Confiscare i gioielli ai migranti che entrano in Danimarca per pagare loro i servizi di welfare. In estrema sintesi è questo il contenuto della proposta di legge che proprio in questi giorni è in discussione al Parlamento di Copenaghen. Inger Støjberg, Ministro per l’integrazione del Governo di Lars Løkke Rasmussen, intervistata dalla tv danese ha spiegato che, se approvata, "la legge darà alle autorità il potere di perquisire vestiti e bagagli dei migranti in arrivo nel Paese, anche con l’obiettivo di trovare beni che possano coprire le spese sostenute dallo Stato".
"In Europa stanno giungendo un gran numero di rifugiati" ha continuato Støjberg "e la Danimarca deve condividere questa responsabilità, ma troppi migranti rendono più difficile il processo di integrazione". I danesi quindi sull’accoglienza non faranno resistenza tout court come alcuni Paesi dell’Est Europa, ma applicheranno una sorta di "selezione all’ingresso" basata sulla disponibilità dei profughi a cedere i propri averi in cambio di assistenza. Il ministro ha precisato, come se fosse una giustificazione, che la legge si applicherà ai soli "beni di valore considerevole" (pare di valore superiore a 1.300 euro) e che i migranti potranno tenere quegli oggetti che "sono necessari a mantenere uno standard di vita modesto, come orologi o telefoni, o che hanno un valore personale e affettivo" come ad esempio le fedi nuziali. "I rifugiati che otterranno il permesso di soggiorno" ha spiegato "avranno così accesso gratuito alle scuole, alla formazione e al sistema sanitario come ogni altro cittadino". Insomma, l’idea è di codificare una sorta di baratto tra Stato e immigrati. Un baratto tra dignità e welfare.
Il Governo Danese negli ultimi mesi si era già distinto per scelte controverse sul tema dell’immigrazione. A settembre, ad esempio, l’esecutivo aveva fatto pubblicare sui giornali libanesi un annuncio che invitava chi fuggiva dal Medioriente a non recarsi in Danimarca, e ha poi adottato diverse misure per disincentivare il più possibile l’arrivo di migranti nel Paese nordico, come la riduzione fino al 50% dei sussidi ai profughi e le limitazioni per l’ottenimento del permesso di soggiorno.
Le ragioni di queste scelte nei confronti dei migranti? Da un lato il Governo conservatore di Rasmussen deve fare i conti con la costante crescita del Partito del Popolo Danese, formazione politica di destra connotata da una forte componente anti-immigrazione. Alle elezioni di giugno, raccogliendo il 21% dei voti, il PPD ha impedito ai conservatori di ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento e ora sta lentamente aumentando i propri consensi (proprio a discapito dei conservatori) cavalcando le paure dei danesi sui temi migratori. Dall’altro c’è, invece, un generale atteggiamento di chiusura che ha contraddistinto il Paese scandinavo sin dal secondo dopoguerra. Come ricordava Maurizio Ferrera alcune settimane fa, pur avendo bisogno di manodopera, la Danimarca negli anni della ricostruzione si guardò bene dall’aprire le porte agli immigrati, come fecero ad esempio Germania e Belgio. Il problema fu risolto spingendo le donne nel mercato del lavoro e sviluppando un welfare basato sui servizi alle famiglie per sostenere tale scelta, gettando le basi di un solidarismo interno molto forte ma, nel contempo, di un atteggiamento restio ad accogliere chi proveniva dall’esterno.
Negli ultimi giorni non sono mancate critiche nazionali ed internazionali in merito alla proposta di legge. Il Washington Post ad esempio ha assunto una posizione particolarmente dura, sostenendo che il progetto danese ricorda molto la spoliazione degli ebrei operata dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Senza arrivare a paragoni esagerati come quelli del giornale statunitense, certo risulta difficile non pensare alle parole di Marcello nell’Amleto di Shakespeare: c’è qualcosa di marcio nello Stato di Danimarca.