Per molti studenti, il benessere a scuola comincia dal loro nome.
Dal sentirlo compreso, pronunciato giusto dai docenti e ripetuto correttamente dai compagni. Sembra un dettaglio, ma per gli alunni con background migratorio è un aspetto determinante.
“Se un professore pronuncia male il mio nome mi viene da chiedermi che cosa gli importerà di me, dei miei risultati e delle mie difficoltà”, dice Espérance Hakuzwimana, che ha appena pubblicato con Einaudi il libro “Tra i bianchi di scuola. Voci per un’educazione accogliente“.
Hakuzwimana è nata in Ruanda nel 1991. Ha studiato all’università di Trento e nel 2015 si è trasferita a Torino, dove ha frequentato la Scuola Holden. Ha raccontato la sua storia in E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana (People 2019) mentre, sempre con Einaudi, ha pubblicato nel 2022 il suo romanzo d’esordio, Tutta intera.
“Tra i bianchi di scuola” è un saggio di circa 100 pagine suddivise in cinque capitoli, che attinge molto alle storie di più generazioni di studenti con background migratorio e alle attività che Hakuzwimana svolge nelle scuole con il progetto Na.Co – Narrazioni Contaminate.
Il punto di partenza della riflessione al centro del libro è che la scuola italiana è sempre più multiculturale. Secondo i dati del Ministero dell’Istruzione e del Merito relativi all’anno scolastico 2022/2023, il numero totale di studenti e bambini con cittadinanza non italiana presenti nelle scuole del nostro Paese è ulteriormente cresciuto, arrivando a toccare 914.860 unità, con un incremento di ben 42.500 unità (+4,9%) rispetto all’anno precedente.
Il fenomeno non è più nuovo, ma il sistema dell’istruzione fatica ad adeguarsi e rimane largamente impreparato. E questo non contribuisce affatto al benessere di studenti e studentesse, di cui da tempo ci stiamo occupando su Secondo welfare. Anzi, al contrario, genera tristezza, frustrazione, rabbia. Ed è proprio da questi sentimenti che nasce “Tra i bianchi di scuola”.
Tristezza, frustrazione e rabbia
Frequentando le scuole italiane, Hakuzwimana ha visto come “alcuni alunni vivano ancora dinamiche discriminatorie e questo mi ha fatto provare frustrazione e tristezza”. Così, spiega l’autrice in un’intervista con Percorsi di secondo welfare, “il mio obiettivo è diventato mettere le voci di questi bambini in copertina, amplificandole il più possibile e mantenendo al tempo stesso la loro pluralità”.
Valutare bene per stare meglio: intervista a Cristiano Corsini
A suo parere, molti ragazzi stranieri o con background migratorio non si rendono conto delle difficoltà che vivono durante gli anni della scuola, o non riescono ad elaborarle in maniera completa e positiva. “Li percepisco arrabbiati e desiderosi di essere visti e riconosciuti, ma si interfacciano con insegnanti, spesso di una certa età, che non hanno avuto nessun tipo di formazione per affrontare la realtà scolastica attuale”, riflette Hakuzwimana.
Per questo, il libro vuole essere uno strumento utile sia agli alunni sia agli insegnanti.
Perché entrambe le figure hanno bisogno di quella che viene definita una “scuola plurale”.
“Noi la chiamiamo scuola plurale”, si legge nel volume, “perché dentro la nostra identità sfaccettata è salva, le nostre lingue che a volte avete chiamato dialetti sono salve […] E con loro la vita in pieno controsenso in un mondo occidentale che mette alla prova le nostre origini asiatiche, africane, sudamericane, balcaniche”.
E questo tipo di scuola si comincia a costruire chiamando le persone per nome.
Il potere del nome: identità e riconoscimento
“Quando vado nelle scuole, per esempio elementari, chiedo ai bambini di raccontare la storia del loro nome o se è un nome di origine straniera chiedo di dire cosa significa”, racconta Hakuzwimana. “Con questo esercizio, molti alunni si rendono conto che il nome che di solito storpiano o prendono in giro ha un valore”, aggiunge.
Per la scrittrice e attivista, il nome è “il primo biglietto da visita che i ragazzi danno a scuola” ed è quindi anche “una possibilità di incontro”, soprattutto per chi ha un background migratorio. Se però questa occasione non viene colta o, peggio, viene negata storpiando un nome, non usandolo o cambiandolo, “qualcosa si spezza” e “la mia identità comincia a sgretolarsi”.
“Se il nome non viene capito, non viene imparato dai compagni e dagli insegnanti significa che il ragazzo non esiste, che non ha importanza”, ribadisce Hakuzwimana. Quello del nome è solo uno dei motivi per cui gli alunni con background migratorio possono faticare a scuola. E accumulare emozioni difficili da elaborare.
Spesso, sostiene l’autrice di “Tra i bianchi di scuola”, “la consapevolezza arriva dopo, insieme alla rabbia e alla frustrazione che, se non vengono incanalate, causano una dispersione nel futuro”. Con questo termine, Hakuzwimana non si riferisce solo alla dispersione scolastica (che pure è un grave problema). Lo usa per indicare una “dinamica di razzismo interiorizzato” per cui le persone che appartengono a delle minoranze razializzate1 finiscono per “introiettare una visione visione di loro stesse che è discriminatoria e molto limitante”.
Restando in ambito scolastico, per esempio, un alunno con background migratorio potrebbe scegliere una scuola superiore considerata poco impegnativa o non voler frequentare l’università perché non si sente all’altezza.
Un’occasione di crescita per tutto il mondo della scuola
In tutto questo, Hakuzwimana ritiene il ruolo degli insegnanti fondamentale.
“Avevo paura – confessa – che ‘Tra i bianchi di scuola’ venisse preso come critica agli insegnanti”. Al contrario, “l’obiettivo era quello di creare non tanto una guida ma un accompagnamento per le difficoltà che stanno affrontando”.
Tanto negli alunni la scrittrice vede frustrazione, quanto nei docenti vede solitudine. Questo sentimento va riconosciuto, secondo l’autrice, ma bisogna lavorare per cambiarlo. “La solitudine si può superare mettendosi in ascolto degli alunni, ma anche degli attivisti, entrando nelle specificità della storia e dell’esperienza italiana”, sprona Hakuzwimana.
Per la sua esperienza, “puntare il dito e accusare di essere razzista non porta da nessuna parte”; al contrario, “è importante rendere la conversazione più orizzontale possibile”. A maestri e professori serve formazione e strumenti per non fare sentire gli alunni con background migratorio “esclusi e accusati”, ma per “entrare in connessione con loro”.
In conclusione della nostra intervista, Hakuzwimana torna a rivolgersi agli studenti con background migratorio, come lei. Lo fa con tre consigli. “Riflettono quello che avrei voluto fare io, ma che non ho fatto forse perché ero sola e senza forza emotiva”, dice, prima di elencarli.
- Fatti valere: se hai un pezzo di storia in più raccontala;
- Non essere cattivo e sii paziente con il tuo insegnante: sta imparando anche lui;
- Goditi il fatto che hai una classe multiculturale: hai un’opportunità che fuori non è così ovvia.
Quest’ultimo consiglio è forse il più sentito e originale. Quello che tocca direttamente i più giovani, ma che a bn vedere, riguarda l’intera società. “Nella scuola pubblica – conclude Hakuzwimana – c’è una forte pluralità: se non riusciamo a gestirla dentro le classi, come potremmo farlo fuori?”.
Note
- La razzializzazione è il processo attraverso cui un gruppo dominante attribuisce caratteristiche razziali, disumanizzanti e inferiorizzanti, a un gruppo dominato, attraverso forme di violenza diretta e/o istituzionale che producono una condizione di sfruttamento ed esclusione materiale e simbolica. La parola razzializzata/o ci consente di vedere come la razza, che non esiste biologicamente, serva a mantenere rapporti di potere. http://www.razzismobruttastoria.net/progetti/le-parole-ci-mancano/razzializzazione/