In Italia, si è tornato a parlare di povertà. Con l’avvicinarsi dell’approvazione della Legge di Bilancio, il dibattito sul Reddito di cittadinanza si è riacceso, concentrando gran parte dell’attenzione sulle truffe legate a questa misura. Molto meno spazio è stato dato ai modi per migliorare il Reddito di cittadinanza. E ancora meno al quadro europeo in cui questo provvedimento dovrebbe inserirsi.
Con il Piano d’azione sul Pilastro europeo dei diritti sociali e la dichiarazione di Porto, firmata lo scorso maggio, i Paesi UE si sono impegnati a raggiungere tre obiettivi per rendere l’Europa più sociale. Uno di questi riguarda le persone a rischio di povertà o esclusione 1: lo scorso anno, erano 96,5 milioni, quasi il 22 per cento della popolazione. Entro il 2030, dovranno diminuire di almeno 15 milioni, di cui almeno 5 dovranno essere minori.
Secondo Laura De Bonfils, però, “non è abbastanza”. “Considerato che l’obiettivo è stato fissato nel corso del 2020 e, quindi, in piena pandemia, non lo riteniamo sufficientemente ambizioso. Ma molti Stati la pensano diversamente”, prosegue De Bonfils, che è policy & advocacy coordinator della rete del Terzo Settore europeo Social Platform.
Non è la prima volta che l’UE si dà un obiettivo simile. L’aveva fatto anche con la strategia Europa 2020, ma allora si parlava di 20 milioni di persone a rischio di povertà o esclusione sociale in meno in 10 anni. E, nonostante la crisi, il traguardo è stato quasi raggiunto. Per questo, secondo alcuni osservatori, la soglia fissata per il 2030 è un passo indietro. A maggior ragione, tenendo presenti le conseguenze sociali del Covid-19: il numero delle persone povere è cresciuto e, quindi, anche l’obiettivo avrebbe dovuto essere rivisto al rialzo.
L’impatto della pandemia
La pandemia ha completamente stravolto lo scenario anche nella lotta alla povertà. Sia perché la povertà l’ha fatta crescere e cambiare. Sia perché ha messo a disposizione fondi per la ripresa senza precedenti, per quantità e modalità.
“In primo luogo, il Covid ha prodotto un impatto significativo sulle persone che già vivevano in condizioni di povertà o che erano a rischio di divenirlo prima della pandemia”, spiega Sabrina Iannazzone, policy officer di EAPN, la Rete europea contro la povertà. “Poi – continua – tendenze esistenti si sono esacerbate e sono diventate più visibili. Penso all’impatto della digitalizzazione e del divario digitale sull’accesso ai servizi e all’istruzione per tutti. O anche le disuguaglianze geografiche tra aree urbane e tra città e zone rurali in termini di opportunità lavorative e altri servizi. Infine, si sta affermando sempre di più una fascia di ‘nuovi poveri’, ovvero i giovani che non studiano né lavorano, che accedono principalmente a lavori precari e pagano i costi dell’isolamento con problemi di ansia e depressione”.
Eurostat, a luglio, ha spiegato che “rispetto al 2019, sono stati osservati aumenti del tasso di rischio di povertà della popolazione in età lavorativa in Portogallo, Grecia, Spagna, Italia, Irlanda, Slovenia, Bulgaria, Austria e Svezia”.
Una tendenza confermata dai dati sulla povertà assoluta nel nostro Paese, secondo cui nel 2020 erano in questa condizione poco più di 2 milioni di famiglie (7,7% del totale, in aumento rispetto al 6,4% del 2019) pari a oltre 5,6 milioni di individui. Dopo il miglioramento registrato nel 2019, il dato è tornato ad aumentare, raggiungendo il livello più elevato dal 2005. Non solo. Nel suo rapporto annuale, Caritas Italiana segnala che il 44% delle persone che si sono rivolte ai suoi servizi nel 2020 è composto dai cosiddetti “nuovi poveri”, uomini e donne che non avevano mai chiesto aiuto prima, ma che, nel 16% dei casi, ne hanno avuto bisogno anche nel 2021.
A essere cambiate, però, sono anche le regole di bilancio europee e l’entità dei fondi comunitari, grazie al piano per la ripresa Next Generation EU. All’interno di questo quadro e con queste risorse, i livelli di azione sono due. In alcuni ambiti, anche se tutto sommato limitati, può operare direttamente la Commissione UE con direttive (vincolanti), raccomandazioni (non vincolanti) e altri tipi di interventi. Per il resto, spetta a ogni Stato membro dare il proprio contributo, con obiettivi e politiche nazionali adatte alle diverse situazioni e in larga parte ancora in lavorazione.
Next Generation, FSE+ e Garanzia per l’infanzia
In quanto a fondi europei, la novità più rilevante è rappresentata dall’articolato e straordinario piano Next Generation EU e dalla sua componente più cospicua, il Dispositivo per la ripresa e la resilienza (in inglese, Recovery and Resilience Facility – RRF). “Molti degli obiettivi del RRF avranno enormi implicazioni in tutte le nostre società, ad esempio la transizione verde, la transizione digitale, upskilling e reskilling”, sostiene Laura Rayner, policy analyst dell’European Policy Centre – EPC. “La dichiarazione di Porto – prosegue – ha cercato di sottolineare che l’impatto sociale di questi cambiamenti non sarà trascurato, né dagli Stati membri né dalle istituzioni dell’UE”.
Almeno in teoria, quindi, i piani di ripresa dovrebbero stimolare una crescita inclusiva e contribuire a ridurre il numero di persone a rischio povertà o esclusione. È quello che dovrebbe fare anche il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) italiano.
Poi, all’interno del budget ordinario dell’Unione Europea, c’è il Fondo Sociale Europeo Plus – FSE+. Il fondo, che in passato si chiamava semplicemente FSE, ha una dotazione di 88 miliardi per il periodo 2021-2027 e, si legge nel Piano d’azione sul pilastro europeo dei diritti sociali, “continuerà a essere il principale strumento dell’UE per sostenere l’attuazione del pilastro”. In particolare, “almeno il 25% delle risorse del FSE+ a livello nazionale dovrebbe essere speso per combattere la povertà e l’esclusione sociale, di cui gli Stati membri maggiormente colpiti dalla povertà infantile dovrebbero investire almeno il 5 % in misure di lotta contro la povertà infantile”.
Quello della povertà infantile è un aspetto rilevante. E non solo perché l’Italia è uno degli 11 Stati che dovrebbe soddisfare questo requisito. Dopo l’approvazione della Garanzia giovani nel 2013 e il suo rifinanziamento nel 2020, la Commissione Europea ha lanciato quest’anno anche una Garanzia europea per l’infanzia. Si tratta del “primo strumento strategico a livello dell’UE volto a contrastare lo svantaggio e l’esclusione durante l’infanzia, che spesso portano a svantaggi nella vita adulta”, per usare le parole del Consiglio dell’Unione europea. Proprio come Garanzia Giovani, anche la Garanzia per l’infanzia non è un provvedimento vincolante, ma potrebbe rivelarsi efficace secondo Rayner di EPC. Questi strumenti, commenta, “sono segnali importanti. Richiedono agli Stati membri di mettere in atto piani d’azione che affrontano molte aree politiche diverse e successivamente attivano investimenti nazionali”.
Secondo un gruppo di organizzazioni non governative riunite nell’EU Alliance for Investing in Children, la Garanzia per l’infanzia “rappresenta una pietra miliare nella protezione dei diritti dei bambini. Inoltre, l’approvazione all’unanimità dimostra l’impegno di tutti i 27 Stati membri. Spetta ora ad ognuno di essi nominare un coordinatore nazionale e progettare un ambizioso piano d’azione nazionale, che dovrebbe essere presentato alla Commissione europea entro marzo 2022”.
Salario minimo e reddito minimo
La Commissione UE è attiva anche in altri ambiti, seppur con azioni meno rilevanti. Lo scorso giugno, ha creato una piattaforma per combattere l’homelessness, a luglio ha lanciato un bando per lo sviluppo di cento distretti industriali di edilizia sociale, mentre nell’ottobre 2020 aveva presentato una proposta di direttiva relativa ai salari minimi, che però sembra non avrà vita facile. Ma ci sono anche diverse mancanze. Per De Bonfils di Social Platform, “il Piano d’azione sul Pilastro europeo dei diritti sociali ne ha molte. La principale, per noi, è l’assenza di una direttiva sul reddito minimo”.
Una direttiva è un provvedimento vincolante per tutti gli Stati, ma non è la strada che la Commissione ha scelto di intraprendere in questo ambito. Secondo Iannazzone di EAPN, “manca la volontà politica”. “Ci auguriamo – aggiunge – che la proposta alternativa, cioè una Raccomandazione del Consiglio sul reddito minimo, possa contribuire ad aggiornare il quadro europeo per sostenere al meglio le politiche di protezione sociale negli Stati membri”. La raccomandazione è attesa per il 2022.
Il fatto che la Commissione non abbia la forza politica per emanare una direttiva sul reddito minimo non significa però che l’esecutivo UE non approvi l’operato di quegli Stati che un reddito minimo l’hanno introdotto di recente. Proprio come ha fatto l’Italia, con il Reddito di Cittadinanza. A ottobre, sul tema, il Commissario europeo per il lavoro e i diritti sociali Nicolas Schmit è più volte intervenuto dalle pagine dei quotidiani italiani. A Repubblica, per esempio, ha detto che “la Commissione ha sempre espresso chiaramente la sua posizione sulla necessità di combattere la povertà e l’esclusione. Non si tratta però di mantenere le persone. L’obiettivo è reintegrare” Mentre, a Domani, ha precisato che “qualche tempo fa è stata la stessa Commissione Europea, nelle sue raccomandazioni all’Italia, a perorare un sistema di minimum income, o come lo chiamate voi, Reddito di Cittadinanza”.
E il Reddito di Cittadinanza?
Il Reddito di Cittadinanza, però, non viene sostenuto con fondi europei, né ordinari né straordinari. È tutto finanziato dallo Stato italiano. E, allora, dove si incontrano esattamente il principale strumento di lotta alla povertà di cui il nostro Paese si è da poco dotato e quell’Europa sociale che la dichiarazione di Porto vorrebbe costruire? I punti di contatto sono principalmente due.
Il primo, il più immediato, lo spiega Stefano Sacchi, docente del Politecnico di Torino e membro del comitato scientifico dell’Alleanza contro la povertà. “La dichiarazione di Porto è in linea con un Reddito di Cittadinanza amico dell’occupazione”, dice il professore. A suo parere, se il Reddito di Cittadinanza venisse riformato come chiede l’Alleanza contro la povertà, proteggerebbe le persone dall’indigenza e aiuterebbe a trovare un’occupazione quelle in grado di farlo, finendo per contribuire al raggiungimento di tutti i tre obiettivi del Piano d’azione sul Pilastro europeo dei diritti sociali.
Il secondo punto di contatto è meno diretto. Il Reddito di Cittadinanza è stato approvato per la prima volta nel 2019, insieme a Quota 100. L’allora Governo Conte I, sostenuto da Lega e Movimento Cinque Stelle, si scontrò con la Commissione UE per il deficit causato dalle due misure bandiera dei due partner di Governo. Come scrisse Il Sole 24 Ore, il confronto venne rimandato all’autunno, ma poi ci fu il cambio di esecutivo (ma non di Presidente del Consiglio), arrivò la pandemia e tutto cambiò. Da marzo 2020, infatti, il Patto di stabilità e crescita (per il quale il deficit di bilancio deve restare sotto al 3% del Pil e il debito pubblico deve essere inferiore al 60% del Pil), è sospeso. E lo sarà fino al 2023. Il dibattito per capire se e come modificare il patto è appena cominciato, ma è ovvio che avrà conseguenze enormi su quanto e come gli Stati possono spendere, anche per la lotta alla povertà.
“Se l’UE continua a prendere decisioni in materia di politica economica o industriale, queste decisioni avranno implicazioni inevitabili sulla società negli Stati membri”, spiega Rayner di EPC. “Non si può dire agli Stati membri che devono ridurre i deficit, riformare le industrie, tagliare la spesa pensionistica senza che, internamente, ci siano conseguenze sociali evidenti. Gli anni che sono seguiti alla crisi del 2008 – conclude – l’hanno chiaramente dimostrato”.
Per far sì che entro il 2030 i cittadini europei a rischio esclusione e povertà diminuiscano davvero, quindi, servono innanzitutto strumenti di contrasto della povertà efficaci. Ma non solo quelli. Servono anche interventi per un’occupazione di qualità e una formazione adeguata. E soprattutto servono politiche economiche che abbandonino l’austerità a favore di una crescita sostenuta e inclusiva.
#EuropaSociale
Questo approfondimento è parte della serie Europa Sociale, curata da Paolo Riva per Secondo Welfare. Il suo obiettivo è comprendere se e quanto il summit di Porto, che ha rimesso al centro del dibattito continentale il Pilastro europeo dei diritti sociali, sarà importante per definire il futuro dell’Unione Europea. Di seguito la prima, la seconda e la terza puntata della serie.
Note
- Indicatore delle persone che si trovano in almeno una delle seguenti tre condizioni: vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro; vivono in famiglie a rischio di povertà; vivono in famiglie in condizioni di severa deprivazione materiale.