Il dossier elaborato da Save the Children, in occasione del lancio della campagna “Ricordiamoci dell’infanzia”, ha un titolo eloquente: “Il paese di Pollicino”. Questo paese è l’Italia, un luogo in cui:
[…] a differenza di quanto accade nella celebre fiaba di Perrault, l’abbandono dei minori non è una scelta dettata dall’indigenza di una singola famiglia […] ma il risultato di un’amnesia collettiva che contribuisce a generare nuove povertà [Il paese di Pollicino, p. 5].
Il quadro italiano della povertà infantile
La percentuale di esposizione dei minori a rischio di povertà (che è data dal divario tra minori a rischio e la percentuale di riferimento per l’intera popolazione) raggiunge in Italia il 65%. Solo Romania, Ungheria e Slovacchia hanno risultati peggiori. L’assenza costante, nel nostro paese, di politiche organiche e coerenti di contrasto alla povertà infantile ha reso del resto l’Italia impreparata ad affrontare i contraccolpi della crisi economica recente:
Oggi […] quasi un bambino o un ragazzo su quattro è povero. Dal 2006 al 2010, inoltre, la povertà è cresciuta in maniera maggiore tra i minori rispetto al totale della popolazione: se quest’ultima è aumentata dell’1,2% dal 2006 al 2010 (passando dal 13,2% al 14,4%), nello stesso periodo l’incidenza di povertà minorile è cresciuta del 3,3% (dal 19,3% al 22,6%). Oltre all’incidenza è in forte aumento anche l’intensità della povertà (un dato percentuale che misura quanto il reddito disponibile equivalente sia mediamente inferiore alla soglia di povertà), passata dal 28,1% del 2006 al 35,1% del 2010 (+7%), mentre nelle famiglie senza minori è cresciuta nello stesso arco di tempo di appena un punto e mezzo (dal 25,1% al 26,7%) e avrebbe conosciuto anzi una leggera flessione dal 2008 (-1,5%) [Il paese di Pollicino, p. 6].
La probabilità di un bambino di essere povero è fortemente influenzata dalle caratteristiche del nucleo familiare in cui vive. Il rapporto di Save the Children mette a fuoco i principali fattori “di rischio”, dimostrando come l’esclusione sociale sia il risultato dell’agire spesso cumulativo, nelle biografie personali dei genitori, di fenomeni riconducibili a bassi livelli di istruzione, mancanza delle skills necessarie per la permanenza nel mercato del lavoro e per l’ottenimento di redditi adeguati ai carichi familiari, discriminazioni di genere e verso gli immigrati, residenza in aree depresse come quelle del Sud d’Italia.
Famiglie monoparentali – I bambini che vivono in questa tipologia di nucleo sono particolarmente a rischio di povertà (1 su 3). L’aspetto più allarmante, in questo caso, è che la maggiore incidenza di povertà si associa anche ad un aumento dell’intensità della stessa. La principale causa di fragilità del nucleo familiare monoparentale è determinata dal fatto che nella maggior parte dei casi il bambino vive con la madre, il cui accesso al e la cui permanenza nel mercato del lavoro sono resi difficoltosi da un contesto di politiche pubbliche che non è in grado di favorire la conciliazione tra lavoro e cura, ma anche dalla persistenza di pratiche discriminatorie che penalizzano le donne lavoratrici.
Famiglie numerose – In questo caso, è un’altra debolezza strutturale del mercato del lavoro italiano a condannare i bambini alla povertà, e cioè il basso livello dei salari e la loro crescita molto limitata, rispetto al resto d’Europa: un’indagine Eurostat del 2012 ha calcolato lo stipendio medio del lavoratore italiano nel 2009 in 23.406 euro, al dodicesimo posto nella classifica dei paesi dell’area euro (nei riferimenti). Il risultato è una graduale perdita di potere d’acquisto. Questa situazione, che in Italia non è controbilanciata da efficaci politiche di sostegno alle famiglie numerose, rende particolarmente difficile per queste ultime (perlopiù concentrate nel Sud d’Italia e nelle Isole) affrontare la crisi economica attuale: a partire dal 2006 l’incidenza di povertà nelle famiglie numerose è aumentata del 4%, contro il 2,7% per le famiglie con un solo minore.
Famiglie con genitori giovani – La debolezza economica dei giovani, ben espressa dal fenomeno del precariato, si traduce, nel caso in cui gli stessi siano genitori, in un incremento allarmante del rischio di povertà infantile: quando il percettore principale di reddito ha meno di 35 anni, la probabilità del minore di essere povero è del 47,8% (cioè 1 su 2): «Nel 2011 la quota di giovani tra i 15 e 34 anni con impiego a tempo indeterminato è scesa del 5% rispetto al 2008 e addirittura del 10% rispetto a 15 anni fa. Davanti a questa situazione, preoccupa anche l’ineguale distribuzione della ricchezza. I nuclei con capofamiglia di età inferiore ai 35 anni rappresentano più del 10% delle famiglie, ma posseggono solo il 5% della ricchezza» [Il paese di Pollicino, p. 8].
Famiglie in cui i genitori hanno bassi titoli di studio – Il livello di istruzione dei genitori – in economie post industriali in cui la qualificazione e i processi di apprendimento permanente divengono requisiti cruciali per la garanzia del reddito – è un potentissimo predittore del rischio di povertà dei figli: il 64,9% dei minori che vivono con un capofamiglia che ha la sola licenza elementare è povero, contro il 6,5% dei bambini il cui genitore è laureato.
Famiglie a bassa intensità di lavoro – La fragilità delle carriere lavorative in Italia, che assume sempre più le caratteristiche del lavoro temporaneo e della disoccupazione di lungo periodo, ha un effetto assai rilevante sul rischio di povertà infantile. Il rapporto di Save the Children riporta un’interessante tabella a tale proposito che mostra il trend dell’Italia per quanto riguarda le famiglie a bassa intensità di lavoro rispetto al resto d’Europa (cfr. tab. 1).
Tab. 1. % minori che vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro (trend 2009-2010)
Fonte: Save the Children, Il paese di Pollicino, 2012, su dati Eurostat (2012).
Famiglie del Sud d’Italia – Nelle famiglie meridionali la probabilità del “cumulo” di fattori di rischio è particolarmente elevata: i bassi livelli di occupazione femminile si associano ad una maggiore incidenza di famiglie numerose e ad un’incidenza della disoccupazione molto più significativa che in altre aree del paese. I dati non lasciano margini interpretativi sulla drammaticità degli squilibri regionali: «Secondo l’agenzia statistica nazionale in Sicilia 423 mila bambini, quasi 1 su 2, vivono in condizioni di povertà relativa, in Lombardia 119 mila, appena 1 su 14. In Calabria e in Basilicata i bambini poveri superano il 30%, una percentuale 4 volte maggiore a quella che si ha in Emilia (7,5%). Nel Sud, infine, 359 mila minori (ben il 9,3% di tutta la popolazione minorile di quell’area, contro il 4% del Nord e il 5,9% del Centro) vivono in condizioni di povertà assoluta» [Il paese di Pollicino, p. 9].
Famiglie di stranieri in Italia – In questo caso, l’elevata incidenza della povertà infantile (58,4%) è determinata dal frequente cumulo di numerosi fattori di rischio: oltre a quelli fino ad ora indicati bisogna considerare l’azione delle barriere linguistiche e culturali che si traducono in scarsa capacità di guadagno e nell’amplificazione di fenomeni di esclusione sociale (si pensi al tema dell’abitazione), spesso determinati dalle difficoltà di integrazione.
La natura multidimensionale della povertà infantile
Il tema della povertà infantile, ricorda Save the Children, impone una visione articolata in grado di cogliere le variabili che incidono sullo stato di benessere effettivo dei bambini:
Redditi e consumi non dicono tutto sulle reali condizioni di vita di un ragazzo: povertà di relazioni e di salute, cattiva alimentazione, carenze abitative, di servizi e opportunità educative, sono tutti fattori da considerare per definire i tanti volti delle povertà minorili. In secondo luogo, perché redditi e consumi si limitano a misurare le risorse disponibili delle famiglie e non quelle effettivamente dispiegate dalle famiglie per il soddisfacimento dei bisogni dei bambini. Dare per scontato che una famiglia impieghi le proprie risorse per coprire le necessità di tutti i suoi componenti, in primo luogo dei figli, è un presupposto che purtroppo non trova conferma nell’esperienza di tutti giorni (ad esempio, nelle famiglie in cui uno dei due genitori è dipendente dal gioco) [Il paese di Pollicino, p. 11].
Diventa quindi essenziale munirsi di indicatori efficaci nel descrivere le condizioni dell’infanzia in un dato paese e in prospettiva comparata. L’European child deprivation index (Istituto degli Innocenti, nei riferimenti) che utilizza una serie di indicatori di deprivazione, tra i quali la disponibilità giornaliera di frutta fresca, carne e pesce, di libri, abiti di prima mano e scarpe, viaggi e svaghi, vede l’Italia in una posizione del tutto insoddisfacente (appena superiore a Grecia, Portogallo e paesi dell’Est):
Analizzando le sovrapposizioni di vari indicatori di deprivazione dei bambini, finanziari e non finanziari, riferiti alle famiglie o nello specifico ai bambini, raggruppati in 8 campi tematici (dalla situazione economica alla comunità, al cibo, all’educazione), la ricerca offre un quadro degli ambiti di deprivazione più marcati nei diversi paesi europei. Sotto questo aspetto, l’Italia mostra valori nettamente superiori alla media per quanto riguarda le condizioni della comunità (rumore, inquinamento, crimine, spazi all’aperto), della casa (sovraffollamento, acqua calda, scarsa illuminazione, umidità) e dell’educazione (accesso a internet, disponibilità di libri, spazi per fare i compiti) [Il paese di Pollicino, p. 12].
Non meno importante è, sotto questo profilo, il tema dell’istruzione. In Italia la scolarizzazione mostra falle preoccupanti:
– il 18,9 % dei giovani tra i 16 ed i 24 anni non prosegue gli studi dopo la scuola media contro una media europea del 14,1 % (Eurostat 2010, nei riferimenti);
– il 30% circa degli iscritti alle scuole superiori non raggiunge il diploma, mentre una parte consistente dei diplomati raggiunge valutazioni appena sufficienti;
– Le competenze cognitive dei quindicenni assegnano all’Italia il 23° posto tra i paesi dell’area OCSE (Pisa OCSE 2009, nei riferimenti).
La “povertà di istruzione”, se associata alla povertà economica del nucleo familiare di appartenenza, rappresenta una seria ipoteca rispetto alle chances di inclusione sociale del minorenne, una volta divenuto adulto. Il problema per l’Italia è particolarmente pressante, perché nel nostro paese la scarsità di istruzione dei genitori ha un’incidenza sulla povertà dei figli significativamente superiore a quella misurata in altri paesi, confermando la scarsa mobilità sociale che tradizionalmente caratterizza il contesto italiano (Eurostat 2007, nei riferimenti), ma anche la difficoltà del sistema di istruzione di “correggere” questo fenomeno.
Perché l’Italia sperimenta questo fallimento?
Save the Children, sulla base di un rapporto sulla povertà minorile del 2010 per la Commissione europea (nei riferimenti), presenta una chiave di lettura dei limiti di efficacia dell’intervento pubblico del tutto condivisibile:
In Italia la spesa per l’infanzia è da sempre una spesa residuale. Si tratta per lo più di briciole, concessioni, bonus, misure una tantum, e solo raramente di investimenti, piani duraturi, servizi, affermazioni di diritti. Nel 2009 l’Italia investiva quasi 5 punti percentuali in più del PIL della propria spesa sociale nel comparto pensioni rispetto alla Germania (l’unico paese europeo ad avere un indice di vecchiaia più alto del nostro), e appena l’1,4% nel settore famiglie (contro una media UE del 2,3%). Le iniziative a sostegno delle famiglie con minori varate negli ultimi anni (assegni di sostegno per le famiglie numerose, al nucleo familiare, Bonus Bebé, deduzioni fiscali per famiglie povere anche con bambini), hanno avuto una portata molto limitata e scarsa efficacia [Il paese di Pollicino, p. 15].
e ancora
L’analisi territoriale degli interventi promossi dalle amministrazioni pubbliche, nazionali, regionali e comunali, rivela un quadro frammentato e lacunoso, segnato dalla totale assenza di indirizzi e pratiche comuni. Da regione a regione variano le risorse (in Emilia Romagna e in Trentino si spende più di 200 euro pro capite nell’area famiglie e minori, in Calabria, Campania e Molise meno di 50 euro), le fonti di finanziamento, le voci di spesa, gli indici di copertura dei servizi, le quote-utente e così via. Vista dall’alto, l’Italia della spesa e dei servizi per l’infanzia è il regno del fai da te, un puzzle improvvisato di 19 sistemi regionali e 2 provinciali non comunicanti, a volte inconciliabili tra loro, spesso inefficienti [Il paese di Pollicino, p. 16].
Questo quadro è però frutto, oltre che di politiche nazionali deboli e prive di coerenza (oltre che di adeguati finanziamenti) di una visione familistica della solidarietà che, sovraccaricando le reti intergenerazionali – chiamate a sopperire all’assenza di efficaci politiche per la famiglia – e non riconoscendo i diritti autonomi del minore, condanna allo stato di povertà quei bambini che a tali risorse “familiari” non possono attingere efficacemente per motivi legati sia alla struttura del nucleo (come nel caso delle sempre più diffuse famiglie monoparentali o di quelle immigrate), che alle condizioni economiche e culturali dei genitori [sul tema cfr. Saraceno 2007].
Il risultato è quello del cumulo di fattori di rischio, che conduce a condizioni di esclusione sociale che tendono ad essere trasferite da una generazione all’altra.
Una strategia di lotta alla povertà minorile
Il dossier “Il paese di Pollicino” non si chiude con i toni della rassegnazione ma con quelli di un’attiva progettualità, che passa attraverso lo strumento della definizione un “piano nazionale di contrasto alla povertà” che abbia queste caratteristiche:
– prevedere una pluralità di misure, perché la povertà minorile agisce su diverse dimensioni e non vi può essere un unico strumento valido per affrontarla, mentre è necessario che questo obiettivo trovi spazio all’interno di diverse politiche (mainstreaming);
– coinvolgere tutti gli attori – istituzionali, pubblici, privati, associativi e del terzo settore -secondo un’applicazione avanzata del principio di sussidiarietà, sia per una efficace collaborazione tra più livelli, sia per fare rete sul territorio tra tutti i soggetti;
– fissare a priori obiettivi misurabili, risorse e strumenti di monitoraggio e valutazione di breve e medio periodo;
– stabilire meccanismi di tipo sostitutivo nel caso di inerzia dei soggetti preposti per evitare che gli obiettivi rimangano sulla carta;
– promuovere un ruolo attivo da parte degli stessi beneficiari (i bambini e i ragazzi), delle loro famiglie e delle comunità locali.
Il dossier propone nello specifico misure volte a:
– sostenere le famiglie povere (riforma delle agevolazioni fiscali e crediti d’imposta, junior vouchers per ridurre le deprivazioni materiali permettendo l’accesso a servizi sportivi e culturali e ridefinizione dell’ISEE);
– sostenere la genitorialità, l’infanzia e l’adolescenza (riconoscimento dell’asilo nido come diritto soggettivo e potenziamento della rete dei nidi, creazione di aree ad alta densità educativa, riqualificazione di aree degradate per attività sportive e ludiche);
– favore l’occupazione femminile e la conciliazione tra lavoro e cura (“clausola infanzia” nella contrattazione collettiva, family audit per le grandi imprese, incentivi family friendly per le PMI, fondo di garanzia per le mamme imprenditrici);
– alutare l’impatto della nuova legislazione sull’infanzia (mainstreaming).
Quali sono i costi di questo sforzo di avvicinamento dell’Italia alla media della spesa europea nelle politiche familiari?
Secondo le stime di Save the Children, le misure sopra indicate porterebbero benefici significativi in termini di uscita di una parte significativa di minori dalle condizioni di povertà assoluta (i nuclei familiari in queste condizioni si ridurrebbero da 308.742 a 160.510). Un piano di questo tipo ha ovviamente dei costi, più che bilanciati, nel medio periodo, dai risparmi determinati da un investimento precoce nel capitale umano degli abitanti di questo paese:
[…] qualora si voglia raggiungere un obiettivo di spesa pubblica per le famiglie sul PIL del 2%, e avvicinare così l’Italia alla media dei paesi europei, occorrerebbero circa 12,42 miliardi di euro di risorse aggiuntive. Uno sforzo importante, ma che una politica lungimirante di investimento potrebbe raggiungere gradualmente entro il 2020. Il pacchetto proposto di misure di contrasto alla povertà minorile, che ribadiamo dimezzerebbe il numero di famiglie in condizione di povertà assoluta e ridurrebbe sensibilmente il numero di famiglie a rischio povertà, implica lo stanziamento annuale a regime nel 2020 di 11.5 miliardi di euro. Tale sforzo economico avvicinerebbe l’Italia alla media europea rispetto alle risorse destinate all’infanzia. L’applicazione graduale delle misure proposte richiede invece uno stanziamento per il primo anno di 6.15 miliardi di euro, con un accrescimento per i prossimi anni e fino al 2020 di quasi un miliardo l’anno. Alcune delle misure proposte, quindi, pur nella loro urgenza, potrebbero essere applicate gradualmente per consentire un adeguamento del bilancio statale [Il paese di Pollicino, p. 24].
“Il paese di Pollicino” invita a riflettere sulla necessità che istituzioni e privati cittadini si assumano la responsabilità di combattere il circolo vizioso della povertà infantile in Italia. Questo circolo può e deve essere spezzato, agendo su due fronti. Da un lato, è necessaria una cornice coerente di interventi pubblici, all’insegna della definizione di adeguati livelli essenziali di assistenza e di investimenti mirati a favore della genitorialità, dell’infanzia e dell’adolescenza (primo welfare). Dall’altro, in un passaggio critico come quello attuale – sia sul versante dei conti pubblici che su quello dell’inclusione sociale – diventano cruciali le pratiche di innovazione che vedono come protagonisti il Terzo settore ed il privato for profit (entrambi attori del “secondo welfare”), nella promozione di maggiori livelli di benessere per la popolazione infantile in Italia. Ognuno, insomma, è chiamato a dare il proprio contributo per cambiare questo trend preoccupante in grado di compromettere, in un futuro non molto lontano, la coesione sociale del paese.
Riferimenti
Save the Children (2012), Il paese di Pollicino. L’Italia ha dimenticato i bambini
Eurostat, 2007, Social Situation Report
Eurostat (2012), Labour Market Statistics
OCSE, 2010, Pisa 2009 Results: Executive Summary
Saraceno, C. (2007), Sociologia della famiglia, Bologna, Il Mulino.