Durante la crisi, l’occupazione femminile è diminuita un po’ meno di quella maschile. L’ultima rilevazione Istat segnala ora che i 23 mila nuovi posti di lavoro creati in giugno sono andati quasi tutti alle donne. Un fenomeno già registrato qualche mese in passato, ma oggi particolarmente significativo perché batte un record. Dal 1977 non era mai successo che l’occupazione femminile si attestasse al 48,8%.
Nell’Unione Europea restiamo ancora il fanalino di coda: la strada da percorrere è ancora lunga. Quando c’è un divario, tuttavia, le tendenze sono più importanti dei valori assoluti. Ciò che conta è procedere, accorciare le distanze. Speriamo dunque che la ripresa economica si consolidi e che il mercato del lavoro resti aperto ed «amichevole» verso le donne.
In Italia esiste un bacino enorme di persone inattive che vorrebbero lavorare: sedici su cento, quasi il triplo della media Ue. La stragrande maggioranza sono donne, le quali non cercano attivamente occupazione perché scoraggiate e/o sovraccariche di oneri familiari. Molte di queste donne non sono mai riuscite ad entrare nel mercato occupazionale. Altre sono uscite con l’arrivo dei figli e, in assenza di sostegni alla conciliazione, sono rimaste in casa. In larga parte, si tratta di donne istruite, che hanno investito a lungo nello studio (anche se non sempre nei settori educativi più richiesti dal mercato). Le statistiche segnalano peraltro che il nostro Paese è caratterizzato da un’elevatissima percentuale di donne «sovra-qualificate» rispetto alle mansioni svolte.
Il problema è particolarmente grave nel Sud. Qui lavorano solo 33 donne su cento, rispetto alle 58 del Nord e alle 55 del Centro. Quando trovano un posto, le donne delle regioni meridionali hanno maggiori probabilità di ottenere contratti irregolari, con basse retribuzioni, non adeguati rispetto alle competenze. Per non parlare della forte inadeguatezza dei servizi sociali e dei nidi.
Seppure confortante, l’aumento dell’occupazione femminile reso noto dall’Istat è solo di natura congiunturale. Che fare per renderlo strutturale, o quanto meno stabile nel tempo? Sulla cosiddetta agenda donne si sono già formulate, anche sul Corriere, moltissime proposte: servizi, orari, congedi, coinvolgimento dei padri, incentivi contributivi e fiscali e così via. Il vero problema sono le mancate realizzazioni. Negli anni fortunati, l’agenda donne viene discussa dai politici, per poi restare appunto una semplice agenda (un insieme di cose ancora tutte da fare). Negli anni sfortunati, di donne non si parla proprio: il tema resta fuori dalla discussione, dai progetti, dalle priorità di governo. Dai dibattiti in corso, il 2017 rischia di ingrossare le fila degli anni sfortunati. Il lavoro femminile — quello che c’è, ma soprattutto quello che manca — rischia così di restare la grande risorsa sprecata del nostro paese. Un’opportunità mancata per renderlo più ricco, equo, inclusivo.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 31 luglio e qui riprodotto previo consenso dell’autore