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Proviamo a fare un esperimento mentale. Ci troviamo in un’ipotetica assemblea deliberativa senza sapere chi siamo concretamente nella realtà (età, sesso, istruzione, patrimonio e, soprattutto, il nostro stato di salute). L’unica certezza è che potremo disporre di un reddito minimo garantito dallo stato. Abbiamo conoscenze dettagliate ma di carattere generale sulle diverse patologie, la loro incidenza media e conseguenze, il costo delle cure. Dietro questo "velo d’ignoranza" sulle nostre condizioni individuali, quale tipo di organizzazione sceglieremmo? Secondo la prospettiva dell’egualitarismo liberale, sicuramente sceglieremmo un servizio sanitario nazionale: un’assicurazione obbligatoria per tutti i cittadini, con cure gratuite o quasi, della qualità migliore possibile.

Fu proprio questa la scelta che fece il governo inglese nel 1946. Il ristretto sistema mutualistico del 1911 sarebbe stato rimpiazzato, a partire dal 5 luglio 1948 (settanta anni fa), dal National Health Service, il primo servizio sanitario universale e pubblico della storia. Il Regno Unito usciva da una guerra estenuante, che aveva impegnato governo e amministrazione in uno sforzo enorme per cinque lunghi anni. Non si fece nessun esperimento mentale, ovviamente. Ma qualcosa di simile si: nel 1942 era stata formata una Commissione per la riforma delle prestazioni sociali che si era interrogata, fra l’altro, proprio sui principi per riorganizzare la sanità britannica. Il Presidente della Commissione era William Beveridge: un alto funzionario pubblico d’ispirazione liberale, molto attento al tema della eguaglianza di opportunità. Come è noto, subito dopo la guerra Churchill perse le elezioni e si formò un esecutivo laburista guidato da Clement Attlee. Quest’ultimo vide nelle proposte di Beveridge un duplice potenziale: affrontare con un approccio nuovo i problemi sanitari del paese, aggravati dalla guerra e al tempo stesso “fare qualcosa di sinistra” attraverso una grande riforma sociale imperniata sull’intervento pubblico. Il neo-nato NHS nazionalizzò gli ospedali, trasformò i loro medici in dipendenti pubblici e centralizzò gestione e controllo a Londra. Il primo ministro della sanità Aneurin Bevan usava dire che nel “suo” NHS non si spostava una penna senza che lui lo venisse a sapere. Nei successivi trent’anni la spesa pubblica per la sanità raddoppiò in percentuale del PIL, il personale ospedaliero crebbe del 50%, la speranza di vita aumentò di quattro anni, la mortalità perinatale diminuì dal 30% al 12%. Fu un grande successo, che rese il NHS una delle istituzioni più popolari ed amate da parte dei cittadini britannici e che finì per essere non solo mantenuta, ma anche potenziata dai governi conservatori, i quali nel 1946 avevano osteggiato la “socializzazione” della medicina.

Poi, alla fine degli anni Settanta, venne Margareth Thatcher, che inizialmente voleva smantellare il NHS. Ma si rese conto che sarebbe stata una scommessa con alte probabilità di sconfitta, anche sul piano elettorale. I suoi sforzi si concentrarono dunque su un obiettivo più limitato: mantenere l’universalismo della copertura ma ridurre lo “statalismo” del NHS con una duplice ricetta. Innanzitutto sostituendo i funzionari di estrazione burocratica con manager professionisti, capaci di introdurre una logica di tipo più privatistico per accrescere l’efficienza. In secondo luogo, introducendo i cosiddetti “mercati interni” al sistema pubblico. Sia gli ospedali sia gli studi medici associati avrebbero dovuto competere fra loro per ottenere risorse pubbliche (al di sopra di uno zoccolo di base), in modo da incentivare innovazione e qualità. Le riforme Thatcher hanno avuto luci ed ombre e sono state più volta modificate negli ultimi vent’anni, soprattutto sotto i governi laburisti. Thatcher ha avuto però il merito di recidere il legame che si riteneva indissolubile fra copertura universale ed egual trattamento, da un lato, e gestione interamente pubblica dei servizi sanitari, dall’altro lato.

L’esempio inglese ebbe grandissima eco in Europa. I paesi nordici istituirono anch’essi dei servizi sanitari nazionali fra gli anni Cinquanta e Settanta. Poi venne varata la riforma italiana, nel 1978 (compleanno nel prossimo dicembre: quarant’anni). Il nostro Servizio Sanitario Nazionale rimpiazzò il mastodontico sistema mutualistico sviluppatosi a partire dagli anni Trenta, caratterizzato da alta frammentazione gestionale e forti disparità di trattamento. Noi tendiamo sempre a denigrare i nostri governi e la loro scarsa capacità riformista. Ebbene, la riforma sanitaria del 1978 fu uno dei cambiamenti istituzionali più radicali e incisivi registrati nel secondo Novecento in Europa nel campo del welfare. Per più di un decennio, con scorno dei britannici, il nostro SSN divenne il più grande servizio nazionale del mondo in termini di spesa e cittadini coperti. L’esperienza dell’Italia fu presto seguita anche da Portogallo, Spagna e Grecia. Nel suo complesso, si è trattata di una esperienza di grande successo. Nelle classifiche internazionali sulla qualità e l’efficacia dell’assistenza sanitaria, l’Italia si situa oggi al dodicesimo posto, prima del Regno Unito.

La riforma del 1978 fu per molti aspetti il risultato più significativo del cosiddetto “compromesso storico” fra DC e PCI. Purtroppo mancò nella progettazione del nuovo sistema l’anima liberale: il SSN italiano nacque con un forte pregiudizio statalista. Nel nostro paese, è noto, lo stato è sempre stato debole, esposto alle pressioni e alle infiltrazioni dei gruppi di interesse e della politica. A differenza del Regno Unito – che poteva disporre di una amministrazione pubblica autonoma e professionalizzata – il Servizio Sanitario nazionale nacque invece come vera e propria "particocrazia della salute". Le unità sanitarie locali erano inizialmente guidate da "Comitati di gestione" lottizzati dai partiti e privi di competenze tecniche. La coppia "universalismo senza compartecipazioni" e gestione interamente pubblica portò rapidamente a una escalation della spesa e a un sistema diffuso di inefficienze e corruzione.

Fortunatamente, a partire dal 1992, una serie di riforme hanno corretto la situazione attraverso una decisa svolta "manageriale". Alcune regioni (come la Lombardia) hanno anche seguito in parte il modello britannico dei mercati interni, coinvolgendo anche le strutture private nella fornitura di servizi e cure. Anche nel nostro paese si è proceduto, in altre parole, a recidere il legame a volte perverso tra copertura universale e gestione pubblica.

Il modello universalistico con finanziamento fiscale si è rivelato ovunque vincente in termini di costi benefici e di efficacia medica. Ciò è vero rispetto sia ai modelli "mutualistici" sia quelli privatistici. Gli Stati Uniti sono il caso più prossimo a quest’ultimo modello. In questo paese, la copertura pubblica riguarda solo gli anziani sopra i 65 anni (Medicare). A livello statale esistono poi degli schemi assistenziali per i cittadini poveri (Medicaid). In mezzo, fra anziani e adulti poveri, la copertura è privata, tipicamente tramite i datori di lavoro. Chi perde il posto resta però senza copertura (circa 40 milioni di americani in ogni dato momento, ovviamente non sempre gli stesi). Obama ha varato una ambiziosa riforma che ha introdotto l’obbligo assicurativo (con sussidi pubblici) anche per le persone temporaneamente scoperte. Trump vorrebbe abolirla, ma finora non c’è riuscito. Obamacare ha colmato un buco, ma la sanità USA resta molto diseguale e al tempo stesso molto costosa. Per l’Europa, quello USA è un modello che ha ben poco da insegnare, se non in negativo.

Considerando il rapido invecchiamento della popolazione, i costi crescenti delle tecnologie mediche e i vincoli di bilancio sorge spontanea una domanda: per quanto potremo ancora permetterci una sanità universalistica a finanziamento pubblico? La domanda è legittima, ma anche mal posta. I vincoli economici sono reali, ma ciò non significa che saremo costretti a negare a qualche categoria di cittadini l’accesso alle prestazioni. Si possono infatti usare due altri correttivi. Il primo è quello di selezionare le prestazioni da erogare a tutti, in base a criteri di costo-efficacia. Una strada già imboccata sia nel Regno Unito sia in Italia con la definizione di "livelli essenziali di assistenza". Il secondo correttivo è rappresentato dalle compartecipazioni (ticket), graduate in base al reddito e/o alla gravità delle patologie. I servizi sanitari dei paesi nordici hanno seguito questa seconda strada sin dai loro esordi.

L’approccio universalista resta quello migliore. Ma essere universalisti non significa garantire tutto a tutti, illimitatamente e gratuitamente. Come per tutte le politiche pubbliche, anche in sanità occorre essere realisti, calibrando in modo ragionato e trasparente i valori dell’equità, dell’efficacia e dell’efficienza. Nel rispetto delle macro-compatibilità economico-finanziarie.

Bibliografia

Toth Federico (2009), Le politiche sanitarie. Modelli a confronto, Laterza.
Toth Federico (2014), La sanità in Italia, Il Mulino.
Claudio De Vincenti, Renato Finocchi Ghersi e Andrea Tardiola (a cura di) (2011), La sanità in Italia. Organizzazione, governo, regolazione, mercato, Il Mulino.
Charles Webster (2002), National Health Service: A Political History, Oxford University Press.
Jose Harris (1998), William Beveridge. A Biography, Oxford University Press.

 

Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera di domenica 1 luglio 2018 e qui riprodotto previo consenso dell’autore