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La bufera sull’articolo 18 si sta finalmente placando. Il compromesso raggiunto sui licenziamenti disciplinari è ragionevole. Ora è bene concentrarsi sui punti davvero decisivi per il Jobs Act. La riscrittura del codice del lavoro, in primo luogo, al fine di semplificare l’attuale giungla di norme e favorire rapporti di lavoro più stabili. Secondo: la riforma degli ammortizzatori sociali. Rispetto al sistema attuale, servono molte “aggiunte” per tutelare adeguatamente tutti i disoccupati. Ma bisogna anche sfrondare (e di molto) la cassa integrazione, a cominciare da quella in deroga, che è diventata un carrozzone iniquo, inefficace e mangiasoldi. Infine, occorre una rivoluzione delle politiche attive, ossia i servizi per la ricollocazione di chi perde il lavoro.

I critici del Jobs Act chiedono che il governo stanzi più risorse con la legge di stabilità. La richiesta è sensata, ma nessuno sembra preoccuparsi delle questioni progettuali e organizzative, che sono forse più importanti. Nella tradizione italiana, riformare significa cambiare le norme e, quasi sempre, spendere più soldi. Senza un disegno coerente, incentivi efficienti, capacità organizzative e di attuazione non si va però da nessuna parte. Il governo ha incaricato un gruppo di esperti di pensare concretamente a questi aspetti. Era ora, è il caso di dire.

Per la riuscita del Jobs Act la gestione della “condizionalità” (il collegamento tra la fruizione dei sussidi e la disponibilità al lavoro) o la creazione di un’Agenzia nazionale del lavoro, che superi la frammentazione regionale e governi in modo intelligente l’incontro fra domanda e offerta, conteranno molto di più delle regole sui licenziamenti. Non s’illuda Matteo Renzi di poter dire “missione compiuta” dopo l’approvazione della legge delega o dei decreti delegati. La vera battaglia (quella sul campo) comincerà dopo. E non sarà una passeggiata.

Questo articolo è stato pubblicato anche sul Corriere della Sera del 15 novembre (p.24)

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