Il salario minimo in Italia è al centro del dibattito da diversi mesi e anche Secondo Welfare se ne è occupato in queste settimane. Sul tema, riceviamo e pubblichiamo questo contributo di Luca Furfaro, consulente del lavoro. |
Il tema della giusta retribuzione è da sempre al centro del dibattito italiano, soprattutto nelle ultime settimane in cui si è tanto discusso di salario minimo. La questione è però molto complessa, soprattutto considerando la diversità dei settori lavorativi le cui caratteristiche spesso sono siderali. La quantificazione della giusta retribuzione è sempre stata prevista ma mai resa certa con l’applicazione di una contrattazione collettiva adeguata. Come primo passo, è necessario mettere a fuoco il problema e capire come oggi la remunerazione di un dipendente sia composta da una serie di elementi e garanzie che vanno oltre la semplice retribuzione.
La situazione in Italia, tra salario minimo e contrattazione collettiva
L’articolo 36 della Costituzione sancisce che il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro che svolge e in grado di garantire un’esistenza libera e dignitosa. Non esiste, quindi, una vera e propria legge che fissi un minimo retributivo legale e determini un valore fisso economico che il datore di lavoro debba osservare: i minimi retributivi sono quindi garantiti dall’esteso – e forse troppo capillare – sistema di contrattazione collettiva.
L’Italia è uno dei Paesi europei con il più alto tasso di copertura contrattuale. Escludendo il settore agricolo e domestico, di cui non si hanno informazioni precise, secondo il CNEL a fine 2022 circa 12,8 milioni di lavoratori dipendenti di aziende private sono stati coperti da CCNL, essendo stati registrati presso l’Organismo governativo circa 946 contratti collettivi nazionali, per una incidenza sul totale degli occupati attorno al 96,5%. Questi numeri inquadrano l’Italia come un Paese con una copertura contrattuale superiore al livello minimo previsto dalla direttiva europea sul salario minimo. Secondo la direttiva, infatti, la quota minima di copertura dei lavoratori non deve essere posta al di sotto dell’80%. In caso contrario, lo Stato dovrebbe assumersi il compito di definire un piano di azione volto a promuovere la contrattazione o ad arrivare alla definizione di un salario minimo, al fine di aumentare le tutele sui salari. Tuttavia, la direttiva non indica un valore minimo di salario applicabile a tutti i lavoratori, né tanto meno obbliga gli Stati a definire una legge sul salario minimo legale, bensì privilegia il criterio della contrattazione.
La maggior parte dei lavoratori aderisce a una tipologia contrattuale ristretta: più di 12 milioni, ovvero il 97,1% dei lavoratori che rientrano nelle numeriche del CNEL, sono coperti da contratti sottoscritti da categorie associate a Cgil, Cisl e Uil e la soglia minima retributiva, per la maggioranza dei contratti più rappresentativi, si aggira attorno ai 9 euro.
Secondo una ricerca svolta dalla Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro (2023), che ha preso in esame 63 contratti tra i più rappresentativi, circa 39 contratti presentano minimi superiori ai 9 euro, 22 invece oscillano tra 8 e 8,9 euro e i restanti hanno un contratto con un salario inferiore agli 8 euro. In altre parole, il 47,8% dei contratti ha minimi superiori ai 9 euro, il 18,2% è poco al di sotto dei 9 euro e infine solo l’1% ha una retribuzione inferiore agli 8 euro. Alla luce di queste numeriche, si può affermare che l’introduzione del salario minimo si applicherebbe a una quota ridotta dei lavoratori. In questo quadro, inoltre, l’introduzione del salario minimo sarebbe equivalente a poco più di 50 euro netti mensili, giovando al lavoratore stesso in maniera non così significativa nel parere di chi scrive. Servirebbe quindi davvero un salario minimo alle condizioni discussione nelle ultime settimane? L’esigenza di adeguamento dei salari non può essere elusa, ma è necessario individuare la strada migliore per conseguirla.
Il vero cuore del problema e i fattori su cui riflettere
Bisogna anzitutto considerare che la remunerazione non si limita oramai solamente alla retribuzione, ma esistono anche tanti altri componenti che formano il concetto di total reward. L’articolo 36 della Costituzione italiana ci dice che il lavoratore deve avere una retribuzione sufficiente e proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato, ma non esiste un rimando diretto e certo a quale minimo applicare. In altre parole, abbiamo più di 900 contratti collettivi ma non tutti sono rappresentativi poiché bisogna considerare anche il settore di cui si parla. Altro punto fondamentale che non può essere trascurato è costituito da tutti gli aspetti correlati al tema: le disuguaglianze retributive annuali derivano da diversi fattori, oltre che dalla natura stessa della posizione lavorativa: retribuzione oraria, intensità mensile dell’occupazione, numero di ore lavorabili e altri ancora.
Nella contrattazione collettiva, inoltre, la retribuzione minima è solo un piccolo aspetto che si aggiunge a tutte le altre misure minime previste come ad esempio il welfare contrattuale, la remunerazione degli straordinari, la previdenza complementare, gli enti bilaterali o ancora l’assistenza sanitaria integrativa. In tale contesto emerge dunque che il problema del salario minimo costituisce solo la punta dell’iceberg di un tema ben più ampio e un intervento legislativo volto a imporre un salario minimo risulterebbe semplicistico e limitato rispetto alla tutela effettiva di chi lavora. Imporre una retribuzione minima potrebbe infatti spingere le aziende a guardare alla cosiddetta contrattazione “pirata”, ovvero quella non rappresentativa, e ad adottare la strategia di rispettare il salario minimo privando però i lavoratori di tutele presenti nelle altre componenti non retributive.
Inoltre, l’innalzamento generalizzato delle retribuzioni sarebbe contrario ad una politica di incentivazione meritocratica dei lavoratori e di contrattazione anche individuale. Altra cosa poi da non sottovalutare sarebbe il rischio di un innalzamento del costo del lavoro per le aziende che potrebbe portare verso la richiamata contrattazione “pirata”.
Salario minimo: è necessario non cristallizzare il dibattito
Il dumping contrattuale è da sempre un problema: lo stesso si potrebbe sviluppare non tanto sulla retribuzione minima bensì sugli altri elementi, creando contratti collettivi che se da un lato rispettano il salario minimo di 9 euro, dall’altro non hanno l’assistenza sanitaria integrativa, non hanno un ente bilaterale, neppure il welfare contrattuale e la previdenza integrativa, e magari offrono poche tutele ai lavoratori su preavviso e periodo di prova, oltre ad altre previsioni che rimandano alla contrattazione collettiva (straordinari, permessi, tutela malattia etc..)
Possibili soluzioni
Alla luce di questi dati, ad avviso di chi scrive l’attenzione andrebbe spostata dal tema del salario minimo a quello della contrattazione collettiva, ovvero sui criteri definitori di rappresentatività del lavoro stesso.
Imporre dei minimi non arginerebbe il problema poiché rimarrebbero irrisolti tutti gli altri aspetti sopracitati. Più che mettere un tetto per tutti, una possibile chiave potrebbe essere quella di lavorare sulla contrattazione collettiva rappresentativa e di qualità, dare delega precisa per la determinazione dei salari minimi per creare un mercato del lavoro che trovi l’equilibrio tra costo del lavoro e salario. Punire l’utilizzo della contrattazione collettiva non rappresentativa è da sempre obiettivo delle ispezioni, ma il grande tema di base è avere la certezza sulla sua definizione. Tale punto eliminerebbe ogni dubbio, e le aziende virtuose sarebbero tutelate e potrebbero essere competitive avendo chiari i criteri minimi di tutela e di costo.
Un sistema rappresentativo poi ridurrebbe il numero, esorbitante oggi, di contratti collettivi nazionali, creando un vero sistema minimo di garanzie remunerative.
Per approfondire
Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro (2023), Salario minimo in Italia: elementi per una valutazione