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Nel gruppo di lavoro di Secondo Welfare ci sono diverse persone con figli. E, quindi, le difficoltà nel conciliare vita privata e professionale sono spesso argomento di discussione.

Niente di straordinario, come ci insegna la serie #UnicornoConciliazione.

Alcune volte, però, si va oltre la lamentela o lo scherzo e allora nascono spunti interessanti. Come quello che ha portato a questo articolo.

“Il problema è come facciamo questo lavoro dei genitori, ha detto una volta una mamma e collega, commentando l’ennesimo scambio su quanto fosse impegnativo tenere insieme vita e lavoro.

Quella che era stata pronunciata come una mezza battuta ed era stata accolta con più di una risata, in realtà è una riflessione importante. E, infatti, le parole della collega sono molto in linea con quelle usate da Maurizio Ferrera, scientific supervisor di Secondo Welfare, nell’introduzione de L’agenda FAST per contrastare la denatalità in Italia.

“Il mestiere di genitore è diventato più complesso ed esigente rispetto al passato”, scrive Ferrera. “Non basta ‘tirar su’ i figli, bisogna fornire loro – sin dalla prima infanzia – la maggior quantità di stimoli e opportunità”, continua.

Benvenuti e benvenute nell’epoca della genitorialità intensiva.
Che, in qualche modo, è legata a doppio filo con l’epoca della denatalità.

Tutto comincia negli USA

Genitorialità intensiva in inglese si dice “intensive parenting”. Come ha scritto la professoressa di pedagogia all’Università di Verona Chiara Sità, è un concetto che “si è affacciato nel dibattito internazionale sulla genitorialità a partire dagli anni 2000” e che “fa riferimento a un modello culturale dominante che considera l’essere genitore (in particolare madre) come un compito estremamente laborioso, sia sul piano emozionale, sia su quello dell’investimento di tempo e risorse economiche”. 

L’idea nasce nel mondo anglosassone e, nel 2018, il New York Times gli ha dedicato un lungo articolo che ha contribuito a diffondere ulteriormente il termine e ad alimentare il dibattito.

“Nel giro di un paio di generazioni, i genitori hanno aumentato notevolmente la quantità di tempo, attenzione e denaro che dedicano alla crescita dei figli”, si leggeva in un pezzo il cui titolo potrebbe essere tradotto come “L’incessante attività della genitorialità moderna”.

L’autrice Claire Cain Miller, citando una serie di esperti, descriveva l’intensive parenting come “uno stile genitoriale centrato sul bambino, guidato da esperti, emotivamente assorbente, ad alta intensità di lavoro e finanziariamente costoso”. Negli Usa, secondo l’articolo, la genitorialità intensiva, sarebbe la norma per i genitori della classe medio-alta fin dagli anni Novanta, ma è poi pian piano diventata il miglior modo di crescere i figli a detta di tutte le classi sociali, a prescindere dalle risorse per attuarla.

Per contro, “il sostegno ai genitori che lavorano, come il congedo parentale retribuito, l’assistenza all’infanzia sovvenzionata o gli orari flessibili, è aumentato poco e le reti di vicinato informali di genitori casalinghi sono diminuite perché un numero maggiore di madri lavora”. Il risultato, denunciava già sette anni fa Cain Miller, è che “i genitori, in particolare le madri, provano stress, stanchezza e senso di colpa per le esigenze di una genitorialità di questo tipo, soprattutto se si ha un lavoro. Alcuni mettono in pausa la loro carriera o scelgono di non avere figli”. 

E in Italia?

L’intensive parenting consiste nell’intensificare il compito genitoriale a tal punto da vederlo come deterministico rispetto allo sviluppo e all’educazione dei figli”, spiega Davide Cino, ricercatore di pedagogia generale e sociale all’Università degli studi di Milano-Bicocca. “I genitori – prosegue – sono visti come i principali artefici di tutto ciò che può andare bene o male nella vita dei figli, e questo implica una professionalizzazione del compito genitoriale stesso”.  

Cino spiega che la genitorialità intensiva, per quanto nasca in contesti anglosassoni come quello statunitense o britannico con dei modelli culturali più individualisti, si sia radicata ormai anche in Paesi come l’Italia o altri Stati Mediterranei con una tradizione più collettivista. “Negli ultimi anni, anche in Italia si è assistito a una privatizzazione della cura dei figli e della loro educazione: il compito ricade sempre di più sui genitori, che vivono quindi tutta una serie di pressioni”, sostiene il ricercatore dell’università Bicocca.

Chiara Ionio, psicologa dell’infanzia e professoressa dell’Università Cattolica di Milano, conferma che anche nel nostro Paese “sicuramente c’è stato un cambiamento nella modalità di fare i genitori negli ultimi 10-15 anni circa”. Secondo la sua esperienza, la visione di molti genitori di oggi “mette al centro il bambino e i suoi bisogni, con gli adulti che gravitano intorno, rispondendo in maniera focalizzata e unita a quello che il bambino vuole o desidera”. Per la docente “c’è una maggiore considerazione del bambino come soggetto agente, con tutta una dimensione emotiva ed affettiva da considerare”.

L’intensive parenting non è l’unica tendenza in atto per quanto riguarda la genitorialità in cambiamento. Ce ne sono molte altre e anche di segno diverso: dall’abbandono delle punizioni fisiche a una comunicazione più attenta e aperta tra genitori e figli, fino alla maggiore presenza dei padri. L’intensive parenting, inoltre, è un cambiamento che, riprende Cino, “presenta diversi gradienti: l’esperienza di genitorialità intensiva non è egualmente intensiva per tutti i genitori”. Chiarito questo, però, per il ricercatore, l’intensive parenting rimane come “sfondo” perché fa parte “dello spirito del tempo. “È il modello con cui i genitori inevitabilmente si confrontano e dal quale nascono le ansie legate al fatto che non riescono a garantire tutto ciò che questo modello richiede”, conclude Cino.

La domanda, quindi, non è tanto se l’intensive parenting sia una buona scelta per educare i figli. Sul tema i pareri sono molti, articolati e contrastanti. E questo articolo non basterebbe per affrontarli tutti seriamente.

Il punto che ci interessa è capire se questo modo di fare i genitori ha delle conseguenze sulle scelte riproduttive e quindi su fertilità e natalità. In altre parole: una genitorialità troppo intensa scoraggia l’arrivo di un secondo o un terzo figlio nelle coppie che ne hanno già uno? Oppure, addirittura, questa prospettiva dissuade dal diventare genitori quelle che ci stanno pensando?

La risposta sembra essere sì a entrambi i quesiti.

Genitorialità intensiva, natalità bassa?

In tal senso, commentando sulle colonne del Fatto Quotidiano l’articolo del New York Times del 2018, la filosofa italiana Giorgia Serughetti non si diceva sorpresa che i figli in Italia fossero “sempre di meno. Non è solo un problema di difficoltà economica, è anche una ricaduta del modello di genitorialità, soprattutto di maternità, che impone una presenza e una dedizione che semplicemente molte donne non possono permettersi”.

Rispetto a quando è stato scritto l’articolo, ormai quasi sette anni fa, il numero di nuovi nati in Italia continua a calare e anche il riferimento alla maternità è ancora attuale. I carichi di cura, infatti, nel nostro Paese continuano a essere sbilanciati e quindi l’aumento di ore da dedicare alla genitorialità finisce per ricadere ancora una volta principalmente sulle donne.

“Per le madri che lavorano allevare un figlio diventa così un faticoso slalom fra orari, impegni, appuntamenti, scadenze. I padri italiani, infatti, danno ancora scarso contributo alle incombenze della casa e dei figli”, si legge proprio nell’introduzione dell’agenda FAST.

La genitorialità intensiva, quindi, influisce. Può essere anch’essa un elemento del complesso puzzle costruendo il quale si finisce per decidere se fare un figlio oppure no. Soprattutto il secondo.

Per il ricercatore Cino, “anche aderire solo in minima parte alla genitorialità intensiva è un investimento molto oneroso dal punto di vista economico, ma anche temporale ed emotivo. Chi me lo fa fare di fare un altro figlio? É una situazione che non invoglia”. Anche la psicologa Ionio è su una posizione simile: “Avere un figlio è costoso da tanti punti di vista: economico, organizzativo, gestionale, psicologico. Essendoci un investimento così grande sul bambino, sembra impossibile poterne gestire più di uno”.

Lo scorso novembre, Vita ha titolato la sua edizione mensile “Perché non vogliamo figli”.  Nell’articolo di apertura venivano citate le cause della bassissima natalità italiana: l’incertezza economica dei giovani, la mancanza di servizi, la child penality per le madri e l’inadeguatezza delle politiche. “Ma – proseguiva la riflessione – questo, diciamocelo, non basta a spiegare l’oggi. C’è anche un elemento culturale, con una narrazione della genitorialità tutta schiacciata tra le infinite rinunce che un figlio comporta e l’idillio patinato e performante dei social network a cui fanno da contraltare i tanti che dicono che, tornassero indietro, un figlio non lo farebbero più”.

Alla lista andrebbe aggiunta anche la genitorialità intensiva, che infatti veniva brevemente trattata dal contributo di uno dei tanti esperti sentiti all’interno del magazine. Alla fine, quando si parla di denatalità, il problema sembra essere anche “come facciamo questo lavoro dei genitori.

 

 

Foto di copertina: Tadeas P, Unsplash.com