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Nei sistemi politici europei la maggioranza degli elettori si colloca al «centro». Per vincere le elezioni i partiti non possono ignorare, anzi dovrebbero attrarre una quota consistente di quest’area. Lo si può fare «da destra» oppure «da sinistra», facendo leva su alcuni valori ed obiettivi specifici dell’una o dell’altra parte, purché in modo misurato e responsabile. Che cosa vuol dire essere di centro? Tradizionalmente, questa posizione si misurava sull’asse destra-sinistra (più mercato, meno tasse, più spazio all’iniziativa privata verso il polo di destra; più intervento pubblico, più welfare, più eguaglianza verso il polo di sinistra).

Sulla scia della globalizzazione, dell’interdipendenza economica e dei flussi migratori, nell’ultimo ventennio è però emerso un secondo asse, che gli esperti chiamano «chiusura contro apertura». Verso il polo della chiusura si colloca chi vuole tornare all’autonomia nazionale, al controllo dei confini, alla restrizione della libertà di movimento (i cosiddetti «sovranisti»). Verso il polo della apertura si posiziona invece chi è a favore di più integrazione, sia economica sia politica, in particolare per quanto riguarda la UE. Gli elettori di centro rifiutano gli estremi su entrambe le dimensioni. Tengono alle libertà economiche, ma credono anche nella solidarietà. Apprezzano l’Europa, ma pensano che l’integrazione possa avere alcune conseguenze negative.

Non si tratta di cittadini senza tempra o carattere. E neppure, necessariamente, di moderati, ostili al cambiamento. Sono, piuttosto, elettori realisti: attenti ai valori e agli interessi, ma anche ai contesti che ne condizionano la realizzazione. Gli elettori di centro (centrosinistra o centrodestra) sono la spina dorsale della democrazia liberale. È il loro sostegno che ha consentito di costruire quella «economia sociale di mercato» che tutto il mondo invidia all’Europa. In Italia l’elettorato di centro ha appoggiato con tenacia il cammino verso la modernità, confidando nella possibilità di trasformare la penisola in un Paese «normale».

Quanti sono oggi in Italia questi elettori? La larga maggioranza. Ragionando sui dati a disposizione, la mia stima è fra il 55 e il 65 per cento sul totale della popolazione adulta. La percentuale resta sopra la soglia, con qualche variazione, per tutte le fasce di età e le categorie occupazionali, inclusi i lavoratori manuali, i pensionati, i disoccupati. Non è difficile immaginare il disorientamento che tale imponente massa di elettori sta provando in questa campagna elettorale. In aggiunta alle tante e persistenti anormalità italiane, il Parlamento in scadenza ne ha aggiunta una davvero scellerata: il Rosatellum. Una legge elettorale che incentiva leader e candidati (salvo rarissime eccezioni) ad essere il più reticenti possibile sulle future scelte di coalizione, a differenziarsi dagli altri in base a categorie prepolitiche come serietà, onestà, mitezza, arroganza piuttosto che in base a idee e valori, a promettere la luna senza precisarne i costi. È chiaro che anche dopo il 4 marzo l’Italia continuerà ad avere un qualche governo operativo, con buona pace del signor Juncker. Ma i giochi sul «chi» e sul «cosa» si faranno solo dopo il voto.

I programmi elettorali per la verità sono disponibili e il Corriere sta cercando di riassumerli in schede tematiche. La sintesi è difficile e, come hanno già scritto Enrico Marro e Federico Fubini, molte proposte sono generiche, non si capisce come verranno finanziate. Eppure non tutto è «fuffa». Anzi, spulciando fra i testi, si trovano diverse idee originali su problemi che interessano da vicino gli italiani: scuola, sostegni alle famiglie, sanità, non autosufficienza. Oppure su temi cruciali per il nostro futuro: formazione, ricerca, sviluppo industriale, le politiche della UE. Tagliando e cucendo, si riuscirebbe persino a mettere insieme una lista di priorità sensate, sostenibili e incisive. Una «agenda Italia», insomma, condivisibile dai vari partiti che si collocano a cavallo del centro (nelle sue due dimensioni) e in linea con le attese di quella maggioranza silenziosa alla quale nessuno ora sta parlando con serietà e franchezza. È assai improbabile che i leader si muovano in questa direzione nell’ultima settimana prima del voto. Potrebbe però farlo chi li interroga quotidianamente sui media, soprattutto in televisione.

Anche nel dibattito politico, la qualità non dipende solo dalle risposte, ma anche dalle domande. Screditare le «sparate» irresponsabili e far emergere le buone idee, magari raccordandole fra loro, farebbe accendere alcune lampadine prima che i leader politici entrino nel buio del dopo voto. E servirebbe anche a orientare il gruppo centrale di elettori indecisi che vorrebbero votare con la testa, ma che adesso non sanno da che parte voltarla.


Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 24 febbraio e qui riprodotto previo consenso dell’autore