All’interno del Pilastro europeo dei diritti sociali l’enfasi sulle competenze è notevole. Istruzione, formazione e apprendimento permanente vengono citati fin dal primo principio. “Ogni persona – vi si legge – ha diritto a un’istruzione, a una formazione e a un apprendimento permanente di qualità e inclusivi, al fine di mantenere e acquisire competenze che consentono di partecipare pienamente alla società e di gestire con successo le transizioni nel mercato del lavoro”.
Perché l’Europa sia più sociale e abbia un numero sempre minore di cittadini a rischio povertà ed esclusione – è il ragionamento – bisogna innanzitutto aumentare il numero di persone che hanno un’occupazione e, per farlo, acquisire e mantenere competenze è cruciale.
Per questo, tra i tre obiettivi sottoscritti a Porto dai leader Ue, dopo quello che riguarda l’occupazione, viene quello dedicato alle competenze: entro il 2030, almeno il 60% di tutti gli adulti dovrebbe partecipare ogni anno a attività di formazione. Il traguardo è ambizioso. Nel 2016, l’ultimo anno per cui ci sono dati disponibili, nessun Stato membro toccava questa percentuale. Solo la Svezia ci andava vicina con un 58% mentre l’Italia si fermava poco sotto il 34%, a qualche punto dalla media continentale del 34,7%.
Come raggiungere gli obiettivi
Francesco Seghezzi, presidente Fondazione ADAPT, ammette che “non è certo una sfida semplice”, ma a suo modo sembra ottimista. “Si tratta di una meta raggiungibile in dieci anni, a patto che oltre alle risorse da investire maturi anche la consapevolezza culturale di imprese e lavoratori rispetto al valore della formazione”, sostiene. La sfida verrà giocata soprattutto su due campi, quelli della transizione digitale e della transizione ambientale. “Sono i due filoni – riprende Seghezzi – per i quali sono e saranno stanziate importanti risorse quindi non si può che partire da qui”.
Nel luglio dello scorso anno, la Commissione Ue ha approvato una nuova Agenda europea per le competenze, un piano quinquennale che era stato adottato per la prima volta nel 2016. L’agenda è fatta di 12 azioni in cinque aree di intervento, si monitora attraverso quattro indicatori e verrà finanziata, oltre che indirettamente da Next Generation EU, anche da altri canali strutturali del bilancio comunitario, come il Fondo Sociale Europeo Plus, il programma Erasmus e il programma di investimenti europei InvestEU. “La Commissione UE – spiega Eurofound – sta ponendo le competenze al centro dell’agenda politica dell’UE per aiutare a raggiungere una ripresa sostenibile dall’impatto del COVID-19”. Le azioni previste, che gli Stati membri sono chiamati a mettere in pratica soprattutto attraverso i loro piani di ripresa e resilienza, sono numerose e diverse e, in particolare:
- un patto per le competenze;
- rafforzare la comprensione della domanda e dell’offerta di competenze;
- sostegno dell’UE all’azione strategica nazionale di miglioramento delle competenze;
- proposta di raccomandazione del Consiglio sull’istruzione e formazione professionale per la competitività sostenibile, l’equità sociale e la resilienza;
- lancio dell’iniziativa sulle università europee e miglioramento delle competenze di ricercatori e scienziati;
- competenze per supportare le transizioni verde e digitale;
- aumento dei laureati STEM;
- apprendimento non formale, lungo tutto l’arco della vita, intergenerazionale, interculturale e comunitario;
- conti individuali di formazione (individual learning account – ILA);
- un approccio europeo alle “microcredenziali;
- nuova piattaforma Europass;
- sbloccare gli investimenti nelle competenze dei privati e degli Stati membri.
Il ruolo della digitalizzazione
Il digitale, in particolare, potrebbe avere un ruolo centrale nel far crescere la formazione e le competenze tra gli adulti, soprattutto alla luce di quanto successo durante la pandemia.
“Nel percorso verso un mondo post-Covid, la tecnologia e i nuovi modelli commerciali cambieranno il volto delle industrie e delle economie, ridefinendo i posti di lavoro e il fabbisogno di competenze e trasformando per sempre il nostro modo di lavorare e di imparare”, ha scritto in un suo recente documento il Cedefop, il Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale. “La pandemia – prosegue – ha stimolato la domanda di competenze digitali a tutti i livelli: stanno diventando rapidamente un requisito trasversale praticamente in tutte le professioni e in tutti i settori”.
Attenzione però. Il digitale da solo potrebbe non bastare. “Non vedo, da parte della Commissione UE, un orizzonte che vada oltre le competenze digitali”, mette in guardia Silvia Rainone, ricercatrice dello European Trade Union Institute – ETUI. “La formazione – aggiunge – deve essere focalizzata sulle persone più vulnerabili, per età o esperienze. Penso ai migranti o ai cinquantenni che lavorano in aziende in crisi”. Non solo. Secondo Francesco Lauria, “l’occupabilità non deve ricadere sulle spalle del singolo lavoratore, ma è una sfida di responsabilità̀ e di impegno attivo dell’intera società̀ che lo circonda. Lo ha ben spiegato Amartya Sen”.
Lauria è responsabile nazionale Cisl per la formazione europea e membro del management board di Cedefop. A suo parere, “la formazione permanente deve essere promossa come leva per l’occupabilità, correttamente intesa, e come chiave di cittadinanza attiva per la riduzione delle disuguaglianze fuori e dentro il mercato del lavoro”.
Conti e risorse per la formazione
Il punto è questa visione con quali strumenti può essere costruita. Nell’Agenda europea per le competenze, tra gli altri, sono indicati i conti individuali di formazione (individual learning account – ILA) e le cosiddette socredenziali. I primi danno alle persone in età lavorativa un budget da spendere in formazione per migliorare le loro competenze e l’occupabilità e sono al centro di un’iniziativa della Commissione UE. Secondo l’esecutivo europeo aiutano “a colmare le lacune esistenti nell’accesso alla formazione per gli adulti in età lavorativa”, ma lasciano perplessi o freddi diversi interlocutori.
I sindacati europei riuniti nell’European Trade Union Confederation – ETUC hanno pubblicato a giugno un documento sul tema. “ETUC – vi si legge – ritiene che sia importante che l’iniziativa dell’UE [sulla formazione] assuma un punto di vista più ampio e si concentri sulla garanzia del diritto di accesso alla formazione e su un migliore finanziamento dell’apprendimento degli adulti e della formazione dei dipendenti, utilizzando diversi strumenti finanziari e non solo i conti individuali di apprendimento”.
Anche Valeria Ronzitti non è convinta che “i conti individuali di formazione possano risolvere tutti i problemi”. Ronzitti è segretario generale dell’associazione europea di rappresentanza delle imprese dei servizi di interesse generale SGI Europe e teme che con questo strumento, “le formazioni vengono delegate ad agenzie esterne che non conoscono bene i settori in cui sono chiamate ad operare. C’è il rischio che sia un’operazione di facciata”. Maxime Cerutti, direttore per gli affari sociali della Confederazione europea delle imprese Businesseurope, è su posizioni simili. “Per raggiungere un obiettivo ambizioso come quello del 60% di adulti formati ogni anno, mi auguro che la Commissione Ue non si avvalga degli account individuali. Non centrano il bersaglio. Dare la responsabilità della formazione alle parti sociali è più efficace”, spiega.
Microcredenziali e transizione green
Le microcredenziali, invece, sono “una forma di apprendimento altamente flessibile e inclusiva che permette l’acquisizione mirata di abilità e competenze”. Sono corsi o moduli svolti in presenza o da remoto, organizzati da enti pubblici o privati, ma meno impegnativi di percorsi di formazione più lunghi e strutturati. In pratica, sono piccoli pacchetti formativi che i lavoratori possono acquistare anche grazie al proprio conto individuali di formazione. Secondo Lauria, sono entrambi strumenti “da non demonizzare, ma nemmeno da accettare acriticamente”.
A fronte delle transizioni digitale e verde in corso, prosegue, “è indubbio che si creerà una situazione con significativi gap di competenze e di conoscenze in vasti strati della popolazione lavorativa. Questi divari, tuttavia, non saranno omogenei e non potranno essere affrontati con una formazione standard identica per tutti, magari basata su “pillole” somministrate a distanza, digitalmente e senza alcun tutoraggio reale, fuori dall’orario di lavoro. A fronte di un sistema delle imprese che, inevitabilmente, deve ripensare in buona parte la propria domanda formativa ed enti di formazione che propongono troppo spesso corsi già sperimentati e ripetitivi, la scommessa della rigenerazione complessiva del sistema della formazione in Italia sta anche nel suo collegamento con gli strumenti del welfare”.
Il punto è cruciale anche per Sebastiano Sabato, senior researcher dell’Observatoire social européen (OSE), che torna ad affrontarlo da un punto di vista europeo. “Bisogna evitare di avere una visione troppo ristretta, che riduca la transizione a formazione, training professionale e politiche attive del lavoro, senza tenere conto delle tradizionali politiche di protezione sociale. Serve un approccio bilanciato, ma pensare che basti formare le persone per i nuovi lavori, se e quando questi ci saranno, è un’illusione”. A suo parere, migliorare le competenze dei lavoratori e fornirne loro di nuove è importante, ma lo è altrettanto garantire sostegni e aiuto a chi non dovesse temporaneamente riuscire ad usarle, quelle competenze. “Gli schemi di protezione sociale – conclude – sono fondamentali per essere sicuri che la transizione sia equa e sia anche percepita come tale”.
#EuropaSociale
Questo approfondimento è parte della serie #EuropSociale, curata da Paolo Riva per Secondo Welfare. Il suo obiettivo è comprendere se e quanto il summit di Porto, che ha rimesso al centro del dibattito continentale il Pilastro europeo dei diritti sociali, sarà importante per definire il futuro dell’Unione Europea. Di seguito trovi la prima puntata e la seconda puntata.