Uno sguardo critico al diversity management. E’ la proposta di Maria Cristina Bombelli e Alessandra Lazazzara in un articolo pubblicato nell’ultimo numero della rivista “Sociologia del lavoro” (Franco Angeli) dal titolo Superare il Diversity Management. Come alcune terapie rischiano di peggiorare le malattie organizzative. L’articolo è interessante non solo dal punto di vista del contenuto – nella misura in cui contribuisce alla conoscenza del diversity e più in particolare dei rischi in cui si può incorrere nella sua applicazione – ma anche dal punto di vista del metodo: finora, i contributi scientifici pubblicati in Italia in materia di diversity si sono limitati per lo più a passare in rassegna le best practice aziendali senza valutarne l’efficacia o verificarne l’implementazione. Il paper di Bombelli e Lazazzara intende porsi invece in maniera critica nei confronti delle pratiche di gestione della diversità all’interno delle organizzazioni con l’obiettivo di portarne alla luce i limiti e gettare le basi per una corretta applicazione delle stesse.
Ecco di seguito alcuni tra i “rischi” che le due autrici portano alla luce, con i rispettivi “antidoti” da utilizzare.
1) Spesso il diversity può peggiorare lo stigma sociale: identificare il “diverso” sulla base della sua appartenenza a una “categoria” (e quindi pensare la “diversità” come caratteristica comune tra gli individui all’interno di un gruppo omogeneo) può peggiorare, anziché, migliorare, l’esclusione di alcune persone. E’ il caso, ad esempio, di un disabile cieco: “Ho lottato per tutta la vita per sentirmi uguale agli altri e oggi mi sento relegato nella mia infermità perché la mia azienda ha istituito un gruppo di disabili al suo interno” (Bombelli e Lazazzara 2014). Alla luce di questa considerazione, le due autrici propongono di sostituire il concetto di diversità con il concetto di pluralità: se l’appartenenza a una categoria omogenea comporta un maggiore rischio di esclusione, quest’ultimo può essere evitato pensando la gestione della diversità a partire dalle caratteristiche delle persone e non più a partire dal gruppo di appartenenza. La proposta è importante perché ripercorre, adattandola al diversity, la necessità del superamento del binomio uguaglianza versus differenza (Scott 1988) evocata dalla riflessione femminista in chiave post-strutturalista.
2) Senza integrazione tra diversity e risorse umane, l’esclusione aumenta anziché diminuire: il diversity serve a ben poco se le regole di recruitment non sono trasparenti o meritocratiche, o ancora se chi si occupa di promozioni non ha consapevolezza di quei bias (di genere, età, etnia, ecc.) che inficiano la valutazione delle performance, o infine se l’azienda consente modalità contrattuali di precariato reiterato. Così, le due autrici mettono in guardia, per esempio, dalla “gestione dei talenti”, pratica che le aziende adottano per far fronte al turn over del management e che, se gestita male, rischia di replicare meccanismi di segregazione sulla base, ad esempio, dell’età. “Bocciato” anche il voto di laurea come criterio di assunzione poiché, secondo le due autrici, impedisce di prendere in considerazione altre competenze. Si tratta, quest’ultima, di una proposta suggestiva ma che potrebbe comportare alcuni rischi qualora fosse applicata indistintamente a tutte le tipologie di “minoranze”. Ad esempio, prendere in considerazione competenze diverse da quelle scolastiche potrebbe influire positivamente sull’assunzione di un disabile ma potrebbe essere controproducente se applicata a una donna. Se il voto di laurea non è sostituito da criteri altrettanto chiari e di semplice interpretazione, il rischio infatti è che le disuguaglianze di genere aumentino, anziché diminuire. E’ noto che l’utilizzo di criteri di selezione oggettivi riduce l’impatto dei gender schema sulle valutazioni (Valian 1998). Inoltre, considerando che le donne necessitano di credenziali educative superiori a quelle degli uomini per poter accedere alla medesima posizione lavorativa (Reskin e Ross 1990), il rischio – togliendo il voto di laurea – è di rendere ancora più arbitraria la selezione.
Certamente meno problematico è invece l’invito, che le due autrici rivolgono ai recruiters, a prendere in considerazione i percorsi scolastici non lineari. Ben vengano una maggiore trasparenza nelle regole, una migliore consapevolezza degli unconsicous bias da parte di chi seleziona il personale e, in generale, una più stringente coerenza tra pratiche di gestione della diversità e pratiche di gestione delle risorse umane.
3) C’è poi il gap tra il dire e il fare: il diversity management, così come le politiche di welfare aziendale, sono diventati oggetto per le aziende di comunicazione esterna, che in molti casi però non si traduce in un vero impegno verso i dipendenti. E’ il caso di un gruppo di aziende che, di recente, si sono impegnate pubblicamente a non fissare le riunioni dopo le ore 18 per consentire di conciliare meglio vita e lavoro. I dipendenti, tuttavia, raccontano che nulla è stato fatto in proposito. A poco servono, insomma, le politiche di gestione delle diversità se sono solo un modo per migliorare l’immagine dell’azienda.
4) Non c’è efficacia senza valutazione: spesso le politiche di diversity vengono implementate senza una corretta valutazione dei risultati attesi. E’ il caso, per esempio, degli asili nido aziendali, che dopo un iniziale entusiasmo sono stati abbandonati perché poco utilizzati. E’ necessario quindi “svolgere un’analisi del fabbisogno della propria realtà individuando le esigenze sia da una lettura della composizione della forza lavoro (…), che approfondendo in termini qualitativi, ad esempio attraverso focus group, le eventuali criticità presenti e le linee di esclusione operanti nella cultura organizzativa” (Bombelli e Lazazzara 2014).
Pensare il diversity in termini di pluralità, aumentare la coerenza tra diversity e risorse umane, tradurre in pratica i proclami, analizzare i fabbisogni e valutare l’impatto delle politiche. Andare, insomma, al di là dell’apparenza: sono gli utili suggerimenti avanzati dalle due autrici. Utili a chi le politiche le fa, ma anche a chi le analizza. Al ricercatore che intende occuparsi di politiche aziendali, il monito (implicito) è di andare al di là della dimensione descrittiva, del racconto delle policies fatto dal management e dagli HR per verificare cosa effettivamente di quelle politiche viene implementato e quali sono gli outcomes per l’azienda e per i lavoratori. Il merito di quest’articolo è quello di mettere in guardia, stimolare la riflessione, aprire nuovi campi di ricerca. Vale per il diversity così come per tutte le politiche di welfare aziendale: difficilmente ora si potrà tornare indietro.
Riferimenti bibliografici
Bombelli, M.C. e Lazazzara, A. (2014), Superare il Diversity Management. Come alcune terapie rischiano di peggiorare le malattie organizzative, in «Sociologia del lavoro», n. 134, pp. 169-188.
Reskin, B.F. e Roos, P.A. (1990), Job queues, gender queues: Explaining women’s inroads into male occupations. Philadelphia: Temple University Press.
Scott, J.W. (1988), Deconstructing equality versus difference or, the uses of poststructuralist theory for feminism, in «Feminist Studies», vol. 14, n.1, pp. 33-50.
Valian, V. (1998), Why So Slow? The Advancement of Women, MIT Press.