Immaginiamo di disegnare il nostro Tempo. Una pagina in chiaroscuro attraversata da tre grandi linee che si incrociano, sovrappongono, allontanano, cercandosi. La prima segue il movimento delle donne: movimento in avanti, faticoso e mai scontato, tuttavia ininterrotto dal Novecento. La seconda linea rileva, di colpo, un balzo degli uomini che fino a ieri erano un punto fermo e ora sembrano voler liberare il proprio percorso storico in più direzioni, imprevedibili. La terza cerca di registrare, in una rete che pare impazzita, il mutamento radicale del mercato del lavoro che ogni giorno mette a confronto uomini e donne. Che cosa porteranno questi nuovi tracciati? Più libertà e opportunità di ricombinare i nostri progetti di vita o una perdita di controllo, e dunque di fiducia, che dal presente contagia in negativo il futuro?
Proviamo a rispondere e partiamo dal mondo del lavoro, dove è in atto una trasformazione radicale. Nuove tecnologie, big data, industria 4.0, economia digitale ad alta intensità di conoscenza e servizi, sempre più globalizzata. I mercati occupazionali registrano rapide ricomposizioni settoriali e professionali. Parafrasando il giovane Marx, tutto ciò che era solido sembra sciogliersi nell’aria. O nell’acqua, se vogliamo ricorrere alla metafora a noi ormai più familiare della “società liquida” di Bauman.
Questi cambiamenti sono quasi sempre visti e raccontati come una gigantesca minaccia: più precarietà, frammentarietà, basse retribuzioni, meno diritti. Di fatto, una flessibilità senza sicurezze – è la famosa flex-insecurity – che taglia le gambe alla corsa naturale dei giovani. La conseguenza è l’impossibilità di raggiungere e mantenere una minima autonomia economica, base necessaria per coltivare relazioni, formare unioni stabili, fare figli, crescerli. Questa minaccia è sentita soprattutto dalle donne. La trasformazione in atto – si dice – sta rallentando il loro cammino, anzi può creare nuove forme di diseguaglianza e discriminazione. Non a caso, in molti Paesi, le madri sole sono oggi le figure più esposte alla vulnerabilità.
I rischi ci sono. Ma non vanno sopravalutati. O meglio: dentro l’onda alta del cambiamento è possibile intravedere sviluppi positivi. Che, se coltivati e sostenuti, possono aprire scenari meno foschi e forse sorprendenti. Per coglierli occorre riflettere su due grandezze, entrambe fortemente collegate alle caratteristiche del lavoro e al suo impatto sociale: reddito e tempo.
Possiamo immaginare di condividere il tempo e il reddito in modi e mondi più avanzati, liberatori di energie e risorse e idee che il disordine – e la paura – stanno contraendo? Siamo abituati ad attribuire più valore al denaro che al tempo. Ma quest’ultimo si sta rivelando una risorsa preziosissima. Soprattutto se è tempo “scelto”, “discrezionale”: quello che ci consente di tenere in equilibrio bisogni/aspirazioni e dunque di dare identità ai nostri piani di vita. Si tratta dell’unico tempo capace di aprire spazi di cambiamento. Nei sondaggi sulla qualità della vita “la mancanza di tempo” è sempre ai primi posti (anche più del reddito) come motivo di insoddisfazione. E molte ricerche segnalano quanto la time poverty giochi un ruolo decisivo (pari se non superiore alla income poverty) nel condizionare le scelte di relazione e soprattutto di procreazione.
Il lavoro “solido” d’antan (il trentennio 1945-1975, apogeo dell’era fordista) offriva più sicurezza economica e più garanzie sociali. Ma poggiava su rigide partizioni del ciclo di vita (istruzione, lavoro, pensionamento) e dei tempi di vita (orari e calendari fissi, scarsamente allineati da settore a settore). Il lavoro retribuito era sottoposto a ritmi certi. Era il lavoro non retribuito (cioè la cura) l’unica “variabile dipendente”. I suoi momenti e le sue forme dovevano semplicemente adattarsi a tutto il resto: nessun reddito, nessun tempo scelto. Nella società solida il reddito era, sì, più sicuro; il tempo era però fortemente vincolato: era ingabbiato. E’ quasi superfluo aggiungere che la “mancanza di tempo” ha sempre afflitto – e tuttora affligge – molto di più le donne, soprattutto le madri che lavorano. Per questo, quando nel 2011 progettammo uno spazio editoriale attento alle vite delle lettrici, finimmo per scegliere un nome legato a questo tormento quotidiano: nacque così il blog La27esima ora. Le cose stanno finalmente cambiando: poco, mai abbastanza, le asimmetrie resistono, stridono, ma la decostruzione di quelle gabbie è cominciata. Più dati segnalano che sta crescendo la quota di maschi per i quali la vita di relazione e la cura dei figli sono importanti, spesso più del lavoro. E’ il grande salto che la nostra inchiesta sugli Uomini e i segni del cambiamento ha tratteggiato, cercando di individuare gli atterraggi possibili di questo tuffo via da scogli secolari.
E’ considerando questo doppio sfondo – le donne che continuano a spingere per la propria libertà economica; gli uomini che guardano al proprio tempo con uno sguardo meno condizionato da modelli culturali rigidi – che diventa possibile mettere a fuoco potenzialità spesso nascoste tra le accelerazioni del mondo del lavoro. La società liquida potrebbe scoperchiare le tradizionali scatole chiuse dei tempi e contrastarne le conseguenze, lo sfinimento che ci chiude lo sguardo. Nel “lavoro 4.0” il rapporto fra tempo e produzione (inclusi i servizi) diventa molto più elastico. Certo, l’eliminazione degli orari fissi può originare nuove schiavitù che vanno innanzitutto “viste” e subito affrontate per arginarle. Tuttavia per la maggioranza delle mansioni a medie qualifiche e la quasi totalità di quelle ad alte qualifiche, la riorganizzazione spazio-temporale del lavoro può – potrebbe – ormai liberarsi degli schemi punitivi, svuotati, della società solida. Le persone diventano più libere di definire e negoziare “pacchetti” di reddito/tempo coerenti con le fasi del ciclo di vita che si attraversano (in particolare quando nascono i bambini), più in armonia con idee e desideri, individuali e di coppia.
Il “lavoro 4.0” è per ora soltanto terra emergente. Come in tutte le transizioni, ci saranno passi indietro, peggioramenti, effetti perversi sottovalutati o ignorati. Lo scenario positivo è solo un “futuribile”, un futuro possibile. Che va costruito e prima ancora scelto. Tre fattori, in particolare, possono determinare l’esito della partita – o di tutto il campionato, partita dopo partita.
Il primo è il welfare. Deve diventare a sua volta 4.0: riallinearsi alle dinamiche della società liquida. A dispetto delle tante riforme firmate negli ultimi due decenni, lo stato sociale è ancora calibrato sulla società solida: ad essere generosi, siamo passati dall’1.0 al 2.0. Un welfare capace di sostenere il futuribile che stiamo immaginando deve concentrare i propri sforzi sulla “capacitazione” (enablement): formazione e mantenimento nel tempo del capitale umano; servizi a sostegno della procreazione, della genitorialità, della prima infanzia; erogazione di prestazioni sotto forma di “tempo liberato” oltre che di reddito. Sono i “pacchetti tempo/reddito” flessibili e spalmabili lungo l’arco della vita. Nel disegnare i nuovi servizi e le nuove garanzie, è necessario considerare l’introduzione coraggiosa di fattori correttivi a favore delle donne e in particolare delle madri che lavorano. Così come di premi per gli uomini che si dedicano alla cura delle persone.
Il secondo fattore è personale. La time poverty non è solo un retaggio della società solida, dell’economia fordista. Gli studi segnalano che, in parte, è auto-inflitta: facciamo molto di più di quanto sarebbe necessario per condurre una vita dignitosa e confortevole. Secondo alcuni calcoli, in media una persona adulta europea dedica al lavoro retribuito e al lavoro di cura il doppio (sic) del tempo strettamente necessario e circa il 25% in più per la cura della propria persona. Senza una maggiore consapevolezza, tra tutti noi, di quanto “la mancanza di tempo” di cui ci lamentiamo – giustamente – sia in parte auto-inflitta, non andremo a prenderci fino in fondo i vantaggi del lavoro 4.0.
La terza (e cruciale) leva sono gli uomini e dunque, a un livello più profondo, la cultura di base che non solo modella, ma genera dalle fondamenta il quadro di norme, credenze, aspettative, aspirazioni e desideri nel quale i maschi si riconoscono. L’apertura di nuove possibilità di vita è una condizione necessaria, ma non sufficiente affinché queste strade siano effettivamente considerate e percorse. Il cambiamento sociale, soprattutto nella dimensione culturale, è sempre di tipo incrementale. Alcuni maschi hanno oltrepassato la soglia, hanno abbracciato quello che viene definito “un frame post-maschilista”. Il numero cresce, anche nella scia del ricambio generazionale. Tuttavia in Italia, e non solo, siamo ancora lontani dal quel giro di boa oltre il quale un ruscello si trasforma in cascata.
Il vero campo di battaglia è l’habermasiano Lebenswelt: il mondo quotidiano, le cose della vita, gli spazi piccoli e grandi dove le persone definiscono e ridefiniscono se stesse attraverso la pratica e le relazioni. E’ in questo universo di ogni giorno, di tutti i giorni, che si deve affermare la parità: che certo non vuol dire dividere tutto a metà, essere uguali e banali, ma con-dividere, vivere equamente e liberamente. La rivoluzione del nostro Tempo avverrà – avviene – attraverso il confronto tra uomini e donne, uomini e uomini e (sì, anche, non poco) donne e donne.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 9 settembre e qui riprodotto previo consenso dell’autore