Come è noto, l’emergenza sanitaria ha messo in luce molti aspetti problematici del nostro sistema. Ne abbiamo discusso a più riprese in questi mesi su giornali, riviste e siti web. Malauguratamente, le brutte notizie non finiscono qui. La pandemia ha anche mostrato con forza le fragilità delle nostre esistenze. Stiamo imparando che la morte non è sempre uguale, che essa, purtroppo, può essere ancor più drammatica se vissuta in completa solitudine, lontano dai propri affetti. Le nostre relazioni sono diventate veicolo di contagio, pericolose, da evitare e ridurre al minimo. La felicità di stare insieme ai nostri simili si è trasformata in paura. Felicità e paura si confondono, dando vita a sentimenti contraddittori mai vissuti prima. Siamo di fronte, se non proprio ad una inversione semantica delle categorie, ad una loro compenetrazione, che dà vita a emozioni differenti e altalenanti, che, come in un gioco di luci e ombre, a rotazione coprono e incupiscono le vite di tutti noi.
Da questa esperienza ancora in corso, abbiamo compreso che l’evenienza peggiore di una malattia non è solo la sofferenza fisica. C’è un di più che per troppi anni abbiamo dato per scontato: abbiamo scoperto l’ambiguità dei rapporti umani e allo stesso tempo la necessità degli stessi, l’irrinunciabilità delle relazioni. Abbiamo capito quanto per l’essere umano sia difficile rinunciare alla sua natura relazionale, anche quando in ballo c’è la salute o addirittura la vita stessa. La pandemia, dunque, ha messo e mette in discussione il paradigma dominante che vede la cura circoscritta al corpo e alla patologia, che esclude tutto quello che ci sta intorno, a partire dal conforto dei propri cari. Insomma, essa ci costringe ad una ridefinizione dei concetti stessi di malattia e di cura, suggerendone un allargamento.
Il fenomeno delle migrazioni sanitarie
Spiace a questo punto riflettere sul fatto che queste esigenze in fondo già le conoscevamo. Esse erano emerse in precedenza e, per molti versi, ne avevamo già parlato in modo piuttosto esplicito. Mi riferisco in particolare a tutte quelle discussioni e articoli scritti sulle migrazioni sanitarie, ovvero sulle persone che partono dal proprio luogo di residenza per curarsi in una struttura ospedaliera o di riabilitazione in un’altra regione italiana o, addirittura, che si ricoverano all’estero.
Da tempo, anche con il contributo del dipartimento welfare delle ACLI, seguo questo particolare fenomeno sociale. L’ultima fase di questo percorso di studi coincide con l’avvio di un’indagine sul campo. Nel 2018, quindi ben prima che il Coronavirus sconvolgesse le nostre esistenze, dopo uno studio approfondito, abbiamo avviato con Iref (Istituto di ricerca delle ACLI) una fase di studi e ricerche che si è conclusa qualche mese fa e che ha dato origine ad un report dal titolo “Viaggi con la speranza. Storie di famiglie colpite dalla malattia di un figlio”, presentato in un convegno organizzato dalla Acli e dal Forum delle Associazioni Familiari, l’11 febbraio 2021, in occasione della ventinovesima Giornata mondiale del malato.
I risultati dell’indagine offrono un quadro approfondito dei fabbisogni sociali espressi dai genitori che si spostano dal loro luogo di residenza per far curare i propri figli colpiti da patologie gravi presso l’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. In questo viaggio, disagevole e per molti versi lacerante, si consuma una vera e propria cesura biografica tra un "prima" e un "dopo". La scoperta del "male" che minaccia la vita di un bambino (o di un adolescente) diventa ben presto uno spartiacque nel vissuto familiare, con conseguenze psicologiche, economiche e sociali tutt’altro che secondarie per tutti i soggetti coinvolti da un evento a tutti gli effetti traumatico: madre e padre, fratelli o sorelle, nonni, altri parenti, e ovviamente il minore il cui stato di benessere viene seriamente pregiudicato da una malattia.
L’indagine mette in luce, inoltre, come le conseguenze della mobilità legata alla salute si riverberino in altre sfere rispetto a quella della cura sanitaria, pur rimanendo quest’ultima essenziale ai fini della guarigione dei minori che si ammalano gravemente. Lo scopo dello studio era del resto proprio quello di portare allo scoperto quei bisogni sociali che rimangono troppo spesso inevasi, non essendo oggetto di attenzione da parte di politiche e servizi. Da questo punto di vista, si possono intravedere tre dimensioni del disagio rispetto alle quali sarebbe urgente che i decisori pubblici intervenissero: impoverimento economico, disagio educativo, vulnerabilità familiare.
Che cosa significa “curare”?
I risultati parlano chiaro: è tempo di allargare il concetto di salute evitando che venga ridotto alla sola e semplice malattia. Da questo punto di vista, con molto piacere scopro di non essere il solo a pensarla così. Don Massimo Angelelli, Direttore dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Salute Conferenza Episcopale Italiana, proprio durante il convegno succitato, ha espresso con chiarezza un concetto praticamente identico “occorre riflettere su un aspetto di questa problematica, ossia il fatto che il SSN per come è organizzato, per come è costituito, è ancora incentrato intorno al concetto di patologia. Fino a quando il sistema continuerà a tarare la risposta di cura sulla patologia, noi non ci renderemo conto che siamo lontanissimi da una presa in carico olistica […] globale del paziente“
Secondo molti esperti, le relazioni non sono un “in più”, ma parte stessa della cura. Non possiamo tagliare queste relazioni, poiché esse sono un elemento fondamentale della cura stessa. Il tema di fondo a questo punto è: cosa significa curare? Se vogliamo veramente mettere al centro la persona dobbiamo ripensare il nostro modo di agire, a partire dal SSN. Occorre pervenire ad un modello che sappia tenere insieme la dimensione biologica e quella relazionale. Soltanto così potremo dire di aver preso in carico una persona nella sua totalità.
Pur nella sua specificità, l’indagine mette in luce anche la direzione da prendere in questo senso. Nel campo pediatrico-oncologico emerge con chiarezza come l’insorgere di una malattia metta in discussione anche i più elementari bisogni. Dato che spesso ci si deve spostare dalla propria regione d’origine per raggiungere i poli d’eccellenza del Centro e del Nord Italia, ogni famiglia si trova sovente ad affrontare numerosi problemi di ordine pratico ed economico, come ad esempio: la necessità di abbandonare il lavoro per almeno uno dei genitori, l’esigenza di trovare un alloggio nelle vicinanze dell’ospedale, la necessità di garantire la continuità scolastica al bambino e così via. In queste situazioni il rischio di cadere in povertà e/o di assenze importanti è autoevidente.
Potremmo quindi cominciare a costruire un nuovo modello sanitario proprio da qui, dai più piccoli e dalle loro famiglie. Come ho già affermato in altre occasioni, in Italia, se escludiamo alcune leggi regionali o la legge 104/92, che però non considera i lavoratori autonomi o i disoccupati, non esiste nessuna possibilità di ristoro per le famiglie che affrontano questo tipo di problemi, pur essendo questi ultimi ineludibili e non frutto di scelte volontarie. Bisogna superare queste evidenti ingiustizie prevedendo delle misure adatte e utilizzabili immediatamente al sorgere della malattia grave. Dovremmo elaborare una misura economica pubblica a sostegno delle famiglie, in poche parole un reddito di emergenza sanitaria (Re.E.S.).