in Italia e in tutta Europa, i modelli di welfare assicurativi. L’esito più evidente di tale fenomeno è una strutturale insicurezza sociale. Eppure numerose iniziative, nell’ambito dell’ampio e frastagliato mondo dell’innovazione sociale, stanno prendendo forma “dal basso”, configurando risposte inedite a bisogni sociali eccedenti. Sempre più frequenti sono le esperienze di collaborazione e di condivisione, pur in un mercato la cui pervasività ne determina contraddizioni e ambivalenze. È questo l’orizzonte in cui si sta sviluppando la cosiddetta “sharing economy”, nonché l’intera economia delle piattaforme digitali. In questo quadro, viene analizzata la funzione di un reddito di esistenza universale, che viene oggi proposto in forme diverse e in più parti del mondo. Esso consentirebbe ad ogni persona di esistere dignitosamente indipendentemente dal posto che occupa all’interno del mercato, dando a ciascuno la possibilità di costruire liberamente il proprio futuro.

La società del lavoro salariato

La prima sfida che il volume si pone è quella di decostruire il lavoro come valore astratto, spesso assunto come categoria dello spirito, per riportarlo ai rapporti di produzione su cui ha storicamente poggiato, grazie ad una genealogia delle forme di soggettività associate ai modelli di organizzazione del lavoro. Il lavoro salariato ha costituito non solo l’asse fondamentale su cui ha fatto perno lo sviluppo del welfare ma anche, in generale, la pietra angolare del diritto, in tutta la tradizione giuridica moderna. Lo dimostra la rappresentazione moderna dello Stato nella tradizione giuridico-filosofica. Secondo Locke, il lavoro giustifica l’appropriazione dei beni che appartengono allo «stato comune». Lo Stato di diritto nasce dalla stipulazione di un contratto sociale con cui gli individui si costituiscono in una società per salvaguardare la propria vita, la propria libertà e i propri beni. Questi tre elementi costituiscono la proprietà. L’uomo può appropriarsi dei frutti del proprio lavoro in quanto egli è innanzitutto proprietario di sé.

Nell’Ottocento Marx ci offre una genealogia diversa della proprietà, riconducendo la centralità di quest’ultima e del lavoro astratto a un processo storicamente determinato. All’interno del primo libro del Capitale Marx identifica due momenti cruciali nello sviluppo del capitalismo: le enclosures in Inghilterra e la colonizzazione. Il presupposto dell’accumulazione capitalistica sta nella separazione fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro, una separazione “forzata”, in quanto fondata sulla conquista e sulla violenza. La libertà e l’eguaglianza segnano il profilo della personalità giuridica, quale involucro formale del soggetto incarnato, costretto a vendere la propria forza lavoro pur di sopravvivere, cedendo alle condizioni imposte dai proprietari dei mezzi di produzione. La dipendenza materiale agisce al di sotto della legge, trovando in questa e nel contratto di scambio la mediazione che la rende generale e stabile. Eppure, se il diritto moderno aveva come soggetto di riferimento l’individuo libero ed eguale, astratto dai rapporti materiali che lo legavano agli altri lavoratori in un medesimo processo di dipendenza e alienazione, è stato proprio tale legame, entro i luoghi e le dinamiche della produzione, a fungere da fattore ricompositivo, stimolando la costituzione di identità e di processi di rivendicazione collettiva.

Tale processo è stato senz’altro favorito dall’omogeneità delle condizioni che hanno caratterizzato il lavoro di fabbrica, su cui poi ha fatto leva in particolare il modello di organizzazione taylorista-fordista. Tale coincidenza ha favorito la nascita di identità collettive la cui conflittualità è stata integrata nel ’900 grazie all’intelligenza del costituzionalismo europeo e in particolare italiano, entro la mediazione politica e sindacale. È nel solco di questa mediazione, nell’ambito dello specifico contesto geopolitico del secondo dopoguerra, che si svilupperanno i grandi sistemi di protezione sociale novecenteschi, che costituiranno una sorta di “proprietà sociale” – come la definisce Robert Castel – a difesa del lavoratore, che ha permesso la riabilitazione anche dei soggetti non proprietari.

Oggi, almeno in Europa e più in generale nelle economie occidentali, quella mediazione è completamente saltata, forzata in più punti e in numerose direzioni. Quella determinazione rigida e coercitiva che segnava, nell’ambito dell’economia industriale, il rapporto fra capitale e lavoro, è divenuta progressivamente più complessa, nell’ambito di una evoluzione in senso «governamentale» del potere, per citare Foucault, ben oltre il perimetro dei singoli stati. La cifra che ci sembra caratterizzare l’attuale modello di produzione è l’eterogeneità, a livello di posti, mansioni, profili contrattuali, luoghi di lavoro. Il mercato necessita di creatività e spirito di iniziativa, ben oltre la definizione rigida delle mansioni che caratterizzava il modello fordista: per questo, è necessario accrescere il dinamismo soggettivo, circoscrivendo l’ambito della libertà entro i confini dell’interesse economico.

Le ragioni del reddito di esistenza universale

I modelli di sicurezza sociale sviluppatisi in Europa nel Trentennio Glorioso, in questo quadro, mostrano tutti i propri limiti, essendo per lo più tarati sul lavoratore maschio, bianco, occupato stabilmente, in grado all’occorrenza di servire il proprio paese in armi. Sempre più animata è diventata, negli ultimi anni, la discussione a livello internazionale sul reddito di base, o reddito di esistenza universale. Con questa espressione si identifica generalmente un reddito indirizzato individualmente a tutti i cittadini, incondizionato, cumulabile con ogni altro reddito. Attorno a questo dispositivo negli ultimi anni, in maniera quasi sorprendente, c’è stata la convergenza di prospettive teoriche anche molto distanti fra loro: in primis liberale, repubblicana, neo-costituzionalista, post-marxista.

All’interno del volume, il reddito di esistenza universale viene presentato come il riconoscimento della possibilità della persona di esistere dignitosamente indipendentemente dal posto che ciascuno occupa all’interno del mercato. Perché se persino la sopravvivenza è costretta all’interno del mercato, quest’ultimo, piuttosto che configurarsi nei termini di un campo di possibilità attraversabile e modificabile, viene a costituire l’articolazione assoluta e inespugnabile della realtà. Il reddito, oltre che rafforzare il potere contrattuale di lavoratori, disoccupati, lavoratori autonomi e nuove figure produttive, va oltre: esso ha la funzione di rompere la determinazione unilaterale a opera del mercato delle forme di vita, costituendo la condizione imprescindibile per una riappropriazione della realtà. In questa chiave esso, senza sottrarsi all’orizzonte del mercato a cui siamo costitutivamente esposti, costituisce un grimaldello che apre la strada alla disarticolazione dell’organizzazione mercantile dei rapporti sociali, consentendo a ciascuno di decidere e di autodeterminarsi liberamente. In questa direzione il potenziale emancipatorio del reddito di esistenza si estende anche alle forme di lavoro iscrivibili all’interno della subordinazione tradizionale, tutt’altro che scomparse, così come la produzione di tipo industriale organizzata entro logiche fordiste, superando anche il perimetro delle economie occidentali.

Il reddito di esistenza, in quest’ottica, ha allora una funzione potremmo dire «politica»: è il presupposto per un processo potenzialmente più ampio, che miri ad una messa in discussione dei rapporti di sfruttamento e dipendenza che caratterizzano l’attuale fase di accumulazione postfordista. La nostra visione, allora, mette capo a una concezione dell’emancipazione «dal basso», che non si fonda semplicemente sulla subordinazione del mercato alla decisione politica, ma innanzitutto sulla democratizzazione delle istituzioni politiche stesse, che siano espressione dell’auto-organizzazione volontaria della società.

Numerosi studi di sostenibilità economica hanno dimostrato come sia possibile finanziare un reddito universale incondizionato anche a livello statale, ricorrendo alla fiscalità generale. Tuttavia ci sembra che la questione vada affrontata, anche in riferimento alla sostenibilità del dispositivo, in tutta la sua complessità. Il carattere globale del mercato determina una deficienza strutturale della capacità regolatoria dei singoli Stati. Ciò indurrebbe a pensare che qualsiasi tentativo di ostacolare l’assolutezza del mercato debba poggiare su istituzioni anch’esse dal carattere trans-nazionale – a partire, ad esempio, dalle istituzioni europee – che siano capaci di opporre un ripensamento complessivo dell’organizzazione sociale, all’altezza delle forze opposte. Nell’ambito di questa visione, che ci sembra assolutamente coerente, il reddito di esistenza dovrebbe essere istituito a livello trans-nazionale. Un’altra possibilità, del tutto inedita, a partire dalla lezione di Erik Olin Wright, è quella di sperimentare la forza conflittuale di nuove istituzioni agendo in maniera interstiziale, dal basso verso l’alto. In questo quadro anche un dispositivo come il reddito può essere attuato, seppur in forme limitate, entro i contesti sociali e istituzionali in cui la convergenza di soggettività e strategie su obiettivi comuni provoca uno sbilanciamento dei rapporti di forza a proprio favore. Nell’ambito di tale prospettiva, anche il reddito non può essere inteso come un dispositivo immodificabile, ma va declinato entro le forme compatibili con i contesti istituzionali specifici, nonché in relazione alle soggettività politiche che si fanno carico di attuarlo. Entro i processi di mediazione che inesorabilmente costringono, soprattutto in contesti territoriali più limitati, a ridimensionare il dispositivo, è necessario tenere a mente la contraddittorietà che lo caratterizza sul piano della condizionalità, il cui tasso più o meno alto può determinare il suo rovesciamento da strumento di libertà a dispositivo di ricatto.

Conclusioni: la solidarietà oltre il mercato

Tale funzione emancipatoria del reddito di esistenza oggi potrebbe essere particolarmente urgente di fronte alle contraddizioni che caratterizzano l’economia di piattaforma, nonché rispetto al campo di tensione entro il quale si sta sviluppando la cosiddetta “innovazione sociale”. Sempre più frequenti sono le esperienze di collaborazione e solidarietà che fanno fronte, dal basso, alla moltiplicazione dei bisogni sociali. Tali esperienze, però, spesso prendono forma entro piattaforme di proprietà di grosse corporation. La struttura privatistica di queste, nonché l’assenza di qualsiasi protezione sociale per chi partecipa agli scambi, tramutano la possibilità della collaborazione nell’offerta di prestazioni a pagamento, per conto di un privato che detiene la proprietà della piattaforma, in assenza delle tutele previste per i lavoratori subordinati.

In uno scenario in cui, allora, l’innovazione sociale si sta sviluppando nel solco di una contraddizione fra inclusione e sfruttamento, il reddito di esistenza può favorire lo sviluppo autonomo della solidarietà, generando un nuovo modo di convivenza e di relazione, in cui venga riscritta dal basso la possibilità di vivere dignitosamente, autodeterminarsi e cooperare

Riferimenti

Pisani G. (2019), Welfare e trasformazioni del lavoro, Ediesse, Roma